CORTE di CASSAZIONE sentenza n. 5448 del 18 marzo 2016
LAVORO – AVVOCATI INPS – CONTRATTI DI CESSIONE DI CREDITO – OPPOSIZIONE AI DECRETI INGIUNTIVI – PROCURA SPECIALE ALLE LITI – ONORARIO
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
1. Il Tribunale di Roma respingeva le opposizioni proposte dall’INPS avverso i decreti ingiuntivi ottenuti da I.M.A., D.M.T., F.R. e M.G., avvocati dell’INPS, relativi a crediti vantati nei confronti dell’Istituto, fondati su tre contratti di cessione di credito (del 29/11/1999, 31/5/2001 e 18/7/2002) intercorsi tra l’Istituto e la Società di cartolarizzazione di crediti INPS (S.C.C.I. s.p.a.).
2. La Corte d’Appello di Roma, investita da gravame interposto dall’Inps, nonché dai predetti avvocati con impugnazione incidentale, con sentenza del 10/12/2009, respinto il rilievo contenuto nell’appello incidentale concernente l’inesistenza-nullità della procura alle liti conferita per la proposizione dell’opposizione ai decreti ingiuntivi rilasciata dall’INPS, in riforma della sentenza di primo grado, accoglieva le opposizioni e revocava i decreti ingiuntivi, dichiarando nulla la domanda di restituzione degli importi corrisposti in forza degli opposti decreti avanzata dall’INPS.
3. La Corte territoriale fondava la decisione sul rilievo che i contratti di cessione erano intervenuti tra l’INPS e la SCCI, talché l’inciso contenuto nel secondo dei suddetti contratti secondo cui “per lo svolgimento dell’attività di rappresentanza e difesa che l’INPS si impegna di svolgere nell’interesse della SCCI S.p.A. … sarà corrisposto dall’Acquirente all’lNPS un corrispettivo in conformità a quanto previsto dalla clausola 11” era inteso a regolare i rapporti tra l’Istituto e la società e non quelli tra l’Istituto e i suoi dipendenti; che non era attribuibile alcun elemento di interpretazione della volontà delle parti contrattuali, nel senso di un riconoscimento di debito, alla delibera del Consiglio di Amministrazione n. 89 del 26 marzo 2002, la quale era stata legittimamente revocata con la determinazione commissariale n. 805 del 17/7/2003; che, in ogni caso, alla clausola contrattuale 11 di cui sopra non poteva essere attribuito il significato che il corrispettivo del 2% fosse stato pattuito a fronte dei soli oneri relativi all’attività di rappresentanza e difesa tecnica in giudizio svolta dai legali, dovendosi intendere che la suddetta percentuale fosse diretta a sostenere tutti gli oneri degli aggi delle commissioni e delle spese di riscossione e recupero dei crediti, destinazione che escludeva l’esistenza di una sorta di vincolo di destinazione dei relativi importi a favore degli avvocati dell’Istituto, con la conseguenza che nessun diritto perfetto poteva fondatamente essere vantato dagli appellati alla corresponsione del suddetto importo.
4. La Corte rigettava, altresì, le domande subordinate proposte dagli avvocati con appello incidentale, dirette all’applicazione di quanto disposto dai meno favorevoli accordi collettivi del 4 giugno 2003, ritenuto superato dal secondo, e del 19 dicembre 2005, rilevando che le pretese monitorie risultano fondate su causa petendi diversa da quella originariamente indicata negli atti introduttivi dei giudizi e che i ricorrenti avevano manifestato l’intenzione di non aderire all’ intesa sindacale.
5. Avverso la sentenza gli opposti propongono ricorso per cassazione basato su 14 motivi. L’Inps resiste con controricorso, proponendo altresì ricorso incidentale. Entrambe le parti hanno depositato memorie ex art. 378 c.p.c.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. I ricorsi sono preliminarmente riuniti ai sensi dell’art. 335 c.p.c.
2. I motivi di ricorso principale possono essere sintetizzati come di seguito.
3.1. Violazione e/o falsa applicazione degli artt. 83 c.p.c.e 1346 c.c. e dell’art. 156 c.p.c. in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c. Omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo del giudizio in relazione all’art. 360 n. 5 c.p.c. I ricorrenti censurano la sentenza laddove ha respinto l’eccezione circa l’asserita nullità e/o inesistenza della procura conferita dall’INPS ai propri difensori per la proposizione del ricorso in opposizione ai decreti ingiuntivi. Rilevano i ricorrenti che l’atto del notaio B. del 6 agosto 2003 non ha i requisiti della procura generale, essendo stato l’incarico conferito per l’opposizione ad una non meglio precisata serie di decreti ingiuntivi, usando un’espressione assolutamente generica tanto con riferimento alla pluralità di soggetti, di cui è omessa l’identificazione, che alla descrizione della causa petendi. Rilevano che ancorché il codice di rito non detti una disciplina specifica della procura speciale, tuttavia il terzo comma dell’art. 83 c.p.c. fornisce indicazioni significative riguardo aita imprescindibile necessità che nella procura speciale risulti chiaro il nesso tra l’autorizzazione a rappresentare e difendere la parte e il singolo specifico provvedimento rispetto al quale l’incarico è conferito. Con la conseguenza che nel conferimento della procura ad litem ciò deve necessariamente tradursi nell’indicazione delle parti, dell’oggetto e del procedimento nel quale il difensore è autorizzato a esercitare l’incarico, ovvero in indicazioni che non lascino adito a dubbi in proposito.
3.1.2. La censura è infondata. E’ erronea, infatti, l’affermazione secondo la quale la procura speciale deve essere necessariamente e soltanto quella limitata a cause preventivamente indicate. Questa Corte ha avuto modo di affermare che “anche le procure professionali (così come le procure negoziali da cui derivavano) possono avere una diversa estensione; le procure speciali sono non solo quelle che si riferiscono ad una singola causa, ma anche quelle che sono estese a tutta una serie specifica di cause, caratterizzate dalla materia trattata o dalla sede territoriale o altrimenti. Anche queste procure sono del tutto valide e non comportano nullità nei giudizi in cui siano state utilizzate”(in tal senso Sez. L, Sentenza n. 20784 del 07/10/2010, Rv. 615438, in fattispecie in cui è stata ritenuta valida la procura rilasciata a un difensore per le controversie proposte dinanzi ad alcune Corti d’Appello, e soltanto per quelle in materia di lavoro, di assistenza e di previdenza. Si riporta di seguito la massima estratta: in tema di mandato difensivo, è valida la procura speciale alle liti rilasciata non per una singola causa ma per una serie di controversie, purché si tratti di controversie caratterizzate da unitarietà di materia o collegate tra loro da specifiche ed oggettive ragioni di connessione, atteso che la qualifica di “speciale” non sta ad indicare che la procura debba essere limitata ad una specifica controversia). Alla luce delle considerazioni svolte deve ritenersi sufficientemente specifica, in ragione della individuazione delle controversie sotto i profili oggettivo e soggettivo, la procura in disamina, conferita “per proporre le opposizioni avverso i decreti ingiuntivi notificati e notificandi dagli avvocati dipendenti dell’Istituto medesimo per ottenere il pagamento dell’importo a ciascuno di essi dovuto e a fronte dell’attività di difesa in giudizio svolta dall’Avvocatura dell’Istituto al fine del conseguimento dei crediti ceduti dall’Ente alla società di cartolarizzazione SCCI S.p.A., in base a quanto previsto dalla delibera del Consiglio di Amministrazione n. 89 del 26 marzo 2002”.
4. Violazione e falsa applicazione dell’art. 2 D.lgs. n. 165/2001 e dell’art. 1988 c.c. in relazione all’art. 360 c.p.c. n. 3. I ricorrenti lamentano che la sentenza abbia ritenuto valida la revoca della delibera n. 89 del 2002, da reputare inammissibile ai sensi del d.lgs n. 165/2001, che, privatizzando il rapporto di lavoro, ha sottratto all’amministrazione il potere di autotutela, sicché ella non può adottare unilateralmente modifiche o revoche di obbligazioni assunte nei confronti dei dipendenti. Rileva, inoltre, che la deliberazione commissariale n. 805 del 2003 costituiva atto di riconoscimento di debito.
5. Violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c. dell’art. 40 del D.Igs. n. 165 del 2001 art. 36 Cost, in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c. Omessa insufficiente o contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia con riferimento all’applicazione dei contratti collettivi del 4/6/2003 e 19/12/2005 in relazione all’art. 360 n. 5 c.p.c.
6. Violazione e falsa applicazione dell’art. 13 I. n. 448/1988 e dell’art. 4 D.M. 5 novembre 1999 nel testo sostituito dall’art. 9 del D.M. 2 dicembre 1999 nonché dell’art. 1362 c.c., tutti in relazione all’art. 360 I c. c.p.c. n. 3. Il ricorrente lamenta che la quota del 2% trattenuta dall’INPS per l’attività di difesa e rappresentanza era il corrispettivo della relativa attività svolta dai difensori dell’ istituto, come emergeva dal tenore letterale dei primi due contratti di cessione del 29/11/1999 e del 31/5/2001, quest’ultimo da leggersi anche quale strumento interpretativo del primo, i quali riconoscevano ai legali dell’ente il corrispettivo pari al 2% di quanto riscosso e recuperato tramite la loro attività professionale. L’uso del termine “corrispettivo” era chiaro ed inequivoco della volontà dell’ente di compensare le prestazioni professionali degli avvocati al di fuori di alcuna ulteriore contrattazione, com’era desumibile dai chiarimenti resi dal direttore generale dell’istituto ai ministeri vigilanti con nota del 20/5/2002 e dell’ulteriore nota del commissario straordinario dell’istituto con nota del 4/7/2003. La decisione impugnata violava anche disposto dell’art. 30 del d.p.r. citato che, fino a) 2002, ha disciplinato la liquidazione dei compensi inerenti all’attività svolta dai professionisti degli enti pubblici non economici, i quali sono distribuiti automaticamente e periodicamente ai professionisti senza la mediazione di accordi sindacali. In tale schema rientrava anche il 2% derivante dall’attività di recupero dei crediti oggetto dei contratti di cartolarizzazione, in quanto tipica della funzione legale, da compensare ai sensi del d.p.r. 411/1976. Sul punto la Corte d’appello aveva fornito un’interpretazione non rispondente alla voluntas legis.
7. Violazione e falsa applicazione dell’art. 13 I. n. 448/1968 e dell’ art. 4 DM 5 novembre 1999 nel testo sostituito dall’art. 9 del D.M. 2 dicembre 1999 nel testo sostituito dall’art. 9 del DM 2 dicembre 1999 e relativi contratti di cessione del 29 novembre 1999, 31 maggio 2001 e 18 luglio 2002 in relazione all’art. 1326 ss. c.c.(art. 360 n. 3 c.p.c.).
8. Violazione dell’art. 132 secondo comma n. 4 c.p.c. in relazione all’art. 360 n. 4 c.p.c. I ricorrenti denunciano l’omessa spiegazione delle ragioni in fatto e in diritto della ritenuta non applicabilità del ccnl 4 giugno 2003.
9. violazione dell’art. 1362 I comma c.c. in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c. Rilevano i ricorrenti che la Corte territoriale avrebbe interpretato i due accordi collettivi omettendo il richiamo al contenuto delle loro disposizioni, in tal modo violando le regole di ermeneutica che impongono in via prioritaria l’analisi del tenore letterale dell’accordo.
10. Insufficiente motivazione su fatto controverso e decisivo in relazione all’art. 360 1 c. n. 5 c.p.c. Rilevano i ricorrenti che la motivazione sarebbe insufficiente e inadeguata nella parte in cui ha escluso l’applicazione alla fattispecie del ccnl 4 giugno 2003 per effetto dell’accordo 19 dicembre 2005 e ciò sia perché sono stati erroneamente interpretati i due contratti collettivi, sia per la violazione del principio generale secondo il quale la modifica di una clausola retributiva di un contratto collettivo integrativo trova un limite nei diritti quesiti e nell’esaurimento del rapporto. Osservano che al secondo accordo sarebbe stato attribuito un valore novativo senza alcuna spiegazione argomentativa in ordine alla sussistenza dell’animus novandi e dell’aliquid novi.
11. Violazione dell’art. 1362 c. 1 c.c. e motivazione insufficiente in relazione all’art. 360 1 c. n. 3 e 5 c.p.c. con riferimento agli elementi della novazione.
12. Violazione dell’art. 1362 1 c c.c. e del principio generale dei diritti quesiti in relazione all’art. 360 n, 3 c.p.c., con riferimento all’efficacia della novazione oggettiva e alla possibilità che l’accordo possa essere posto nel nulla da una rinegoziazione con modificazione dei diritti quesiti.
13. Violazione del ccnl 8 gennaio 2003 art. 1 c. 2, 3, 4, 5, 6; violazione del ccnl 16/2/1999, artt. 4 e 42; violazione dell’art. 40 c. 3 d.lgs. 165/2001, falsa applicazione dell’art. 43 I. 4449/1997 in relazione all’art. 1362 I e II comma c.c. errata interpretazione dell’accordo 19 dicembre 2005 in relazione all’art. 360 I c. n. 3 c.p.c. Osservano i ricorrenti che l’accordo del 2005 viola il CCNL 8/1/2003 perché estende indebitamente la trattenuta da destinare ad economia di bilancio, ai sensi dell’art. 43 I. 499/1997, anche alle risorse derivanti dall’attività di riscossione diretta dei crediti ceduti svolta nel biennio 2000/2001.
14. Violazione dell’art. 1366 c.c. in relazione all’art. 360 I c. n. 3 c.p.c. Affermano i ricorrenti che la Corte d’appello non avrebbe interpretato secondo buona fede l’accordo 2005, non avendo tenuto conto dell’affidamento che i destinatari del ccnl 2003 avevano riposto nelle clausole di cui agli artt. 1 e 2.
15. Omessa motivazione su fatto controverso e decisivo in relazione all’art. 360 I c. n. 5 c.p.c., con riferimento ai diritti quesiti sorti con il contratto 4 giugno 2003.
1.6. Violazione e falsa applicazione dell’art. 45 c. 2 del TU n. 165/2001 in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c. e comunque omessa insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo del giudizio in relazione all’art. 360 c.p.c. n. 5. Rilevano che l’ente aveva liquidato incondizionatamente i compensi al personale amministrativo pretendendo dagli avvocati la rinuncia a qualsiasi diritto e alle azioni legali promosse e da promuovere. In tal modo, negando rilievo all’accordo 4 giugno 2003, non solo aveva violato il principio di parità di trattamento che opera nel lavoro pubblico ma era incorso in un vizio di motivazione limitandosi a fare riferimento all’accordo novativo del 2005.
17. Tutti i motivi, che si affrontano congiuntamente per la connessione logica che li lega, sono infondati. La questione è stata già esaminata da questa Corte con la sentenza del 18 febbraio 2015, n. 3243, con argomenti che questo Collegio condivide ed a cui intende dare continuità. Essi possono essere cosi sintetizzati.
17.1. La L. 23 dicembre 1998, n. 448, art. 13, prevede la cessione a titolo oneroso ad una società di cartolarizzazione (la SCCI S.p.A.), dei crediti contributivi vantati dall’INPS già maturati e maturandi sino al 31.12.2001. Il comma 8, di tale articolo dispone: “Nei procedimenti civili di cognizione e di esecuzione, pendenti alla data della cessione, il cessionario può intervenire fermo restando che l’INPS non può in ogni caso essere estromesso. Per i giudizi di opposizione all’esecuzione promossi avverso il ruolo, instaurati successivamente alla cessione dei crediti, sussiste litisconsorzio necessario nel lato passivo tra l’INPS ed il cessionario”. Il D.M. 5 novembre 1999, art. 4, nel testo sostituito dal D.M. 2 dicembre 1999, art. 9, (attuativo della suindicata legge) prevede che: “L’INPS assume l’onere degli aggi, commissioni e spese di riscossione e recupero relative ai crediti contributivi ceduti, nonché delle anticipazioni della remunerazione riconosciuta ai concessionari, in applicazione del D.Lgs. n. 112 del 1999, art. 17, comma 5. L’ INPS trattiene, ovvero ha diritto di ricevere, dall’acquirente dei crediti un importo sino al 2% di qualunque somma riscossa o recuperata a valere sui crediti contributivi ceduti, a titolo di rimborso forfettario degli oneri di cui al presente comma”.
17.2. Con contratti stipulati in data 29/11/1999, 31/5/2001 e 18/7/2002, I’INPS ha ceduto all’acquirente i crediti contributivi maturati al 31/12/1999, al 31/12/2000 ed al 31/12/2001, In tutti tali contratti, alla clausola 9, si prevede che I’INPS “assume nei confronti dell’acquirente gli impegni di cui alle clausole 9,2., 9.3 e 9.4”, Con la clausola 9.2 I’INPS, in ordine ai crediti contributivi ceduti, si impegna a proseguire i relativi giudizi ex art. 111 c.p.c., con facoltà dell’acquirente di intervenire in tali giudizi. La clausola 9.3 prevede, in materia di esecuzione forzata, che I’ INPS si impegna proseguire le dette esecuzioni ex art. 111 c.p.c., con facoltà dell’acquirente di intervenire in tali esecuzioni. La clausola 9.4 prevede che, qualora i debitori promuovano giudizi di merito (o opposizione all’esecuzione), I’ INPS e l’acquirente sono litisconsorti necessari. In tal caso I’INPS si impegna a proseguire le relative liti anche per conto dell’acquirente, impegnandosi ad assumerne la difesa tecnica. La clausola 9.5 dispone che l’ “Acquirente con il presente contratto conferisce mandato con rappresentanza all’INPS affinché lo stesso provveda, ove richiesto e tramite gli avvocati della propria avvocatura, alla rappresentanza e difesa tecnica dello stesso Acquirente dinanzi alle autorità giudiziarie”. Solo nel secondo contratto di cessione, alla clausola 9.5, si prevede che “per lo svolgimento delle attività indicate nella presente clausola 9, sarà corrisposto dall’Acquirente all’ INPS un corrispettivo in conformità a quanto previsto dalla clausola 11 che segue”. L’art. 11 di tutti i contratti di cessione prevede il diritto dell’INPS al rimborso forfettario dell’insieme degli oneri sostenuti per la riscossione ed il recupero dei crediti in questione.
17.3. Con delibera n. 89 del 26 marzo 2002, il Consiglio di amministrazione dell’ INPS, richiamata la clausola 9.5 del secondo contratto, stabilì di “attribuire il 2% dell’importo lordo dei crediti recuperati in via legale per l’anno 2000 all’Avvocatura interna, dedotte le spese forfetarie nella misura del 10% in applicazione della legge professionale, gli incentivi speciali per il recupero ed incassi crediti già erogati per il 2000 e gli oneri riflessi”, e di “distribuire le somme spettanti secondo le quote, contrattualmente stabilite, di ripartizione di onorari e competenze legali”. Con tale delibera fu dunque prevista l’attribuzione agli avvocati dell’INPS dell’importo che, in base al DM 5 novembre 1999 ed ai contratti di cessione, la società di cartolarizzazione era tenuta a corrispondere all’INPS a titolo di rimborso forfetario per rifonderlo dell’onere degli aggi, commissioni e spese di riscossione e recupero relative ai crediti contributivi.
17.4. Tale delibera venne revocata dal Commissario Straordinario dell’Istituto con determinazione n. 805 del 17/7/2003 sul presupposto che il 2% dei crediti riscossi o recuperati fosse corrispettivo di pertinenza dell’INPS e non dell’Avvocatura; che i legali, iscritti all’Albo speciale, potevano patrocinare solo in nome dell’INPS, al quale la SCCI aveva conferito mandato con rappresentanza; che non rientrava nelle competenze del C.d.A. dell’Istituto la determinazione del trattamento economico dei dipendenti, oggetto esclusivo della contrattazione collettiva; che, infine, l’accordo sindacale 4/6/2003 destinava all’avvocatura solo una parte (70%) del complessivo importo del 2% dei contributi recuperati per via legale afferenti gli anni 2000-2001 e la restante parte alla contrattazione integrativa relativa al personale amministrativo. Anche tale delibera fu ritenuta illegittima dalla Corte dei conti in sede di controllo sulla gestione dell’ente, sul presupposto che intanto possono essere riconosciuti a indipendenti trattamenti economici in quanto ciò avvenga mediante contratti, stipulati secondo i criteri e le modalità previste nel titolo terzo del d.lgs. n.165/2001.
17.5. Incontestate queste premesse, deve rilevarsi che nell’ambito del pubblico impiego privatizzato, l’amministrazione che, melius re perpensa, modifica o ritira l’atto di riconoscimento di un trattamento economico non dovuto, non esercita il potere amministrativo di autotutela, ma compie un atto di organizzazione e gestione del rapporto di lavoro tipico del diritto privato, rispetto al quale il privato può insorgere denunciandone la illegittimità e, nel relativo giudizio, la pubblica amministrazione resta soggetta ai soli principi di imparzialità e buon andamento, ex art. 97 Cost., in una scelta soggetta a valutazioni che ben potrebbero essere compiute da un privato committente.
17.6. Nel caso di specie, la Corte ha ritenuto che l’Inps abbia ben esercitato suo potere di recesso in ragione della palese invalidità delle delibere, perché emesse in violazione di norme imperative, sicché l’atto in esame, ossia la revoca (recte: il recesso) costituisce atto di conformazione all’ordinamento dei pubblici dipendenti contrattualizzati, in cui vige il principio inderogabile secondo cui l’attribuzione di trattamenti economici può avvenire esclusivamente mediante contratti collettivi, da stipularsi secondo i criteri e le modalità previste nel titolo III dello stesso decreto legislativo (art. 2, commi da 1 a 3 del d.lgs. n. 29 del 1993, come sostituiti prima dall’art. 2 del d.lgs n. 546 del 1993 e poi dall’art. 2 del d.lgs n. 80 del 1998: v. ora D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, art. 2). E’ quindi priva di fondamento la tesi del ricorrente secondo cui l’Inps, in quanto datare di lavoro che agisce e opera iure privatorum, non può unilateralmente e in sede di autotutela revocare un atto che ha inciso nella sfera giuridica patrimoniale del dipendente e di cui questi ha chiesto l’attuazione, perché ciò che difetta è la validità della premessa maggiore del sillogismo, ovvero che l’atto successivamente revocato sia stata fonte dei diritto soggettivo. L’atto è infatti invalido ab origine e, in quanto tale, può e deve essere rimosso dal datore di lavoro, pubblico o privato che sia (Cass., 24 ottobre 2008, n. 25761; Cass., 20 gennaio 2014, n. 1047). La rilevata conformità alla legge dell’atto di recesso e le ragioni su esposte escludono che alle delibere n. 89/2002 e 805/2003 possa attribuirsi valore di una ricognizione di debito, la quale non integra una fonte autonoma di obbligazione ma ha effetto confermativo di un preesistente rapporto fondamentale, comportando soltanto l’inversione dell’onere della prova dell’esistenza di quest’ultimo, sicché è destinata a perdere di efficacia qualora la parte da cui provenga dimostri che il rapporto medesimo non sia stato instaurato, o sia sorto invalidamente (Cass., 13 giugno 2014, n. 13506; Cass., Sez. Un., ord., 28 maggio 2014, n.11917). Si conferma pertanto la correttezza, anche sotto l’aspetto dell’adeguatezza della motivazione, della sentenza impugnata, che sostanzialmente ha fatto piana applicazione dei principi innanzi richiamati.
17.7. Con l’accordo sindacale del 4 giugno 2003 le parti deliberarono di destinare all’avvocatura solo una parte (il 70%) del complessivo importo del 2% dei contributi recuperati per via legale, relativi agli anni 2000-2001, destinando la restante parte al personale amministrativo. Ma anche tale accordo sindacale non può ritenersi fonte di diritto per il ricorrente. È infatti pacifico che esso esorbita dalle materie riservate alla contrattazione integrativa dal contratto collettivo, il quale non indica tra le materie demandate alla contrattazione integrativa la corresponsione diretta di trattamenti economici in favore del personale. In proposito va richiamato l’art. 4 del CCNI del 16 febbraio 1999, che definisce l’oggetto ed i contenuti della contrattazione integrativa e prevede che i contratti collettivi integrativi e decentrati non possono essere in contrasto con vincoli risultanti dei contratti collettivi nazionali o comportare oneri non previsti rispetto all’ambito di risorse indicato al comma primo, e sancisce che “Le clausole difformi sono nulle e non possono essere applicate” (comma 6°).
17.8. A tale accordo è seguito un ulteriore accordo del 19/12/2005, titolato “CCNI per la destinazione delle risorse derivanti dall’attività di riscossione dei crediti contributivi ceduti alla SCCI s.p.a. svolta dei professionisti legali dell’istituto nel quinquennio 2000-2004 primo trimestre 2005”, con il quale si stabili che “le risorse derivanti dall’attività di riscossione… svolta dei professionisti legali dell’istituto,… al netto della quota spettante al personale amministrativo dall’accordo sindacale dei 4 giugno 2003, vengono destinate a compensare l’attività dei professionisti dell’area legale”. In particolare, con quest’ultimo accordo le parti ritennero di regolamentare interamente la questione e di riconoscere la percentuale del 2% dell’importo dei crediti contributivi solo qualora i ricorrenti avessero prestato esplicita adesione e avessero rinunciato alle pretese azionate in via contenziosa.
18. I ricorrenti sostengono che il credito azionato trova la sua fonte non solo nelle delibere dei C.d.A. INPS, ma soprattutto nel D.P.R. n. 411 del 1976, art. 30, trattandosi di compensi dovuti agli avvocati dell’Istituto per l’attività legale svolta anche in favore della SCCI, senza quindi la necessità di una nuova contrattazione sugli stessi; che con l’accordo del 4/6/2003, era stato ribadito e riconosciuto che il loro diritto al compenso per l’attività legale svolta era a titolo di onorari senza alcuna riserva da parte dell’INPS. Anche tale tesi è infondata in quanto basata sull’erroneo presupposto che la percentuale del 2% riconosciuta all’INPS costituisca esclusivamente una competenza di procuratore ed onorario di avvocato per i legali interni dell’ INPS. Deve invece convenirsi con la sentenza impugnata laddove osserva che tale percentuale (del 2%) era un corrispettivo di pertinenza dell’INPS e non dell’Avvocatura interna, posto che i legali dell’INPS, essendo iscritti all’Albo speciale, possono patrocinare solo in nome dell’Ente di appartenenza. I giudici di appello hanno invero correttamente ritenuto che, dalla lettura dei contratti di cessione succedutisi nel tempo, emergeva che la percentuale del 2% riconosciuta air INPS era destinata a compensare una serie complessa di attività svolte dall’INPS quale mandatario con rappresentanza della cessionaria; che tale importo costituiva un compenso forfettario corrisposto da un terzo per i compiti svolti per suo conto, non limitati esclusivamente alle attività processuali e richiedenti necessariamente l’intervento di un avvocato dell’Ente, ma anche altri oneri ed attività accessorie e complementari a quelle legali inerenti anche ai personale amministrativo degli uffici legali. Ne deriva che non è sostenibile l’assunto degli avvocati interni secondo il quale tale rimborso forfettario, in quanto riferito alle competenze di procuratore ed onorari di avvocato riscosso dall’Ente, spettasse direttamente e per intero agli avvocati ai sensi del D.P.R. n. 411 del 1976, art. 30.
Tale ultima normativa, infatti, si riferisce a somme che ab origine hanno natura di compensi professionali, liquidate in favore dell’ INPS secondo tariffe professionali e poste a carico di controparti soccombenti nei confronti dell’Istituto. Dal momento che, come visto, la destinazione dell’importo in questione (2%) era collegato allo svolgimento di molteplici attività svolte in favore del cessionario, spettante all’Istituto in base ai relativi contratti di cessione, deve escludersi che la normativa invocata (D.P.R. n. 411 del 1976) possa consentire la relativa diretta distribuzione ai legali medesimi. Si tratta, in sostanza, di un compenso diverso ed aggiuntive rispetto a quanto gli stessi legali percepiscono per l’attività professionale svolta per l’INPS, che, in quanto forma di retribuzione accessoria, richiede una regolamentazione negoziale specifica e non suscettibile di attribuzione diretta.
18.2. Anche valutando la richiesta in base all’accordo sindacale del 4.6.03 (che prevedeva la distribuzione agli avvocati interni del 70% degli introiti in questione), non potrebbe giungersi a diverse conclusioni. Ed invero, ribadito che le somme in questione non costituiscono onorari, esse non potevano essere attribuite agli avvocati ne’ ai sensi del D.P.R. n. 411 del 1976, art. 30, né sulla base dell’accordo sindacale anzidetto, recepito nella determina n. 805/03, in forza di quanto dispone il D.Lgs. n. 29 del 1993, art. 2, comma 3, come sostituito dal D.Lgs. n. 80 del 1998, nonché il D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 2, comma 3, i quali prevedono, come si è già osservato, che l’attribuzione di trattamenti economici può avvenire esclusivamente mediante contratti collettivi, con la precisazione che “i contratti collettivi sono stipulati secondo i criteri e le modalità previste nel titolo III del presente decreto”, e tale non può ritenersi l’accordo sindacale del giugno 2003. Il D.Lgs, n. 165 del 2001, art. 40, stabilisce che “La contrattazione collettiva integrativa si svolge sulle materie e nei limiti stabiliti dai contratti collettivi nazionali, tra i soggetti e con le procedure negoziali che questi ultimi prevedono; essa può avere ambito territoriale e riguardare più amministrazioni. Le pubbliche amministrazioni non possono sottoscrivere in sede decentrata contratti collettivi integrativi in contrasto con vincoli risultanti dai contratti collettivi nazionali o che comportino oneri non previsti negli strumenti di programmazione annuale e pluriennale di ciascuna amministrazione. Le clausole difformi sono nulle e non possono essere applicate”. L’accordo del giugno 2003, che peraltro avrebbe necessitato di un atto applicativo mai intervenuto, esorbita dalle materia riservate dal contratto collettivo nazionale alla contrattazione integrativa, tra le quali non è prevista la corresponsione diretta di trattamenti economici in favore del personale. In definitiva esclusa la natura di onorari del rimborso forfettario de quo, non sussistono i presupposti per l’attribuzione diretta agli avvocati interni.
18.3. Infine, la domanda non può trovare accoglimento in base al c.c.n.l. 19/12/2005, posto che tale accordo prevedeva solo che una parte delle risorse in questione fossero destinate a finanziare il fondo dei trattamenti accessori dei professionisti dell’Istituto e dunque non direttamente gli avvocati; prevedeva inoltre la necessità di una espressa adesione, da manifestarsi nelle forme di cui al D.Lgs. n. 165 del 2001, artt. 65 e 66, e degli artt. 410 e 411 c.p.c., “entro 60 giorni dalla data di stipula del presente accordo, con conseguente rinuncia all’azione giudiziaria ed impegno alla cessazione dell’eventuale giudizio in corso con compensazione delle spese”, circostanza non verificatasi nella specie come affermato nella sentenza impugnato e come esplicitamente ammesso dallo stesso ricorrente nel suo ricorso (v. pag. 25). Non sussistono pertanto i presupposti per l’estensione di tale accordo anche alla posizione del ricorrente.
Né vale osservare in questa sede che tale rinuncia sarebbe nulla perché relativa a diritti indisponibili del lavoratore e preventiva rispetto al loro sorgere, per l’assorbente considerazione che è nella stessa prospettazione attorea l’assunto che il diritto era già sorto per effetto della delibera n. 89/2002, con la conseguente che esso ben avrebbe potuto costituire oggetto di rinuncia, salva l’eventuale annullabilità dell’atto disposizione ai sensi dell’art. 2113 cod. civ. (cfr. Cass., 26 maggio 2006, n. 12561).
Non sussiste pertanto la dedotta violazione dell’art. 112 cod. proc. civ., né sussiste lesione del principio di parità di trattamento rispetto al personale amministrativo, questione quest’ultima non affrontata dalla Corte territoriale e di cui il ricorrente non deduce i termini e le modalità con le quali essa sarebbe stata introdotta nelle precedenti fasi del giudizio, nel rispetto del principio di autosufficienza (Cass., 18 ottobre 2013, n. 23675).
19. Alla luce delle svolte argomentazioni D ricorso principale deve essere rigettato.
20. Con I ricorso incidentale l’Inps censura la sentenza per la violazione degli artt. 414, 416, 434, 436, 115 e 116 cod.proc.civ., in relazione all’art. 360, n. 3 cod.proc.civ.; nonché per l’omessa e/o insufficiente motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio. Lamenta l’Istituto l’erroneità della sentenza nella parte in cui ha rigettato la sua domanda volta ad ottenere la restituzione delle somme versate all’odierno ricorrente in esecuzione della sentenza di primo grado. Trascrive parte del ricorso in appello in cui formula esplicitamente la detta domanda, nonché le conclusioni con le quali chiede la restituzione di una determinata somma.
20.1. Il motivo è fondato. Il tenore letterale del ricorso in appello e le pedisseque conclusioni evidenziano con chiarezza l’ambito della domanda ed il suo petitum: vi è infatti una chiara allegazione da parte dell’Istituto di aver corrisposto all’avvocato ricorrente le somme rivenienti dalla sentenza impugnata e di queste chiede la restituzione. Si è dunque in presenza di una domanda chiaramente delineata nel petitum e nella causa petendi, ammissibile nel giudizio di appello in quanto non si tratta di domanda nuova (da ultimo, Cass. 31 marzo 2015, n. 6457). Non è pertanto è condivisibile l’apprezzamento del giudice del merito che, da un lato, ha ritenuta generica tale domanda, ciò che ne avrebbe precluso l’esame nel merito, e, dall’altro, ha sostenuto tale giudizio in ragione di un’omessa specifica documentazione”, così soprapponendo inammissibilmente e contraddittoriamente il profilo relativo alla specificità della domanda – che va valutato ex se, a prescindere dai documenti che la corredano (v. Cass., 27 maggio 2008, n. 13825) – a quello della sua fondatezza. Deve pertanto ritenersi fondata la censura sollevata dall’INPS sotto il profilo dell’omesso esame di “un fatto decisivo della controversia”, consistente nella mancata considerazione da parte del giudice dei detti elementi di fatto (documentazione prodotta e non contestazione) rilevanti ai fini della decisione per la loro incidenza causale, sotto il profilo dell’idoneità ad orientare diversamente la decisione.
21. In conclusione il ricorso principale deve pertanto essere rigettato, mentre deve essere accolto il ricorso incidentale, con rinvio alla Corte d’appello di Roma, in diversa composizione, perché esamini nel merito la domanda di restituzione delle somme corrisposte in esecuzione della sentenza di primo grado e provveda anche per le spese del presente giudizio.
P.Q.M.
Riunisce i ricorsi; accoglie il ricorso incidentale, rigetta quello principale. Cassa la sentenza impugnata in relazione al ricorso accolto e rinvia, anche per le spese, alla Corte d’appello di Roma, in diversa composizione.
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