CORTE DI CASSAZIONE sentenza n. 5065 del 15 marzo 2016
LAVORO – RAPPORTO DI LAVORO – LAVORO PUBBLICO – FESTIVITA’ NAZIONALI COINCIDENTI CON LA DOMENICA – COMPENSO AGGIUNTIVO – CONTRATTAZIONE COLLETTIVA – SPETTANZA – ACCERTAMENTO
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con sentenza depositata il 29.11.2012 la Corte di appello di Roma, su appello proposto da S. G., S. M., A. M., R. A., R. G., R. G., S. D., S. S., ha confermato la decisione del Tribunale di Viterbo che aveva accolto l’opposizione promossa dal Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca avverso i decreti dei lavoratori, dipendenti dell’amministrazione, ottenuti per il pagamento delle festività nazionali coincidenti con la domenica. A motivo della decisione, la Corte territoriale escludeva l’applicabilità dell’art. 5, terzo comma I. 260/1949 come sost. dall’art. 1 I. 90/1954, in materia dì retribuzione delle festività civili nazionali ricadenti di domenica, al rapporto di pubblico impiego in base alla previsione dell’art. 69, primo comma d.lgs. 165/2001 alla luce dell’art. 1 comma 224 I. 266/2005, ius superveniens applicabile alla controversia in quanto di natura sostanzialmente interpretativa e comunque di efficacia retroattiva, per il collegamento temporale dei suoi effetti con l’avvenuta “stipulazione dei contratti collettivi del quadriennio 1994/1997″ e per la previsione di salvezza dell’esecuzione dei giudicati formatisi alla data di entrata in vigore della presente legge”. Essa negava poi la configurabilità di profili di illegittimità costituzionale della retroattività della norma, non in violazione dell’art. 25 Cost. né in contrasto con il principio di ragionevolezza o con altri valori o interessi costituzionali specificamente protetti; e neppure sotto i profili: di violazione della funzione giurisdizionale, per l’intervento legislativo non sul piano della potestas iudicandi quanto piuttosto su quello generale delle fonti, per l’offerta del modello normativo di riferimento della decisione giudiziale (Corte cost. 432/1997; 334/2000; 229/1999) e quindi non incidente sul diritto di tutela giurisdizionale (Corte cost. 29/2002; 419/2000); né di disparità di trattamento, tanto nei confronti dei lavoratori beneficianti di un tate trattamento retributivo per effetto di anteriore formazione di giudicato (da tale rispetto derivando l’effetto: Corte cost. 229/1999; 15/1995; 167/1996), tanto tra lavoratori del settore privato e del pubblico impiego, per la non omogeneità dei due compendi normativi, rispondenti a caratteristiche e logiche diverse, pertanto incomparabili (Corte cost. 146/2008). Ed infine, neppure la norma denunciata contrastante con il principio di autonomia contrattuale riconosciuto alle OO.SS. dall’art. 39 Cost., certamente non vietante alla contrattazione collettiva dei vari comparti del pubblico impiego una disciplina autonoma in materia di festività cadute di domenica.
Avverso la sentenza, i lavoratori propongono ricorso affidato ad un motivo. Il Ministero ha depositato procura e ha partecipato alla discussione.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. – I ricorrenti deducono violazione e falsa applicazione dell’art. 8 I. 124/1999 e di ogni altra norma in materia, violazione dell’art. 6, primo comma CEDU, illegittimità costituzionale e violazione dei principi generali del vigente diritto comunitario, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3 c.p.c., per la natura non interpretativa, bensì tout court abrogativa (alla luce di critico ed argomentato esame degli artt. 2 e 69 d.lg. 165/2001: quest’ultimo, in particolare, incostituzionale anche per eccesso di delega nell’interpretazione ritenuta siccome inclusiva, tra le norme generali e speciali del pubblico impiego, anche dell’art. 5, terzo comma I. 260/1949, in materia di retribuzione delle festività civili nazionali ricadenti di domenica) dell’art. 1, comma 224 I. 266/2005, pertanto incostituzionale per la sua efficacia retroattiva, direttamente interferente sui giudizi pendenti in favore dell’amministrazione dello Stato, parte in essi e comunque in contrasto con i principi del diritto ad un giusto processo davanti a tribunale indipendente e imparziale posto dall’art. 6 CEDU, nonché della certezza del diritto, della tutela del legittimo affidamento e dell’uguaglianza delle armi del processo garantiti dal diritto europeo (art. 6 n. 2 del Trattato UE e artt. 46, 47, 52, terzo comma della Carta cd. di Nizza, dei diritti .fondamentali dell’UE): del tutto analogamente alla ripercorsa vicenda del diritto del personale A.T.A. della Scuola al riconoscimento dell’intera anzianità in relazione al servizio prestato in favore degli Enti Locali prima del trasferimento d’ufficio alle dipendenze dello Stato.
2. – Il motivo è infondato.
Preliminarmente occorre rilevare come l’indicazione della sua rubrica debba essere sostituita con quella dell’art. 1, comma 224 I. 266/2005 in luogo dell’art. 8 I. 124/1999, siccome evidente refuso (in quanto norma relativa all’inquadramento del personale ATA trasferito dagli enti locali allo Stato e pertanto non pertinente), spiegabile con l’attrazione nella e contaminazione della trattazione della questione qui in esame con la vicenda dell’intervento normativo sul diritto del personale A.T.A. della scuola al riconoscimento dell’intera anzianità riguardante il servizio prestato, siccome prospettata come analoga.
Esso ha stabilito che: “Tra le disposizioni riconosciute inapplicabili dal d.lg. 30 marzo 2001, n. 165, art. 69, primo comma, secondo periodo, a seguito della stipulazione dei contratti collettivi del quadriennio 1994/1997 è ricompresa la I. 27 maggio 1949, n. 260, art. 5, terzo comma, come sostituito dalla I. 31 marzo 1954, n. 90, art. 1 in materia di retribuzione nelle festività civili nazionali ricadenti di domenica. È fatta salva l’esecuzione dei giudicati formatisi alla data di entrata in vigore della presente legge”.
Il citato art. 69 recita quindi: “Salvo che per le materie di cui alfa I. 23 ottobre 1992, n. 421, art. 2, primo comma, lett. c), gli accordi sindacali recepiti in decreti del Presidente della Repubblica in base alla I. 29 marzo 1983, n. 93, e le norme generali e speciali del pubblico impiego, vigenti alla data del 13 gennaio 1994 e non abrogate, costituiscono, limitatamente agli istituti del rapporto di lavoro, la disciplina di cui all’art. 2, secondo comma. Tali disposizioni sono inapplicabili a seguito della stipulazione dei contratti collettivi dei quadriennio 1994-1997, in relazione ai soggetti e alle materie dagli stessi contemplati. Tali disposizioni cessano in ogni caso di produrre effetti dal momento della sottoscrizione, per ciascun ambito di riferimento, dei contratti collettivi del quadriennio 1998-2001”.
Ebbene, la prima norma trascritta, oggetto di odierno scrutinio, deve essere intesa come applicabile a tutti i giudizi in corso e non soltanto de futuro, per la sua indubbia natura retroattiva, risultante dall’ineludibile espressa salvezza prevista soltanto per “l’esecuzione dei giudicati formatisi alla data di entrata in vigore della presente legge”: così come ritenuto dall’insegnamento consolidato di questa Corte (Cass. 20 gennaio 2014, n. 1040, ord.; Cass. 19 marzo 2010, n. 6736; Cass. 17 giugno 2009, n. 14048; Cass. 22 febbraio 2008, n. 4667) e pure dalla recente sentenza della Corte costituzionale 14 luglio 2015, n. 150, intervenuta nelle more del giudizio.
Ed essa è stata correttamente investita da questa Corte (nell’impossibilità di disapplicazione dal giudice comune di norme contrastanti non solo con l’art. 6 CEDU ma anche con l’art. 47 secondo comma e art. 52, terzo comma della Carta dei diritti fondamentali UE: Corte cost. 24 ottobre 2007, n. 348 e n. 349; Corte giust. UE 24 aprile 2012 n. C 571/10 Kamberaj; Corte giust. UE 26 febbraio 2013 n. 617/10, Fransson), con ordinanza di rimessione 20 gennaio 2014, n, 1040, della questione di legittimità costituzionale del citato art. 1, comma 224 I. 266/2005 per contrasto con l’art. 6 CEDU, quale norma interposta integrante il parametro costituzionale espresso dall’art. 117 Cost., primo comma, nella parte in cui impone la conformazione della legislazione interna ai vincoli derivanti dagli obblighi internazionali, sotto il profilo della violazione del diritto dei lavoratori parti private, in virtù della prospettata modifica dell’esito del giudizio favorevole ai ricorrenti secondo una giurisprudenza consolidata nel riconoscimento ai dipendenti pubblici del diritto ad un compenso aggiuntivo in caso di coincidenza della festività con la domenica.
La Corte costituzionale ha ritenuto, con la citata sentenza 14 luglio 2015, n. 150, l’infondatezza della questione sollevata, per la ravvisata natura interpretativa della norma denunciata, coerente con l’obiettivo prefigurato dal d.lg. 165/2001 di definizione con la sola fonte contrattuale del trattamento retributivo del pubblico impiego, con eliminazione di ogni voce extra ordinem, in armonia con il programma di contenimento della spesa pubblica, senza alcuna irragionevolezza della sua efficacia retroattiva e pertanto senza alcun contrasto con l’art. 6 CEDU.
In particolare, ricostruito il quadro normativo di riforma del pubblico impiego (dapprima con il d.lg. 29/1993 e quindi con il d.lg. 165/2001) secondo i nuovi principi della privatizzazione e della contrattualizzazione (nell’assegnazione alla legge del compito di regolare, quanto meno nei principi, l’organizzazione degli uffici ed invece alla contrattazione collettiva la regolamentazione dei rapporti di lavoro dei dipendenti) ed anche ai fine di una razionalizzazione del costo del lavoro pubblico, mediante il contenimento della spesa complessiva per il personale, diretta e indiretta, entro i vincoli della finanza pubblica, il giudice delle leggi ha escluso il prospettato contrasto così più specificamente argomentando: “L’art. 1, comma 224 della legge n. 266 del 2005, nell’annoverare tra le disposizioni riconosciute inapplicabili dall’art. 69, primo comma, secondo periodo, del d.lg. n. 165 del 2001) a seguito della stipulazione dei contratti collettivi del quadriennio 1994/1997, l’art. 5, terzo comma della legge n. 260 del 1949, in base al quale è riconosciuto il diritto ad una ulteriore retribuzione nel caso in cui le festività ricorrano di domenica, si pone in armonia con l’obiettivo di riconoscere alla sola fonte contrattuale il compito di definire il trattamento retributivo, eliminando tutte le voci extra ordinem. … Risulta, pertanto, evidente che la norma censurata si limita ad assegnare alla disposizione interpretata un significato già in essa contenuto, riconoscibile come una delle possibili letture del testo originario, cosicché la portata retroattiva della medesima ‘ non si rivela irragionevole, né si pone in contrasto con altri interessi costituzionalmente protetti (ex plurimis: sentenze n. 257 del 2011, n. 236 del 2009).
Questa Corte ha più volte affermato che, posto che il divieto di retroattività della legge, pur costituendo fondamentale valore di civiltà giuridica, non è stato elevato a dignità costituzionale, salva la previsione dell’art. 25 Cost. per la materia penale, (fra le altre, sentenze n. 156 del 2014, n. 78 del 2012, n. 257 del 2011), deve riconoscersi come “al legislatore non sia precluso di emanare … norme retroattive (sia innovative che di interpretazione autentica), purché la retroattività trovi adeguata giustificazione nella esigenza di tutelare principi, diritti e beni di rilievo costituzionale che costituiscono altrettanti motivi imperativi di interesse generale ai sensi della giurisprudenza della Corte EDU” (sentenza n. 264 del 2012)” (sentenza n. 156 del 2014; così anche, ex plurimis, sentenze n. 78 del 2012, n. 15 del 2012). Questa Corte ha ritenuto che ciò accade allorquando una norma di natura interpretativa persegua lo scopo dì chiarire situazioni di oggettiva incertezza del dato normativo in ragione di un dibattito giurisprudenziale irrisolto o di ristabilire un’interpretazione più aderente all’originaria volontà del legislatore (sentenza n. 311 del 2009; così anche Corte europea dei diritti dell’uomo, sentenza 23 ottobre 1997, N. & P. B. S. ed altri contro Regno Unito), nonché di riaffermare l’intento originale del Parlamento (Corte europea dei diritti dell’uomo, sentenza 27 maggio 2004, OGIS-Institut S. e altri contro Francia) a tutela della certezza del diritto e dell’eguaglianza dei cittadini.
Nella specie, l’art. 1, comma 224 della legge n. 266 del 2005, nell’escludere l’applicabilità ai lavoratori pubblici della norma recante la previsione del diritto ad una retribuzione aggiuntiva nel caso in cui le festività ricorrano didomenica, all’indomani della stipulazione dei contratti collettivi del quadriennio 1994/1997, non ha fatto altro che dare attuazione ad uno dei principi ispiratori dell’intero d.lg. n. 165 del 2001. Tale è da intendersi la contrattualizzazione del rapporto di lavoro pubblico, principio cui era informata la norma interpretata (l’art. 69 del citato d.lg. n. 165 del 2001), nella parte in cui disponeva, in via generale, l’inapplicabilità “delle norme generali e speciali del pubblico impiego”, a seguito appunto della stipulazione dei contratti collettivi del quadriennio 1994-1997. La norma in questione ha chiarito – risolvendo una situazione di incertezza testimoniata dalla presenza di pronunce di segno contrastante (Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza 28 marzo 1981, n. 1803; Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza 10 gennaio 2011, n. 258; Corte dì cassazione, sezione lavoro, sentenza 5 luglio 2006, n. 15331) – che l’art. 5, terzo comma della legge n. 260 del 1949 ha carattere imperativo. Esso è, pertanto, applicabile a tutti i lavoratori dipendenti dallo Stato, dagli enti pubblici e dai pR.ti (Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza 22 febbraio 2008, n. 4667), rientrando fra le “norme generali … del pubblico impiego”, di cui l’art. 69 del d.lg. n. 165 del 2001 stabilisce l’inapplicabilità a seguito della stipulazione dei contratti collettivi, in linea con il principio della onnicomprensività della retribuzione e del divieto di ulteriori corresponsioni, diverse da quelle contrattualmente stabilite (sentenza n. 146 del 2008).
Alla luce di quanto detto, l’intervento interpretativo del legislatore non solo non contrasta con il principio di ragionevolezza “che ridonda nel divieto di introdurre ingiustificate disparità di trattamento;” (sentenza n. 209 del 2010), escluse da questa Corte già nella sentenza n, 146 del 2008 in considerazione della peculiarità del regime del rapporto di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni delineato dal d.lg. n. 165 del 2001 e dai contratti collettivi ivi richiamati, ma neppure determina una lesione dell’affidamento. Il testo originario rendeva, sin dall’inizio, plausibile, come si è già rilevato, una lettura diversa da quella che i destinatari della norma interpretata hanno ritenuto di privilegiare (sentenza n. 170 del 2008), coerente con i principi ai quali è informato il rapporto di lavoro pubblico. Né si ravvisa una lesione delle attribuzioni del potere giudiziario. La norma in esame, infatti, avendo natura interpretativa, ha operato sul piano delle fonti, senza toccare la potestà di giudicare, limitandosi a precisare la regola astratta ed il modello di decisione cui l’esercizio dì tale potestà deve attenersi, definendo e delimitando la fattispecie normativa oggetto della medesima (sentenza n. 170 del 2008), proprio al fine di assicurare la coerenza e la certezza dell’ordinamento giuridico (sentenza n. 209 del 2010)”.
Dalla lettura della sentenza n. 150/2015 della Corte costituzionale si ricavano all’evidenza tutte le ragioni per disattendere il motivo in esame, sostanzialmente ripropositivo di argomenti che già in essa hanno trovato esauriente e persuasiva risposta (come recentemente ritenuto anche da Cass. 4 gennaio 2016, n. 11).
E ciò anche in riferimento alla richiesta di rinvio pregiudiziale, ai sensi dell’art. 267 TFUE (già art. 234 del Trattato costitutivo CE), in ordine al rispetto dei principi del diritto ad un giusto processo davanti a tribunale indipendente e imparziale posto dall’art. 6 CEDU, nonché della certezza del diritto, della tutela del legittimo affidamento e dell’uguaglianza delle armi del processo garantiti dal diritto europeo, ai sensi dell’art. 6 n. 2 del Trattato UE e degli artt. 46, 47, 52, terzo comma della Carta dei diritti fondamentali dell’UE (cd. di Nizza).
Ed infatti, avendo la Corte costituzionale risolto la questione in esame sul piano dell’esistenza nell’ordinamento interno di una norma (l’art. 5, terzo comma I. 260/1949 come sost. dall’art. 1 I. 90/1954, in materia di retribuzione delle festività civili nazionali ricadenti di domenica) già contenente il significato più esplicitamente attribuitole dal denunciato art. 1 comma 224 I. 266/2005 (ius superveniens di interpretazione autentica) e pertanto ad esso precedente, ogni diversa deduzione interferente con i principi del giusto processo resta assorbita, per il semplice fatto di non porsi neppure. Sicché essa perde nel caso di specie alcun carattere di rilevanza concreta: così rimanendo assolto l’obbligo di illustrazione delle ragioni per le quali deve essere ritenuta non pertinente la dedotta questione pregiudiziale (Corte EDU, 8 aprile 2014, D. c. Italia, p.to 31).
E ciò in applicazione del principio, ormai di comune acquisizione, della cd. “ragione più liquida”, che, imponendo un approccio interpretativo con la verifica delle soluzioni sul piano dell’impatto operativo, piuttosto che su quello della coerenza logico sistematica, consente di sostituire il profilo di evidenza a quello dell’ordine delle questioni da trattare, stabilito dall’art. 276 c.p.c., in una prospettiva aderente alle esigenze di economia processuale e di celerità del giudizio, costituzionalizzata dall’art. 111 Cost. (Cass, 28 maggio 2014, n. 12002; Cass. s.u. 8 maggio 2014, n. 9936).
Risulta evidente, infatti, come il rispetto dell’ordine logico sistematico delle questioni devolute imporrebbe, nel caso di specie, la previa verifica di ammissibilità del rinvio pregiudiziale, sul presupposto della disciplina della fattispecie ad opera del diritto europeo.
Il tema, sottoposto anche dal ricorso e illustrato in memoria, è certamente di delicato impegno per l’articolazione complessa del difficile “dialogo” tra Corti supreme, costituzionali ed europee: questa Corte è ben consapevole della possibile ricaduta di effetti, sull’indiscutibile non deferibilità tout court delle norme CEDU all’interpretazione della Corte dì Giustizia dell’innovativa evoluzione comportata dall’entrata in vigore il 1° gennaio 2009 del Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007, ratificato e reso esecutivo con legge 2 agosto 2008, n. 130 (di modifica del Trattato sull’Unione europea e del Trattato istitutivo della Comunità europea), Trattato comportante il riconoscimento (art. 6, primo comma) dei diritti, libertà e principi sanciti nella Carta dei diritti fondamentali dell’UE (cd. dì Nizza) con la conseguenza di essere pervenuti alla prospettata “trattatizzazione” indiretta della CEDU, alla luce della “clausola di equivalenza” contenuta nell’art. 52, terzo comma della Carta (nel caso di specie, in riferimento al principio di garanzia del diritto ad un giusto processo, ai sensi degli artt. 6 CEDU e 47 della Carta).
Ma va rilevato che la Corte di Giustizia non ha sinora adottato un consolidato indirizzo in proposito, avendo invece assunto, in vicende nelle quali la questione era stato sottoposta, pronunzie di assorbimento (come in sentenze 26 novembre 2014, cause riunite C-22/13, da C-61/13 a C-63/13, C-418/13, M. e altri c. M.. p.ti 35 n. 7 e 121; 6 settembre 2011, causa C-108/10, S. c. M., P.ti 33 n. 4 e 84; quest’ultima di segno diverso da quella precedente, in Identica vicenda, della Corte EDU 7 giugno 2011, A. e altri c. Italia).
Il che autorizza il Collegio a ritenere tali scelte sintomatiche della cruciale problematicità dei profili interpretativi relativi all’efficacia e al rapporto tra Carta di Nizza e Convenzione dei diritti dell’uomo, posta dalla crescente domanda di tutela in materia di lavoro e diritti sociali nel faticoso rapporto tra le due Corti Europee, da ridefinire una volta realizzata la prevista adesione dell’UE al Consiglio d’Europa, come segnalato da avvertita dottrina.
In sostanza dagli stessi pronunziati della Corte di Giustizia è lecito desumere che la suddetta “trattatizzazione” indiretta della CEDU (con la conseguente idoneità alla denunciabilità alla Corte di giustizia UE, alla luce della “clausola di equivalenza” contenuta nell’art. 52, terzo comma della Carta dei diritti fondamentali di Nizza) sia approdo da ritenersi non ancora raggiunto.
Da un canto, per la ripetuta negazione della consistenza della Carta alla stregua di strumento di tutela dei diritti fondamentali oltre le competenze dell’Unione europea (come, del resto, reiteratamente affermato dalla Corte di giustizia, sia prima che dopo l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona; nel primo caso, tra le più recenti: ordinanza 17 marzo 2009, C-217/08, M.; nel secondo: sentenza 5 ottobre 2010, C-400/10 PPU, McB; ordinanza 12 novembre 2010, C-399/10, K. e altri).
Dall’altro canto, per la ritenuta inapplicabilità della Carta ratione temporis a fattispecie, come quella in esame, relative a periodo anteriore alla data di entrata in vigore del Trattato di Lisbona, a partire dalla quale la Carta ha acquisito lo stesso valore dei Trattati, a norma dell’articolo 6, primo comma del Trattato UE; Corte giust. UE 26 marzo 2015, C-316/13, F. c. Centre d’aide par le travail “La Jouvene”, p.ti da 44 a 47).
E dunque, in tale quadro, questa Corte deve ribadire che presupposto della praticabilità del chiesto rinvio pregiudiziale è che la fattispecie sottoposta all’esame del giudice sia disciplinata dal diritto europeo – in quanto inerente ad atti dell’Unione, ad atti e comportamenti nazionali che danno attuazione al diritto dell’Unione, ovvero alle giustificazioni addotte da uno Stato membro per una misura nazionale altrimenti incompatibile con il diritto dell’Unione – e non già da sole norme nazionali prive di ogni legame con tale diritto (Corte cost. 11 marzo 2011, n. 80; nello stesso senso: Cass. s.u. 13 giugno 2012, n. 9595). Deve quindi il Collegio dare continuità alla recente giurisprudenza di questa Corte per la quale è ancora necessaria la ricorrenza, in funzione applicativa dell’art. 267 TFUE, del presupposto rappresentato dall’investitura del giudice nazionale di ultima istanza di “una controversia concernente il diritto dell’Unione” (Cass. 1 ottobre 2015, n. 19687; Cass, 30 ottobre 2014, n. 23066; Cass. 4 dicembre 2013, n. 27102).
Dalle superiori argomentazioni discende allora coerente il rigetto del ricorso, con la compensazione delle spese di giudizio, giustificata dalla sopravvenienza della pronuncia della Corte costituzionale alla sentenza impugnata.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e dichiara compensate le spese di giudizio tra le parti; dichiara la sussistenza dei presupposti di cui all’art. 13 c. 1 quater d.p.r. 115/2002.
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