CORTE di CASSAZIONE sentenza n. 5318 del 17 marzo 2016

LAVORO – CONTRATTI DI SOLIDARIETA’ – DOMANDA AMMINISTRATIVA – DOMANDA DI CONGUAGLIO DELLE SOMME ANTICIPATE A TITOLO DI CIGS

FATTO 

Con sentenza depositata il 14.1.2010, la Corte d’appello di Genova, in parziale riforma della statuizione di primo grado, condannava l’INPS a corrispondere a WA.S.S. s.p.a l’importo di € 107.139,50 con interessi legali dal 14.3.1996 e l’importo i € 314,436,37 con interessi legali dal 28.3.2003, oltre interessi anatocistici con decorrenza dalla sentenza di primo grado.

La Corte in particolare riteneva che, nell’ipotesi di stipulazione di contratti di solidarietà, la presentazione di una domanda amministrativa ad hoc fosse necessaria per accedere ai benefici contributivi di cui all’art. 5, d.l. n. 148/1993 (conv. con L. n. 236/1993), non potendo all’uopo giovare la domanda di conguaglio delle somme anticipate a titolo di CIGS, e, quanto agli interessi anatocistici, riteneva che non potessero decorrere che dalla data della sentenza di primo grado, per non essere anteriormente liquido il credito relativo alla sorte.

Per la cassazione di questa pronuncia ricorre W.A.S.S. s.p.a. affidandosi a tre motivi. L’INPS resiste con controricorso illustrato con memoria

DIRITTO 

Con il primo motivo, la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 1, d.l. n. 726/1984 (conv. con L. n. 863/1984) in combinato disposto con l’art. 5, d.l. n. 148/1993 (conv. con L. n. 236/1993), per avere la Corte di merito ritenuto che, onde fruire dei benefici accessori previsti a favore di datori di lavoro che stipulino contratti di solidarietà, fosse necessaria un’apposita domanda amministrativa, distinta da quella di conguaglio delle somme anticipate a titolo di CIGS.

Con il secondo motivo, la ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 1218 e 1219 c.c. nonché insufficiente motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, per non avere la Corte territoriale ritenuto che, avendo essa ricorrente presentato due distinte domande di conguaglio relative a periodi differenti, la prima delle quali rigettata dall’Istituto sul presupposto (poi rivelatosi erroneo già nel giudizio di primo grado) che fosse maturata la decadenza, la reiezione di detta domanda costituiva l’INPS in mora ex re, onde non sarebbe stata necessaria una nuova domanda amministrativa ai fini della costituzione in mora.

Da ultimo, con il terzo motivo, la ricorrente lamenta violazione e falsa applicazione degli artt. 1218, 1224 e 1284 c.c. e degli artt. 163 e 189 c.p.c., nonché insufficiente motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, per avere la sentenza impugnata fissato la decorrenza degli interessi anatocistici alla data della pronuncia di primo grado, invece che alla data della domanda giudiziale, nonostante quello fatto valere fosse un credito liquido.

I tre motivi possono essere trattati congiuntamente, tutti involgendo la questione se, ai fini dell’accesso ai benefici contributivi ex art. 5, d.l. n. 148/1993 (conv. con L. n. 236/1993), sia necessaria un’apposita domanda amministrativa o possa ritenersi sufficiente quella di conguaglio delle somme anticipate a titolo di ClGS, e sono infondati. In termini generali, va osservato che il principio della previa proposizione della domanda amministrativa, quale condizione di accesso ad una determinata prestazione previdenziale o ad un determinato beneficio consistente nella riduzione dell’ammontare dei contributi dovuti agli enti previdenziali, costituisce principio generale dell’ordinamento, coerente con l’evoluzione che le politiche sociali hanno impresso all’antica nozione di status civitatis in termini di status activus processualis, avente come contenuto il potere di avvalersi dei procedimenti stabiliti dalla legge per rendere effettive le posizioni giuridiche soggettive che vi si ricollegano.

Si tratta di un principio positivamente stabilito non soltanto nella legislazione che istituisce e regola le diverse provvidenze, ma altresì – ed in termini generali – nell’art. 443 c.p.c., il quale, nel prevedere che la domanda relativa alle controversie in materia di previdenza e assistenza obbligatorie di cui all’art. 442 c.p.c. non è procedibile se non quando siano esauriti (o si debbano considerare esauriti) i procedimenti prescritti dalle leggi speciali per la composizione in sede amministrativa, viene ormai costantemente interpretato da questa Corte di legittimità nel senso che la presentazione della domanda amministrativa è viceversa condizione di proponibilità dell’azione giudiziaria, con ciò dovendosi intendere che, a differenza del ricorso introduttivo del procedimento contenzioso amministrativo di cui all’art. 443 c.p.c., la presentazione della domanda condiziona lo stesso sorgere del diritto dei privato da tutelare eventualmente davanti all’autorità giudiziaria, diritto che non può ritenersi sorto (unitamente allo speculare obbligo dell’ente previdenziale) anteriormente al perfezionamento della fattispecie a formazione progressiva che nella presentazione della domanda all’ente previdenziale trova appunto il suo incipit (cfr. in tal senso Cass. n. 732 del 2007).

Tanto premesso in via generale, va rilevato che l’art. 5, d.l. n. 148/1993 (conv. con L. n. 236/1993), prevede, per quanto qui interessa, che i datori di lavoro che stipulino accordi di riduzione dell’orario di lavoro ai sensi dell’art. 1, d.l. n. 726/1984 (conv. con L. n. 863/1984), beneficiano di una riduzione dell’ammontare della contribuzione previdenziale e assistenziale da essi dovuta per i lavoratori interessati al trattamento di integrazione salariale.

Ora, per quanto la stipulazione dell’accordo di riduzione dell’orario di lavoro costituisca presupposto comune sia della concessione del trattamento di integrazione salariale che del beneficio della riduzione della contribuzione, si tratta – come correttamente rilevato dalla Corte territoriale – di due benefici autonomi, giacché del primo è titolare in senso giuridico il lavoratore, che avrà azione soltanto verso l’ente previdenziale nel caso in cui il datore di lavoro non gli anticipi il trattamento, del secondo è invece titolare l’impresa, che beneficia appunto di una riduzione sulla contribuzione dovuta per i lavoratori che sono interessati dal trattamento di integrazione salariale. Né deve indurre in errore la circostanza che la domanda di trattamento di integrazione salariale vada proposta dal datore di lavoro, invece che dall’assicurato: si tratta infatti di una peculiarità del regime giuridico della provvidenza che si spiega agevolmente in relazione al fatto che beneficiaria in senso funzionale ne è l’impresa, che risparmierà sull’ammontare delle retribuzioni dovute, ma che non può riflettersi sulla questione della sua titolarità in senso giuridico. D’altra parte, attesa l’autonomia dei due benefici, altrettanto correttamente la Corte ha negato che gli accessori sulle somme tardivamente corrisposte a parte ricorrente a titolo di benefici ex art. 5, d.l. n. 148/1993, cit., potessero decorrere anteriormente alla presentazione della domanda del 28,3.2003: all’uopo infatti non poteva giovare la precedente domanda del 14.3.1996, dal momento che quest’ultima concerneva solo l’autorizzazione al conguaglio delle somme anticipate a titolo di trattamento di integrazione salariale e la sua reiezione poteva comportare mora ex re solo per il rimborso di queste ultime.

Constatata con ciò l’infondatezza dei primi due motivi del ricorso, resta da dire che la riconosciuta necessità di un’autonoma domanda amministrativa per ciò che concerne i benefici di cui all’art. 5, d.l. n. 148/1993, cit., rende palese l’infondatezza anche del terzo motivo, volto a contestare la decorrenza degli interessi anatocistici alla data della pronuncia di primo grado, invece che alla data della domanda giudiziale, sul rilievo che tratterebbesi di credito liquido: è sufficiente sul punto rilevare che la nozione di liquidità del credito rilevante nell’ambito delle provvidenze di previdenza e assistenza sociale non va desunta dall’art. 1282 c.c., ma va riferita al completamento del procedimento amministrativo di spesa con messa a disposizione dell’avente diritto delle relative somme, che non può ovviamente sussistere nel caso di inadempimento (Cass. n. 17126 del 2002).

Il ricorso, pertanto, va rigettato. Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.

P.Q.M. 

Rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di cassazione, che si liquidano in € 100,00 per esborsi, € 5.000,00 per compensi e accessori di legge.