CORTE DI CASSAZIONE sentenza n. 5056 del 15 marzo 2016
LICENZIAMENTO – PRESTAZIONE – LUOGO DI SVOLGIMENTO – LOCALI AZIENDALI – RIFIUTO – SUSSISTE
FATTO
Con sentenza del 17.5.2012, la Corte di appello di Salerno confermava la statuizione di primo grado che aveva rigettato l’impugnativa proposta da G.V. avverso il licenziamento intimatole dalla s.c. a r.l. Dike.
Rilevava in particolare la Corte che affatto ingiustificato doveva ritenersi il rifiuto opposto dalla lavoratrice di eseguire la propria prestazione non piu’ a domicilio, ma presso i locali dell’azienda, e che il mancato pagamento di talune retribuzioni non poteva costituire valido presupposto per l’esercizio dell’eccezione di inadempimento.
Per la cassazione di questa sentenza ricorre G.V. con ricorso affidato a due motivi. Resiste la societa’ con controricorso. Entrambe le parti hanno depositato memoria.
DIRITTO
Con il primo motivo, la ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 2103 c.c. nonche’ di non meglio precisate norme di diritto e di contratti collettivi ed altresi’ omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per avere la Corte di merito ritenuto la legittimita’ dell’ordine aziendale di mutare il luogo della prestazione dal suo domicilio alla sede dell’azienda. Il motivo e’ infondato. Premesso che nella specie la lavoratrice non lamenta un mutamento di mansioni, bensi’ un aggravio della prestazione che, a suo dire, deriverebbe appunto dalla necessita’ di disimpegnarla non piu’ presso il proprio domicilio, bensi’ nei locali aziendali, e’ sufficiente al riguardo rilevare che la determinazione del luogo della prestazione lavorativa rientra nella potesta’ organizzativa datoriale e incontra un limite solo nelle previsioni dettate in materia di trasferimento del lavoratore, che nel caso in esame non sono suscettibili di venire in rilievo in ragione dell’impossibilita’ di ravvisare un’autonoma unita’ produttiva presso il domicilio del dipendente, ivi potendo a tutto concedere situarsi una dipendenza aziendale rilevante ai fini di cui all’art. 413 c.p.c. (cfr. tra le piu’ recenti Cass. n. 23110 del 2010).
Con il secondo motivo, la ricorrente lamenta violazione dell’art. 1460 c.c. nonche’ omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per avere la Corte ritenuto insussistenti i presupposti per un valido esercizio dell’eccezione di inadempimento, nonostante da alcuni mesi ella non percepisse alcuna retribuzione e avesse all’uopo messo in mora la propria datrice di lavoro.
Il motivo e’ inammissibile, dal momento che parte ricorrente non ha riprodotto nel corpo del ricorso l’atto con cui avrebbe messo in mora la propria datrice di lavoro ne’ ha indicato dove sarebbe collocato, facendo laconicamente rinvio “agli atti” (cfr. pag. 5 del ricorso per cassazione). Ed e’ noto che ai fini del rituale adempimento dell’onere imposto alla parte ricorrente dall’art. 366 c.p.c., n. 6 di indicare specificamente nel ricorso anche gli atti processuali su cui si fonda e di trascriverli nella loro completezza con riferimento alle parti oggetto di doglianza, e’ necessario specificare, in ossequio al principio di autosufficienza, la sede in cui gli atti stessi sono rinvenibili (fascicolo d’ufficio o di parte), provvedendo anche alla loro individuazione con riferimento alla sequenza dello svolgimento del processo inerente alla documentazione, come pervenuta presso la Corte di cassazione, al fine di renderne possibile l’esame (cfr. in termini da ult. Cass. n. 16900 del 2015).
Il ricorso, pertanto, va rigettato. Le spese del giudizio di cassazione seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo, disponendosi la distrazione dei compensi relativi allo studio della controversia e alla fase introduttiva del giudizio in favore del precedente difensore della societa’ resistente, dichiaratosi antistatario, e liquidandoli – in ragione del valore indeterminabile della controversia e della sua bassa complessita’ – in Euro 2.200,00 oltre accessori.
Sussistono inoltre i presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di cassazione, che si liquidano in Euro 100,00 per esborsi e in Euro 3.500,00 per onorari, oltre accessori di legge, con distrazione nei termini di cui in parte motiva.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, da’ atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13.
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