CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza n. 6272 del 31 marzo 2016

LAVORO – RAPPORTO DI LAVORO – LAVORATORI SOCIALMENTE UTILI – PROGETTI DI PUBBLICA UTILITA’ – ASSEGNO MENSILE – DOMANDA – TRATTAMENTO ECONOMICO – NATURA PREVIDENZIALE

Svolgimento del processo

1. – Con la sentenza impugnata la Corte di Appello di Reggio Calabria, in riforma della pronuncia di primo grado, ha respinto le domande proposte dai lavoratori in epigrafe, impegnati in progetti di pubblica utilità presso la Comunità montana “Aspromonte Orientale” avente ad oggetto l’adeguamento dell’assegno mensile corrisposto nell’anno 2000 perché la Regione Calabria convenuta in giudizio non era il soggetto che aveva “utilizzato” l’attività dei lavoratori ma solo il soggetto che aveva corrisposto agli “enti utilizzatori” le risorse finanziarie ai sensi del d.lgs. n. 81 del 2000.

In sintesi – secondo i giudici d’appello – l’assegno in controversia, che fino al 1999 era stato corrisposto dall’INPS, dal 2000 doveva essere corrisposto dagli enti utilizzatori, finanziati dalle regioni, tra le quali erano state ripartite le risorse del Fondo per l’occupazione, destinate alle attività di lavori socialmente utili, per l’anno 2000, in forza di apposite convenzioni da sottoscrivere entro il 31 luglio 2000 tra il Ministero del Lavoro e le regioni interessate.

Una volta deliberato il finanziamento dalla Regione Calabria in favore degli enti utilizzatori al fine di corrispondere l’assegno ai lavoratori ed erogate le risorse agli enti medesimi, per la Corte territoriale, destinatari della domanda di adeguamento dell’assegno avrebbero dovuto essere proprio gli enti utilizzatori che, oltre a pagare direttamente e in proprio l’assegno ai lavoratori, avevano realizzato i progetti ed utilizzato le prestazioni lavorative, in virtù di competenza propria, esercitando propri poteri, e non in rappresentanza dell’ente finanziatore.

2. – Per la cassazione di tale sentenza i soccombenti in epigrafe hanno proposto ricorso affidato a tre motivi, illustrati da memoria. Ha resistito con controricorso la Regione Calabria.

Motivi della decisione

3. – Con il primo motivo di ricorso si deduce omessa pronuncia e valutazione dei motivi prospettati dai resistenti in merito all’inammissibilità del ricorso in appello proposto dalla Regione Calabria in quanto non sufficientemente specificate le ragioni del gravame.

La doglianza, così come formulata, non è accoglibile.

Occorre premettere che parte ricorrente denuncia un vizio che attiene alla corretta applicazione di norme da cui è disciplinato il processo che ha condotto alla decisione dei giudici di merito. Trattasi, in generale, non di errore di giudizio che attenga al rapporto sostanziale dedotto in lite (come vorrebbe il riferimento contenuto nella rubrica del motivo in esame all’art. 360, co. 1, n. 3, c.p.c.), bensì di errore di attività che, essendosi verificato nel corso del processo, si assume possa averne inficiato l’esito. Poiché in tali casi il vizio della sentenza impugnata discende direttamente dal modo in cui il processo si è svolto, ossia dai fatti processuali che quel vizio possono aver procurato, si spiega il consolidato orientamento di legittimità secondo il quale, in caso di denuncia di errores in procedendo del giudice di merito, la Corte di cassazione è anche giudice del fatto, inteso, ovviamente, come fatto processuale (tra le tante: Cass. n. 14098 del 2009; Cass. n. 11039 del 2006; Cass. n. 15859 del 2002; Cass. n. 6526 del 2002).

Tuttavia le Sezioni unite, con la sentenza n. 8077 del 2012, hanno precisato che, in ogni caso, la proposizione del motivo di censura resta soggetta alle regole di ammissibilità e di procedibilità stabilite dal codice di rito, nel senso che la parte ha l’onere di rispettare il principio di autosufficienza del ricorso e le condizioni di procedibilità di esso (in conformità alle prescrizioni dettate dall’art. 366, co. 1, n. 6 e 369, co. 2, n. 4, c.p.c.), “sicché l’esame diretto degli atti che la Corte è chiamato a compiere è pur sempre circoscritto a quegli atti ed a quei documenti che la parte abbia specificamente indicato ed allegato”.

La parte ricorrente è tenuta ad indicare gli elementi individuanti e caratterizzanti il “fatto processuale” di cui richiede il riesame, affinché il corrispondente motivo sia ammissibile e contenga, per il principio di autosufficienza del ricorso, tutte le precisazioni e i riferimenti necessari a individuare la dedotta violazione processuale (cfr. Cass. n. 6225 del 2005; Cass. n. 9734 del 2004).

In particolare, ove il ricorrente censuri la statuizione di inammissibilità, per difetto di specificità, di un motivo di appello, ha l’onere di specificare, nel ricorso, le ragioni per cui ritiene erronea tale statuizione del giudice di appello e sufficientemente specifico, invece, il motivo di gravame sottoposto a quel giudice, e non può limitarsi a rinviare all’atto di appello, ma deve riportarne il contenuto nella misura necessaria ad evidenziarne la pretesa specificità (da ultimo Cass. n. 18 del 2015; cfr. Cass. n. 12664 del 2012; Cass. n. 86 del 2012; Cass. n. 20405 del 2006; Cass. n. 6225 del 2005; Cass. n. 9734 del 2004; con riferimento alla falsa applicazione del principio tantum devolutum quantum appellatum ai sensi dell’art. 437 c.p.c. v. Cass. n. 23420 del 2011).

Tanto non è accaduto nella specie laddove nel corpo del motivo non sono indicati i contenuti dell’atto di appello della Regione in modo tale da individuare il dedotto vizio processuale.

4. – Con il secondo motivo si denuncia omessa, insufficiente, contraddittoria motivazione della sentenza impugnata per avere negato la legittimazione passiva della Regione Calabria, nonostante una serie di atti, non adeguatamente valutati dalla Corte territoriale, dimostrassero che l’ente utilizzatore era un semplice delegato al pagamento, tenuto conto che il sussidio era predeterminato dalla Regione nella misura di lire 800.000, senza possibilità per l’ente utilizzatore di modificarne l’importo; aggiunge che l’ente aveva l’obbligo di rendicontare e ove fossero residuate somme, per qualsiasi ragione, aveva l’obbligo di restituzione; eccepisce che a carico dell’utilizzatore gravavano solo gli oneri relativi all’assicurazione obbligatoria presso l’Inail e per la responsabilità civile verso terzi; rileva che la Regione si era obbligata al pagamento dei sussidi e l’ente utilizzatore esclusivamente alla stabilizzazione occupazionale; si evidenzia altresì che nell’appello la Regione aveva indicato come legittimato passivo non la Comunità montana bensì il Comune di Locri, con cui i lavoratori istanti non avevano avuto alcun rapporto.

Con il terzo mezzo si denuncia falsa applicazione di norme di diritto, deducendo che, con il d. Igs. n. 469 del 1997 e con il successivo d. Igs. n. 81 del 2000, la Regione, in virtù dei poteri acquisiti con l’autonomia in materia di politiche del lavoro, ha sostituito se stessa all’Inps quale ente gestore delle somme erogate ai lavoratori socialmente utili, divenendo così il soggetto tenuto al pagamento degli assegni che dovevano essere, secondo le previsioni di legge e gli stanziamenti statali, comprensivi della rivalutazione Istat. Si sottolinea, in particolare, che l’ente utilizzatore in alcun modo avrebbe potuto rideterminare l’ammontare del sussidio senza un ordine della Regione, né il singolo lavoratore di pubblica utilità avrebbe potuto pretendere la rivalutazione sulla base del rapporto con l’ente utilizzatore, su cui possono gravare esclusivamente gli oneri relativi all’assicurazione obbligatoria presso l’Inail e per la responsabilità civile verso terzi.

Il Collegio reputa tali motivi di ricorso, da trattarsi congiuntamente per reciproca connessione, meritevoli di accoglimento.

4.1. – Questa Corte, a Sezioni Unite (v. Cass. SS.UU. n. 22276 del 2004; n. 3508 del 2005; n. 11346 del 2005; n. 3 del 2007), ha delineato il quadro di riferimento dell’assegnazione a lavori socialmente utili collocando l’istituto a valle dei c.d. ammortizzatori sociali quale strumento innovativo per fronteggiare la disoccupazione soprattutto (anche se non esclusivamente) giovanile, con una connotazione marcatamente previdenziale-assistenziale: la tutela sociale al disoccupato costituisce un diritto condizionato ad una prestazione di lavoro “fuori mercato” in attività socialmente utili, oltre che ad un dovere di attivarsi personalmente per uscire dall’assistenza.

Tali attività di utilità sociale possono essere svolte sulla base di progetti promossi da enti pubblici ed affidabili per la loro realizzazione ad altri enti – denominati “enti utilizzatori” – attraverso il coinvolgimento di soggetti disoccupati, cui vengono riconosciuti alcuni emolumenti (condizionati alla prestazione di attività lavorative) espressamente regolati dalla legge non in quanto oggetto di un contratto di lavoro subordinato ma come obblighi della parte pubblica scaturenti da un rapporto giuridico di carattere previdenziale che trova fondamento nell’art. 38 Cost. perché diretto alla soddisfazione di un interesse sociale, quale quello della tutela contro la disoccupazione.

In particolare il trattamento economico consiste in un emolumento che, non commisurato ex art. 36 Cost. alla quantità e qualità del lavoro prestato, originariamente era pari alla prestazione previdenziale in godimento per i titolari di trattamento straordinario di integrazione salariale o di indennità di mobilità, mentre per i disoccupati che non godevano di alcuna prestazione previdenziale era predeterminato in maniera fissa, dapprima, in una indennità oraria (lire 7.500 poi elevate ad 8.000) e di poi in una prestazione mensile (non superiore a lire 800.000, successivamente elevate, con la possibilità di un importo integrativo di questo trattamento per le giornate di effettiva esecuzione della prestazione). Il finanziamento dei lavori socialmente utili è stato posto sin dall’inizio a carico del Fondo per l’occupazione di cui al d. I. n. 148 del 1993, art. 1, co. 7, conv. in I. n. 236 del 1993. Il sussidio viene erogato dall’INPS e per esso trovano applicazione le disposizioni in materia di mobilità e di indennità di mobilità (art. 1, co. 3, d.l. n. 510 del 1996, conv. in I. n. 608 del 1996, che ha sostituito il co. 4 dell’art. 14 d.l. n. 299 del 1994, conv. con modificazioni dalla l. n. 451 del 1994).

L’instaurazione di un rapporto giuridico previdenziale, che viene disciplinato da una legislazione volta a garantire al lavoratore diritti che trovano il loro fondamento nel disposto dell’art. 38 Cost., impedisce al suddetto lavoratore, impegnato in attività presso le amministrazioni pubbliche, la rivendicazione nei confronti di dette amministrazioni di un rapporto di lavoro subordinato, e dei suoi consequenziali diritti. In altri termini il lavoratore socialmente utile, svolgendo la sua attività per la realizzazione di un interesse di carattere generale, ha diritto ad emolumenti, cui non può riconoscersi natura retributiva, ma come si è già detto natura previdenziale.

Da tali inquadramento le Sezioni Unite di questa Corte hanno fatto discendere la giurisdizione del giudice ordinario in ordine alla domanda con la quale il lavoratore socialmente utile rivendica il trattamento economico riconosciutogli, considerando poi che detta pretesa si configura come un diritto soggettivo, per la mancanza nell’ente pubblico di qualsiasi discrezionalità sull’an e sul quantum dell’ammontare di detto trattamento.

Solo nel caso in cui l’occupazione in lavori socialmente utili si discosti da quella dovuta in base al programma originario e venga resa in contrasto con norme poste a tutela del lavoratore può trovare applicazione la disciplina sul diritto alla retribuzione, in relazione al lavoro effettivamente svolto, prevista dall’art. 2126 c.c. (Cass. n. 15071 del 2015; nn.. 22287 e 21311 del 2014 nonché n. 11248 del 2012 e n. 10759 del 2009).

4.2. – Tanto premesso in via generale, ai fini della controversia in esame, occorre poi rammentare che la L. 24 giugno 1997, n. 196, recante norme in materia di promozione dell’occupazione, conferì, con gli artt. 22 e 26, le deleghe al Governo, rispettivamente, per la revisione della disciplina sui lavori socialmente utili e per la definizione di un piano straordinario di lavori di pubblica utilità e di borse di studio a favore di giovani inoccupati del Mezzogiorno.

Le deleghe sono state attuate con l’emanazione di due successivi decreti legislativi: il d. Igs. 7 agosto 1997, n. 280, recante norme in materia di interventi a favore di giovani inoccupati nel Mezzogiorno; il d. Igs. 1 dicembre 1997, n. 468, recante la revisione della disciplina sui lavori socialmente utili.

Questa Corte ha più volte espresso il principio (v. Cass. n. 1461 del 2011; n. 8540 del 2011; Cass. n. 8003 del 2014) che il d. Igs. n. 468 del 1997, art. 1, fornisce una definizione di portata generale dei lavori socialmente utili (LSU), comprensiva delle varie attività che hanno per oggetto la realizzazione di opere e la fornitura dì servizi di utilità collettiva, nonché dei lavori di pubblica utilità (LPU) mirati alla creazione di occupazione in particolari bacini d’impiego, in conformità all’intento demandato dalla legge delega n. 196 del 1997 e in vista di una configurazione unitaria di tutte le attività ivi descritte che ha, successivamente, trovato consolidamento nella nuova disciplina dettata in materia dal d. Igs. n. 81 del 2000, con la conseguenza che il rapporto tra il disposto di cui al d. Igs. n. 468 del 1997, art. 2 (che delinea i settori di attività per i “progetti di lavoro di pubblica utilità”) e quello di cui al d. Igs. n. 280 del 1997, art.. 3 (diretto ad individuare i “lavori di pubblica utilità” in funzione della “creazione di occupazione” in uno specifico bacino di impiego) si configura in termini di specificazione di intenti generali in ambiti territoriali determinati, all’interno di una medesima tipologia di attività e di una medesima finalità del legislatore, connessa ad obiettivi di tutela dalla disoccupazione e di inserimento dal lavoro.

La sostanziale omogeneità dei lavori di pubblica utilità previsti nei due decreti legislativi citati ha dunque consentito di affermare che l’incremento e la rivalutazione dell’assegno – nella misura e nei termini determinati dalla I. n. 144 del 1999, art. 45, comma 9 e dal d. Igs. n. 468 del 1997, art. 8, co. 8 – trovano applicazione anche per i lavori di pubblica utilità previsti dal d. Igs. n. 280 del 1997.

In particolare, per quel che riguarda i soggetti impegnati in lavori di pubblica utilità nella Regione Calabria (come quelli cui si riferisce il presente giudizio) va tenuto presente che la suddetta assimilazione ha trovato conferma nel d.l. n. 159 del 2007, art. 27, co. 1, conv. con modificazioni nella I. n. 222 del 2007, che, sia pure ai fini della stabilizzazione ivi disposta, ha espressamente sancito l’equiparazione nella suindicata Regione dei lavoratori impegnati in lavori di pubblica utilità (ai sensi della I. n. 280 del 1997) e quelli inseriti in progetti di lavori socialmente utili (ai sensi del d. Igs. n. 81 del 2000) (cfr. Cass. n. 20849 del 2015).

4.3. – Ciò posto, la I. n. 144 del 1999 poc’anzi citata, all’art. 45, comma 6, ha stabilito che “fino all’attuazione della riforma degli incentivi all’occupazione e degli ammortizzatori sociali possono essere approvati o prorogati progetti di lavori socialmente utili che utilizzano esclusivamente soggetti che abbiano maturato o che possano maturare dodici mesi in tale tipo di attività nel periodo compreso tra il 1° gennaio 1998 ed il 31 dicembre 1999. A tali soggetti si applicano le disposizioni di cui all’articolo 12 del decreto legislativo 1° dicembre 1997, n. 468.

Le risorse del Fondo per l’occupazione di cui all’articolo 1, comma 7, del decreto- legge 20 maggio 1993, n. 148, convertito, con modificazioni, dalla legge 19 luglio 1993, n. 236. destinate alle attività progettuali di lavori socialmente utili e non utilizzate per tale finalità rimangono comunque destinate all’attuazione di quanto espressamente previsto nelle disposizioni che riformano gli incentivi all’occupazione e gli ammortizzatori sociali. Fino all’attuazione della riforma degli incentivi all’occupazione e degli ammortizzatori sociali le Commissioni regionali per l’impiego potranno deliberare, sulla base di apposite convenzioni stipulate dal Ministero del lavoro e della previdenza sociale con le singole regioni, di destinare eventualmente le risorse non impegnabili per progetti di lavori socialmente utili alla realizzazione di misure di politica attiva dell’impiego in armonia on le previsioni della normativa comunitaria”.

Risulta dalla sentenza impugnata ed è sostanzialmente incontroverso tra le parti che, sulla base di tale disposizione, in data 29 febbraio 2000 la Regione Calabria ha stipulato con il Ministero del Lavoro una convenzione con cui le veniva assegnato l’importo complessivo di 29 miliardi e 500 milioni di lire dal Fondo per l’occupazione quale trasferimento di fondi statali vincolati alla realizzazione delle misure di politica attiva dell’impiego ai sensi dell’art. 45, co. 6, l. n. 144 del 1999. In attuazione della convenzione con lo Stato la Giunta regionale, con delibera n. 733/2000, al fine di consentire la continuità lavorativa, a tutto il 31 gennaio 2001, dei giovani disoccupati che alla data del 31 ottobre 2000 risultavano utilizzati presso gli enti attuatori della convenzione suddetta e per assicurare la possibilità di inserimento a quelli che non avevano potuto maturare i 12 mesi a carico del Fondo per l’occupazione, ha stabilito di corrispondere agli enti utilizzatori il sussidio mensile di 800.000 lire per ciascuno dei soggetti utilizzati fino alla data del 31 gennaio 2001.

Orbene, una volta che, sulla base di detta convenzione, il rapporto giuridico si è instaurato tra Regione, ente utilizzatore e soggetto utilizzato in lavori di pubblica utilità, il trasferimento delle risorse dal Fondo per l’occupazione – da cui l’Inps attingeva per l’erogazione del sussidio – alta Regione Calabria, che ha determinato l’ammontare dell’assegno ed ha ricevuto per esso il finanziamento vincolato dallo Stato, impone di ritenere che sia proprio l’amministrazione regionale la destinataria della pretesa creditoria del lavoratore il quale ritenga che l’emolumento a lui spettante sia stato quantificato in misura difforme da quanto previsto dalla legge, e ciò naturalmente a prescindere dalla fondatezza della domanda sottoposta a successiva delibazione (sull’attinenza al merito della causa della questione della titolarità del rapporto obbligatorio dal lato attivo e passivo v., da ultimo, Cass. SS.UU. n. 2951 del 2016).

In particolare, nell’ambito del rapporto giuridico previdenziale in materia di lavori socialmente utili, sull’ente utilizzatore non gravano gli oneri per il pagamento dell’assegno, al di fuori dì quelli relativi all’assicurazione obbligatoria presso l’Inail e per la responsabilità civile verso terzi nonché di quelli attinenti all’importo integrativo per le ore eccedenti rispetto a quelle remunerate con la prestazione a carico dell’Inps (v. Cass. n. 6670 del 2012).

Così pure nella specie, ove il rapporto giuridico plurilaterale è strutturalmente conforme ad un qualunque rapporto realizzato nell’ambito dei lavori di pubblica utilità, applicandosi i relativi principi comuni, l’ente utilizzatore non è il soggetto debitore dell’eventuale onere aggiuntivo gravante sull’assegno rivendicato da parte ricorrente, rimanendo esso estraneo alla determinazione dell’ammontare dell’emolumento nonché alla ripartizione della relativa fonte di finanziamento, deliberazioni invece di pertinenza regionale.

Destituito di fondamento è, infine, l’argomento speso dalla Corte territoriale secondo cui l’ente utilizzatore dovrebbe pagare per avere realizzato i progetti ed utilizzato le prestazioni lavorative, atteso che, per quanto detto in premessa, in tema di lavori socialmente utili la parte essenziale del compenso per l’opera prestata è a carico dello Stato, per il tramite del Fondo per l’occupazione, in vista di una tutela contro la disoccupazione realizzata mediante l’espletamento di servizi di utilità collettiva, per cui, non essendo configurabile un rapporto di lavoro subordinato, neppure di fatto, non è prevista dalla legge una controprestazione economica a carico del soggetto beneficiario (cfr. Cass. n. 9811 del 2011), il quale, anche se eroga materialmente l’emolumento, è qualificabile come un mero delegato al pagamento (v. Cass. n. 290 del 2005), con obblighi di rendiconto e di restituzione.

5. – Conclusivamente, respinto il primo motivo, vanno accolti gli altri, con cassazione della sentenza impugnata e rinvio alla Corte indicata in dispositivo, la quale deciderà la controversia uniformandosi agli esposti principi enunciati in diritto, provvedendo altresì sulle spese.

P.Q.M.

Rigetta il primo motivo, accoglie gli altri, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte di Appello di Catanzaro, anche per la regolazione delle spese.