CORTE di CASSAZIONE sentenza n. 5665 depositata il 7 marzo 2013
Svolgimento del processo
Con sentenza pubblicata in data 29 giugno 2009 la Corte di appello di Milano ha respinto la impugnazione proposta da S. S. avverso la sentenza di primo grado che aveva accertato la legittimità del licenziamento disciplinare intimatogli dalla datrice W. s.r.l., per assenza ingiustificata dal lavoro e per recidiva reiterata infrabiennale. In particolare, i giudici di appello, disattendendo le censure a riguardo della parte appellante, hanno affermato che la lettera di contestazione era stata tempestiva, che la stessa individuava specificamente i fatti oggetto di addebito, che il provvedimento espulsivo aveva assicurato, come prescritto dall’art. 25 CCNL, la piena conoscenza e conoscibilità della causale del recesso. Hanno quindi confermato la correttezza della ricostruzione operata dal primo giudice richiamando la puntuale deposizione del teste P., avvalorata dalle contraddittorie difese del lavoratore il quale nella memoria di costituzione in giudizio aveva allegato di avere chiesto al Caporeparto di potersi assentare al fine di accompagnare il figlio a visita medica e che tale permesso gli era stato arbitrariamente negato, mentre, nel corso dell’interrogatorio, aveva affermato che il permesso gli era stato concesso verbalmente. I giudici del gravame, pertanto verificata la sussistenza della recidiva per la mancata impugnazione delle sanzioni irrogate nel biennio precedente, hanno ritenuto la sussistenza della giusta causa di licenziamento evidenziando, che la condotta addebitata costituiva l’ennesimo fatto rivelatore della irreversibile insofferenza del dipendente verso le regole aziendali, come confermato dalle numerose precedenti sanzioni disciplinari, alcune delle quali irrogate per fatti analoghi. Hanno escluso, alla luce della oggettiva gravità della condotta, il carattere discriminatorio in funzione antisindacale, del recesso datoriale. Per la cassazione della decisione ha proposto ricorso affidato a sette motivi G. B.. L’intimata ha depositato controricorso. Entrambe le parti hanno depositato memoria ai sensi dell’art. 378 cod. proc. civ.
Motivi della decisione
Con il primo motivo di ricorso il ricorrente deduce, ai sensi dell’art. 360, comma primo n. 5 cod. proc. civ., la omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione in ordine a fatti decisivi della controversia e, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ., la violazione e falsa applicazione dell’art. 7 St. lav. con riferimento alla valutazione di tempestività della contestazione intervenuta a ben 35 giorni di distanza dal fatto. Il motivo in entrambi i profili, attinenti l’uno alla violazione di norme di diritto e l’altro al vizio di motivazione, risulta infondato. Conviene premettere che secondo un principio consolidato di questa Corte l’immediatezza della comunicazione del provvedimento espulsivo rispetto al momento della mancanza addotta a sua giustificazione, ovvero rispetto a quello della contestazione, si configura quale elemento costitutivo del diritto al recesso del datore di lavoro; invero la tempestività della reazione del datore di lavoro all’inadempimento del lavoratore riveste un particolare rilievo in quanto, quando si tratti di licenziamento per giusta causa, il tempo, più o meno lungo, trascorso tra l’accertamento del fatto attribuibile al lavoratore e la successiva (contestazione ed) intimazione di licenziamento disciplinare può, in concreto, indicare l’assenza di un requisito della fattispecie prevista dall’art. 2119 cod. civ. (incompatibilità del fatto contestato con la prosecuzione del rapporto di lavoro) ed essere, quindi, sintomatico della mancanza d’interesse all’esercizio del diritto potestativo di licenziare (v. tra le altre, Cass. 15649 del 2010). L’affermazione va integrata con il rilievo secondo cui il requisito della immediatezza deve essere inteso in senso relativo, potendo in concreto essere compatibile con un intervallo di tempo, più o meno lungo, quando l’accertamento e la valutazione dei fatti richieda uno spazio temporale maggiore ovvero quando la complessità della struttura organizzativa dell’impresa possa far ritardare il provvedimento di recesso (tra le altre v. Cass. 15469 del 2010 cit., n. 5546 del 2010; n. 13167 del 2009, Cass. n. 2580 del 2009). E’ stato inoltre precisato che ove sussista un rilevante intervallo temporale tra i fatti contestati e l’esercizio del potere disciplinare, la tempestività di tale esercizio deve essere valutata in relazione al tempo necessario per acquisire conoscenza della riferibilità del fatto, nelle sue linee essenziali, al lavoratore medesimo, e che la relativa prova è a carico del datore di lavoro (Cass. n. 7410 del 2010). La Corte territoriale si e attenuta a tali principi. Nella valutazione di immediatezza della contestazione ha fatto infatti riferimento alla particolare circostanza che la condotta addebitata è avvenuto a ridosso del periodo di chiusura per ferie dello stabilimento e alla necessità per la parte datoriale di un’adeguata ed equilibrata ponderazione dell’iniziativa disciplinare anche tenuto conto della qualità sindacale del lavoratore e della necessità di valutazione dei precedenti. Ha quindi indicato una ragione oggettiva che aveva potuto ritardare la percezione o il definitivo accertamento e valutazione dei fatti contestati e la necessità di un’adeguata e responsabile ponderazione, da ritenersi funzionale anche all’interesse del lavoratore a non vedersi colpito da incolpazioni avventate (Cass. n. 23739 del 2008). Ricordato che è comunque riservata al giudice del merito la valutazione delle circostanze di fatto che in concreto giustificano o meno il ritardo, che la sentenza impugnata risulta sul punto congruamente motivata e logicamente articolata, la stessa non è censurabile in questa sede (Cass. n. 15334 e 22066 del 2007; n. 837, 29480 e 29669 del 2008).
Con il secondo motivo di ricorso parte ricorrente deduce, ai sensi dell’art. 360, comma primo n. 5 cod. proc. civ., la omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione in ordine a fatti decisivi della controversia e, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ., la violazione e falsa applicazione dell’art. 7 St. lav. con riferimento alla eccepita genericità della contestazione. Afferma, in sintesi, che, costituendo oggetto di addebito un comportamento omissivo, al fine di rendere specifica la contestazione era necessaria anche la indicazione in positivo del comportamento al quale era tenuto il lavoratore; era necessario, inoltre, richiamare la vicenda relativa al permesso che la società asserisce negato, e indicare la ragione per la quale la assenza era ritenuta non giustificata. Il motivo è infondato. Secondo quanto già affermato da questa Corte – la previa contestazione dell’addebito, ha lo scopo di consentire al lavoratore l’immediata difesa e deve conseguentemente rivestire il carattere della specificità, che è integrato quando sono fornite le indicazioni necessarie ed essenziali per individuare, nella sua materialità, il fatto o i fatti nei quali il datore di lavoro abbia ravvisato infrazioni disciplinari o comunque comportamenti in violazione dei doveri di cui agli art. 2104 e 2105 c.c. L’accertamento relativo al requisito della specificità della contestazione costituisce oggetto di un’indagine di fatto, incensurabile in sede di legittimità, salva la verifica di logicità e congruità delle ragioni esposte dal giudice di merito, (ex plurimis Cass.,n. 7546 del 2006 n. 18377 del 2006 n. 1404 del 2000, n. 437 del 1998). La sentenza impugnata ha motivato in maniera logica e congrua la ragione della ritenuta specificità della contestazione, rilevando che nella contestazione era stato indicato il fatto addebitato nella sua materialità (assenza ingiustificata dal lavoro nel giorno 4 agosto 2006) e i precedenti configuranti recidiva. Essa si sottrae pertanto alle censure svolte nella illustrazione del motivo.
Con il terzo motivo di ricorso parte ricorrente deduce, ai sensi dell’art. 360, comma primo n. 5 cod. proc. civ., la omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione in ordine a fatti decisivi della controversia nonché, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ., la violazione e falsa applicazione dell’art. 23 CCNL metalmeccanici 8.6.1999 applicabile al rapporto. Richiama l’obbligo posto dalla contrattazione collettiva di motivazione del provvedimento espulsivo e deduce la insufficienza a tal fine del mero richiamo alla lettera di contestazione degli addebiti, richiedendosi -assume – anche la indicazione delle ragioni per cui le difese del lavoratore erano state ritenute irrilevanti o inconferenti nonché delle norme di legge, aziendali e/o contrattuali violate. Il motivo è infondato. Invero, secondo il consolidato orientamento di questa Corte, al quale si ritiene di dare continuità, nel procedimento disciplinare a carico del lavoratore l’essenziale elemento di garanzia in suo favore è dato dalla contestazione dell’addebito, mentre la successiva comunicazione del recesso ben può limitarsi a far riferimento sintetico a quanto già contestato, non essendo tenuto il datore di lavoro, neppure nel caso in cui il contratto collettivo preveda espressamente l’indicazione dei motivi, ad una motivazione “penetrante”, analoga a quella dei provvedimenti giurisdizionali, né in particolare è tenuto a menzionare nel provvedimento disciplinare le giustificazioni fornite dal lavoratore dopo la contestazione della mancanza, e le ragioni che lo hanno indotto a disattenderle (ex plurimis: Cass. n. 2851 del 2006, n. 15320 del 2004 n. 14860 del 2000). Con specifico riferimento all’obbligo di motivazione del provvedimento espulsivo prescritto dall’art. 23 del contratto collettivo nazionale metalmeccanici è stato ritenuto che tale obbligo è legittimamente adempiuto se comunque il datore di lavoro abbia previamente contestato con precisione gli addebiti al lavoratore e tali immutate circostanze di fatto siano poste a fondamento del licenziamento e, senza necessità di una loro ulteriore descrizione ripetitiva, meramente richiamate quali motivi del recesso stesso, ancorché manchino osservazioni e rilievi in ordine alle giustificazioni fatte valere dal lavoratore, non sussistendo alcun Obbligo per il datore di lavoro di menzionarle e confutarle nell’atto di licenziamento.(Cass. n. 1073 del 1990).
Con il quarto motivo di ricorso parte ricorrente deduce, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ., la violazione e falsa applicazione dell’art.7 St. lav. nonché ai sensi dell’art. 360, comma primo n. 5 cod. proc. civ., la omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione in ordine a fatti decisivi della controversia rappresentato dalla circostanza che, contrariamente a quanto affermato dai giudici di merito, il lavoratore, nelle proprie difese, aveva sempre sostenuto che il permesso gli era stato concesso verbalmente. Il rilievo seppure fondato con riguardo alla memoria di costituzione di primo grado non è decisivo . La sentenza impugnata è pervenuta all’accertamento del fatto contestato in base alla deposizione, ritenuta puntuale ed attendibile, del teste P., Capo reparto, il quale ha escluso di avere accordato allo S. il permesso richiesto, chiarendo che ciò era avvenuto perché vi era stata concentrazione di richieste analoghe da parte di altri dipendenti ed era stata superata la soglia massima sostenibile. Nella economia della motivazione è su tale deposizione che si regge la ricostruzione fattuale del complessivo episodio mentre il riferimento alla contraddittorietà di difese spiegate dal lavoratore svolge un ruolo solo e indirettamente confermativo della sussistenza del fatto addebitato, dovendo, per tale ragione escludersene la decisività.
Con il quinto motivo di ricorso si deduce, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ., la violazione e falsa applicazione dell’art. 2119 e dell’art. 7, L. n. 300 del 1970 e 5 CCNL nonché, ai sensi dell’art. 360, comma primo n. 5 cod. proc. civ. ,la omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione in ordine a fatti decisivi della controversia. Si censura il fatto che i giudici di appello, anche a voler ritenere accertato il diniego di permesso da parte del P., ha omesso di esaminare e analizzare tutte le circostanze nell’ambito delle quali si iscrive la condotta addebitata ed in particolare l’elemento psicologico , elementi questi indispensabili ai fini della verifica della proporzionalità della sanzione espulsiva. In particolare si deduce che la decisione ha trascurato di considerare la particolare ragione dell’assenza determinata da esigenze di cura del figlio, dalla supposizione del lavoratore di essere stato autorizzato, dall’arbitrarietà del diniego di permesso, dalla carenza di prova da parte della società datrice delle regioni tecnico-organizzative che non consentivano la concessione del permesso. Deduce inoltre che la sentenza è incorsa in una non corretta valutazione della recidiva per avere preso in considerazione precedenti sanzioni disciplinari in quanto non impugnate omettendo di tenere conto che il lavoratore aveva sempre contestato la legittimità di ogni singola precedente sanzione. Il motivo è inammissibile. Invero, quanto alla deduzione di omessa valutazione di alcune circostanze, deve preliminarmente osservarsi che, secondo il consolidato orientamento di questa Suprema Corte (cfr., ad esempio, Cass. 28 luglio 2004 n. 14262), nel caso in cui, con il ricorso per Cassazione, venga dedotta l’incongruità o l’illogicità della sentenza impugnata per l’asserita mancata o erronea valutazione di risultanze processuali, è necessario, al fine di consentire al Giudice di legittimità il controllo della decisività della risultanza non valutata (o insufficientemente o erroneamente valutata), che il ricorrente precisi, mediante integrale trascrizione della medesima nel ricorso, la risultanza che egli asserisce decisiva e non valutata o insufficientemente valutata, dato che solo tale specificazione consente alla Corte di Cassazione, alla quale è precluso l’esame diretto degli atti, di delibare la decisività della medesima, dovendosi escludere che la precisazione possa consistere in meri commenti, deduzioni o interpretazioni delle parti.
Quanto ora rilevato assorbe, con riferimento al caso di specie anche la deduzione di novità, eccepita dalla controricorrente con riferimento alla allegata convinzione del lavoratore in ordine alla concessione del permesso. Quanto poi alla recidiva si rileva che parte ricorrente non ha dimostrato di avere, con la domanda riconvenzionale impugnato anche le sanzioni disciplinari. Invero alla impugnazione delle stesse non si fa alcun riferimento nelle conclusioni di primo grado riprodotte in ricorso (v. pag. 4 , ricorso), limitate alla declaratoria di illegittimità del licenziamento con le conseguenze di cui all’art. 7 St. lav., restando ininfluente, ai fini della sussistenza della recidiva la mera deduzione, frutto di valutazione soggettiva, della ingiustificatezza delle sanzioni disciplinari contestate a tale titolo. Con il sesto motivo di ricorso si deduce, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ., la violazione e falsa applicazione dell’art. 2119 cod. civ. e dell’art. 25 CCNL metalmeccanici 8.6.1999 e, ai sensi dell’art. 360, comma primo n. 5 cod. proc. civ., la omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione in ordine a fatti decisivi della controversia. Parte ricorrente premesso l’errore della sentenza impugnata nel dare per pacifica la sussistenza delle precedenti violazioni contestate, rileva che l’art. 25 del CCNL punisce con la sanzione espulsiva condotte particolarmente gravi, atte ad arrecare grave nocumento morale o materiale all’azienda o riconducibili ad ipotesi delittuose a termini di legge, mentre l’assenza ingiustificata, ai sensi dell’art. 24, lett. a) CCNL risulta punita con sanzioni conservative. Rileva inoltre che in base all’art. 25 punto A, lett. h) del CCNL la recidiva in qualunque delle mancanze contemplate dall’art. 24, può semmai dare luogo al licenziamento con preavviso. Sostiene in sintesi la non corretta applicazione del criterio di proporzionalità nell’irrogazione del licenziamento. Il motivo è infondato. Occorre muovere dal rilievo che la nozione di giusta causa di licenziamento è nozione legale. “Giusta causa di licenziamento e proporzionalità della sanzione disciplinare sono nozioni che la legge, allo scopo di adeguare le norme alla realtà da disciplinare, articolata e mutevole nel tempo, configura con disposizioni, ascrivibili alla tipologia delle cosiddette clausole generali, di limitato contenuto e delineanti un modulo generico che richiede di essere specificato in sede interpretativa, mediante la valorizzazione sia di fattori esterni relativi alla coscienza generale, sia di principi che la stessa disposizione tacitamente richiama. Tali specificazioni del parametro normativo hanno natura giuridica e la loro disapplicazione è, quindi, deducibile in sede di legittimità come violazione di legge, mentre l’accertamento della concreta ricorrenza, nel fatto dedotto in giudizio, degli elementi che integrano il parametro normativo e le sue specificazioni e della loro concreta attitudine a costituire giusta causa di licenziamento, ovvero a far sussistere la proporzionalità tra infrazione e sanzione, si pone sul diverso piano del giudizio di fatto, demandato al giudice di merito e incensurabile in cassazione se privo di errori logici o giuridici. Pertanto, l’operazione valutativa compiuta dal giudice di merito nell’applicare le clausole generali come quella di cui all’art. 2119 o all’art. 2106 cod. civ., che dettano tipiche “norme elastiche”, non sfugge ad una verifica in sede di giudizio di legittimità, sotto il profilo della correttezza del metodo seguito nell’applicazione della clausola generale, poiché l’operatività in concreto di norme di tale tipo deve rispettare criteri e principi desumibili dall’ordinamento generale, a cominciare dai principi costituzionali e dalla disciplina particolare (anche collettiva) in cui la fattispecie si colloca.” (Cass. n. 25144 del 2010). Questa Corte ha altresì chiarito che essendo la “giusta causa” nozione legale, il giudice non è vincolato dalle previsioni del contratto collettivo; può quindi ritenere la sussistenza della giusta causa per un grave inadempimento o per un grave comportamento del lavoratore contrario alle norme della comune etica o del comune vivere civile ove tale grave inadempimento o tale grave comportamento, secondo un apprezzamento di fatto non sindacabile in sede di legittimità se congruamente motivato, abbia fatto venire meno il rapporto fiduciario tra datore di lavoro e lavoratore; per altro verso, il giudice può escludere altresì che il comportamento del lavoratore costituisca di fatto una giusta causa, pur essendo qualificato tale dal contratto collettivo, in considerazione delle circostanze concrete che lo hanno caratterizzato (Cass. n. 60 del 2011). In base alla giurisprudenza richiamata è da escludere che le previsioni collettive abbiano carattere vincolante in ordine alla valutazione di gravità della condotta addebitata. E’ comunque da rilevare che le condotte descritte nell’art. 25 CCNL come idonee a fondare il licenziamento senza preavviso sono soltanto indicative; esse quindi, anche sotto questo profilo, non precludono la valutazione della condotta oggetto di addebito alla luce della nozione legale di ” giusta causa” Tanto premesso si rileva che la sentenza impugnata ha ritenuto irrimediabilmente venuto meno il vincolo fiduciario nei confronti dello S., valorizzando i precedenti disciplinari del lavoratore per fatti analoghi – assenze ingiustificate – ed evidenziando come gli stessi avevano dato luogo a sanzioni progressivamente più gravi; a tali precedenti specifici si aggiungevano sempre nel biennio altri sei episodi disciplinarmente rilevanti sanzionati con la pena pecuniaria e con la sospensione. La motivazione dei giudici di appello non presenta vizi logici o giuridici nel fondare la sussistenza della giusta causa con riferimento ai numerosi precedenti disciplinari, rivelatori di una insofferenza del dipendente per le regole aziendali e , implicitamente , della inidoneità delle precedenti sanzioni conservative a spiegare efficacia dissuasiva nei confronti del lavoratore.
Con il settimo motivo di ricorso si deduce, ai sensi dell’art. 360, comma primo n. 5 cod. proc. civ., la omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione in ordine a fatti decisivi della controversia con riferimento alla prospettata natura discriminatoria del licenziamento per essere lo S. rappresentante sindacale. Il motivo è inammissibile dovendosi anche in questo caso rilevare che parte ricorrente nel denunziare la l’incongruità o l’illogicità della sentenza impugnata per l’asserita mancata o erronea valutazione di risultanze processuali, non ha precisato mediante integrale trascrizione della medesima nel ricorso, la risultanza che egli asserisce decisiva e non valutata o insufficientemente valutata. La Corte ha escluso il ricorrere del motivo di discriminazione in funzione antisindacale nel recesso datoriale sulla base della oggettività della condotta e tale valutazione risulta senz’altro congrua e logica.
Consegue il rigetto del ricorso. Le spese del giudizio, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese di cui € 50,00 per esborsi e € 3.000,00 per compensi professionali, oltre accessori.
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