CORTE di CASSAZIONE sentenza n. 5651 del 22 marzo 2016
LAVORO – SUSSISTENZA DI UN RAPPORTO DI LAVORO SUBORDINATO – TENTATIVO DI CONCILIAZIONE – INSTAURAZIONE – DECORSO DEL TERMINE DI PRESCRIZIONE
FATTO/DIRITTO
1 – Considerato che è stata depositata relazione del seguente contenuto:
Con sentenza n. 1398/2012, depositata in data 18 ottobre 2012, la Corte di appello di Palermo, pronunciando sull’impugnazione proposta da M.V.P., in proprio e nella qualità di esercente la potestà genitoriale sui minori A.G. e F. G., tutti eredi di B. G., nei confronti del C.N.S.A.M., confermava la decisione del Tribunale di Marsala che aveva respinto la domanda della P. intesa ad ottenere il riconoscimento della sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato tra il dante causa B. G. ed il C. nel periodo dal 1996 al 2003 e ad accertare che il decesso del G. era avvenuto a seguito di un incidente stradale verificatosi in data 1/7/2003 durante lo svolgimento da parte dello stesso delle mansioni di autista alle dipendenze del C. Riteneva la Corte territoriale che la domanda volta a conseguire il pagamento di differenze retributive fosse prescritta (esclusa essendo la valenza interruttiva della richiesta di tentativo di conciliazione) e che priva di interesse fosse quella intesa ad accertare la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato per l’impossibilità pratica di realizzare (stante la prescrizione) un risultato giuridicamente apprezzabile. Riteneva, inoltre, impraticabile la costituzione de facto di un rapporto di lavoro subordinato alle dipendenze con un istituto di pubblica assistenza, per contrasto con l’art. 97 della Cost..
Avverso tale sentenza M. P., in proprio e quale genitrice dei figli minori, ricorre per cassazione con tre motivi.
Il C.N.S.A.M. ha depositato atto di costituzione ai soli fini della partecipazione all’udienza di discussione.
Con il primo motivo la ricorrente si duole della mancata attribuzione di valenza interruttiva alla richiesta di tentativo di conciliazione rilevando che tale richiesta, alla luce di una interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 410 cod. proc. civ., non può che comportare una sospensione del decorso di ogni termine di prescrizione.
Il motivo è manifestamente infondato alla luce di quanto da questa Corte più volte affermato (cfr. Cass. 1° giugno 2006, n. 13046; Cass. 18 ottobre 2011, n. 21483 cui hanno fatto seguito numerose successive conformi tra cui Cass. 10 giugno 2014, nn. 13002, 13003, 13004, 13005, 13006, 13007, 13008, 13009, 13010; Cass. 4 giugno 2014, nn. 12517, 12518, 12519, 12520, 12522, 12523, 12524, 12525; Cass. 3 marzo 2014, n. 4908; Cass. 18 febbraio 2014, n. 3977).
Già con la decisione del 1° giugno 2006, n. 13046 questa S.C. ha statuito che lo stesso tenore letterale dell’art. 410, comma 2, cod. proc. civ., (applicabile nella formulazione anteriore all’entrata in vigore della L. n. 183 del 2010), distinguendo tra interruzione della prescrizione e sospensione del termine di decadenza, non consente di ritenere che l’instaurazione del tentativo obbligatorio di conciliazione comporti anche la sospensione del decorso del termine prescrizionale.
Nondimeno, neppure la svalutazione del tenore letterale gioverebbe al ricorrente perché, supponendo – al più – all’interno dell’art. 410, comma 2, cod. proc. civ., una lacuna legislativa, la sua prospettazione avrebbe bisogno di un passaggio ulteriore, vale a dire di estendere analogicamente al meccanismo delineato dal cit. art. 410, comma 2, cod. proc. civ., la normativa sulla sospensione della prescrizione; tale operazione è però interdetta dal carattere pacificamente tassativo (cfr., da ultimo, Cass. 27 giugno 2011, n. 14163) dei casi di sospensione della prescrizione ex artt. 2941 e 2942 cod. civ..
Né la mera richiesta di tentativo di conciliazione può accomunarsi alla domanda giudiziale, di cui produce unicamente l’effetto interruttivo della prescrizione (nei termini di cui si tratta), ma non anche gli altri (numerosi) effetti sostanziali, né quelli processuali.
Per queste ragioni si è ritenuto di non condividere – cfr. Cass. n. 18 ottobre 2011, n. 21483 cit. – quel passaggio della motivazione di Corte cost. n. 276/2000 (non vincolante se non nel giudizio a quo) che, nel rigettare la questione di legittimità costituzionale dell’art. 410 cod. proc. civ., afferma che la richiesta del tentativo obbligatorio di conciliazione produrrebbe sostanzialmente gli stessi effetti della domanda giudiziale, comportando la sospensione del decorso di ogni termine di prescrizione e decadenza, per i sessanta giorni entro i quali deve esaurirsi l’espletamento del tentativo di conciliazione e per i venti giorni successivi alla sua conclusione. In realtà, non potendosi confondere – ad avviso di questa S.C. – l’assolvimento di una mera condizione di procedibilità con la domanda giudiziale, asserirne la totale identità di effetti quanto al regime della prescrizione costituisce una petizione di principio, deducendosi in ipotesi quella che è la tesi ancora da dimostrare. Se pure è vero che la prescrizione dell’azione costitutiva presenta analogie con la decadenza, potendo essere interrotta solo con l’esercizio dell’azione medesima e ciò può avvenire una volta sola (salvo che è appena il caso di aggiungere – esperita l’azione e poi estintosi il giudizio, con ritorno dell’effetto interruttivo meramente istantaneo e non più permanente giusta previsione dell’art. 2945 comma 3, cod. civ., residui ancora tempo utile a ripresentare la domanda: cfr. Cass. 6 agosto 2010, n. 18438). Ma ciò non supera il perdurante ostacolo del carattere pur sempre tassativo dei casi di sospensione, come si è già ricordato.
Va, dunque, ribadito che, in assenza di esplicita previsione – all’interno dell’art. 410, comma 2, cod. proc. civ., vecchio testo – della sospensione o di un effetto interruttivo permanente della prescrizione in virtù del tentativo obbligatorio di conciliazione, non vi sono concreti spazi interpretativi per accedere alla prospettazione di cui al ricorso.
Sempre nella decisione n. 21483/2011 sopra citata, questa Corte ha escluso la fondatezza dei sollevati dubbi di legittimità costituzionale per risultare il termine quinquennale di prescrizione di fatto accorciato di un tempo complessivo che può giungere fino a 60 giorni, così realizzandosi ai danni del lavoratore medesimo un’ingiustificata disparità di trattamento (lesiva degli artt. 3, 4 e 24 Cost.) rispetto alle possibilità di azione di altre categorie di cittadini, che non essendo tenuti a previi tentativi di conciliazione possono contare su un termine complessivo di prescrizione dell’azione di annullamento pari ai cinque anni pieni di cui all’art. 1442, comma 1, cod. civ.. E’ stato, al riguardo, osservatori tanto può parlarsi di pregiudizio al diritto all’azione in quanto il complessivo termine di prescrizione risulti apprezzabilmente accorciato, ma ciò non può dirsi rispetto ad un massimo di sessanta giorni (entro cui deve esaurirsi il tentativo di conciliazione) su un totale di ben cinque anni di termine di prescrizione dell’azione di annullamento. In altre parole, il sacrificio del termine è minimo rispetto alla sua entità complessiva. Peraltro, sempre nel quadro della disciplina previgente alla riforma di cui alla L. n. 183 del 2010, il lavoratore non si sarebbe trovato esposto a concreti pregiudizi nemmeno ove il tempo residuo all’esercizio dell’azione (prima del compiersi della relativa prescrizione) fosse risultato inferiore a quello necessario a soddisfare la condizione di procedibilità: infatti, in tale evenienza il lavoratore ben avrebbe potuto proporre la domanda senza previo tentativo di conciliazione (così mettendo al sicuro l’effetto interruttivo permanente), salvo provvedervi dopo, in caso di sospensione del giudizio ex art. 412 bis cod. proc.civ. rivintine, anche a voler in via dialettica supporre il contrario – ossia reputare lesiva del diritto d’azione ogni pur minima contrazione del termine quinquennale di cui all’art. 1442, comma 1, cod. civ. – si perverrebbe ad esiti incompatibili con quelle esigenze di certezza proprie dell’istituto della prescrizione.
Infatti, poiché – come è pacifico nella giurisprudenza di questa S.C. (cfr., ex aliis, Cass. 24 giugno 2009, n. 14862) nei procedimenti instaurati mediante ricorso, caratterizzati dalla scissione fra edictio actionis e vocatio in ius, il mero deposito dell’atto non interrompe la prescrizione, essendo quest’ultimo un effetto sostanziale che consegue solo alla notifica del ricorso medesimo, se si dovessero detrarre dal termine complessivo di prescrizione tutti i giorni in cui non può ancora realizzarsi l’effetto interruttivo permanente conseguente alla notifica, bisognerebbe, coerentemente, detrarre anche il tempo impiegato dal giudice nell’emettere il decreto di fissazione dell’udienza di discussione (che, nei fatti, spesso risulta ben più lungo del termine di cinque giorni previsto dall’art. 415, comma 2, cod. proc. civ. in funzione di mera accelerazione) nonché quello impiegato dalla cancelleria nel rilasciare le copie per la notifica, tempi che non sono nella disponibilità dell’attore.
Con il secondo motivo la ricorrente denuncia la mancata valutazione della prova documentale e l’omessa motivazione circa un fatto decisivo della controversia che è stato oggetto di discussione tra le parti. Lamenta che la Corte territoriale non ha tenuto conto del fatto che la convocazione per il tentativo di conciliazione risultava inviata al datore di lavoro e da questi ricevuta in data 31/3/2007.
Il motivo è inammissibile.
Come si evince dalla stessa sentenza impugnata, già il Tribunale di Marsala aveva fatto esclusivo riferimento, ai fini della valutazione della sussistenza di atti interruttivi, alla sola richiesta di tentativo di conciliazione trasmessa all’UPLMO.
Orbene, non risulta che la questione dell’esistenza di altro atto da considerare ai fini dell’interruzione della prescrizione (diverso dalla mera richiesta del tentativo di conciliazione) sia stata prospettata al giudice di appello. Si evince, anzi, dalla sentenza della Corte territoriale che la P. aveva impugnato la decisione di primo grado “rilevando – sulla base di una interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 410 cod. proc. civ. – che efficacia interruttiva della prescrizione doveva essere tributata alla sola comunicazione inoltrata alla commissione di conciliazione dal lavoratore”.
Con il terzo motivo il ricorrente si duole della violazione o falsa applicazione di norme di diritto lamentando il mancato accertamento della sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato.
Il motivo, oltre a restare assorbito dalle valutazioni di cui ai punti che precedono, è invero del tutto inconferente rispetto al decisum della Corte territoriale che, lungi dallo svolgere valutazione circa le prospettazioni in punto di fatto della ricorrente, ha spiegato le ragioni per le quali tali prospettazioni restavano irrilevanti, evidenziando, al riguardo, che una domanda di mero accertamento della sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato non poteva, nello specifico, essere giudicata sorretta da un concreto interesse.
In conclusione, si propone il rigetto del ricorso, con ordinanza ai sensi dell’art. 375 cod. proc. civ., n. 5>>.
2 – Non sono state depositate memorie ai sensi dell’art. 380 bis, comma 2, cod. proc. civ..
3 – Questa Corte ritiene che le osservazioni in fatto e le considerazioni e conclusioni in diritto svolte dal relatore siano del tutto condivisibili, siccome coerenti alla consolidata giurisprudenza di legittimità in materia e che sussista con ogni evidenza il presupposto dell’art. 375, n. 5, cod. proc. civ. per la definizione camerale del processo.
4 – Il ricorso deve, pertanto, essere rigettato.
5 – Infine sulla va disposto per le spese del presente giudizio di legittimità essendosi il C.N.S.A.M. limitato a depositare atto di costituzione ai soli fini della partecipazione all’udienza di discussione e non avendo il medesimo svolto attività difensiva.
6 – Il ricorso è stato notificato in data successiva a quella (31/1/2013) di entrata in vigore della legge di stabilità del 2013 (art. 1, comma 17 della legge 24 dicembre 2012, n. 228 del 2012), che ha integrato l’art. 13 del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, aggiungendovi il comma 1 quater del seguente tenore: “Quando l’impugnazione, anche incidentale è respinta integralmente o è dichiarata inammissibile o improcedibile, la parte che l’ha proposta è tenuta a versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione, principale o incidentale, a norma art. 1 bis. Il giudice dà atto nel provvedimento della sussistenza dei presupposti di cui al periodo precedente e l’obbligo di pagamento sorge al momento del deposito dello stesso”.
La suddetta condizione sussiste nel caso di specie.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso; nulla per le spese.
Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater; del d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.
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