CORTE di CASSAZIONE sentenza n. 7126 del 12 aprile 2016
SICUREZZA SUL LAVORO – RAPPORTO DI LAVORO – AMIANTO – MORTE DEL LAVORATORE – NEOPLASIA POLMONARE – ABITUDINE TABAGICA
FATTO
Con sentenza del 9/1 – 11/2/2014 la Corte d’appello di Brescia, in riforma della sentenza di primo grado dello stesso Tribunale ed in accoglimento dell’impugnazione dell’Inail, ha rigettato le domande proposte da R.S., R.L. e R.A., nella qualità di eredi di R.G., volte ad ottenere l’accertamento della sussistenza di un nesso causale tra la morte del loro dante causa e la malattia professionale dell’adenocarcinoma della lingula e l’accertamento, per la sola vedova R.A., del diritto alla rendita ai superstiti sulla base dell’asserita natura professionale della patologia rappresentante la causa o la concausa del decesso.
La Corte territoriale ha respinto le domande dopo aver escluso che l’inalazione delle polveri di silicio fosse stata la causa della neoplasia polmonare che aveva provocato il decesso del R.G., dovendo questa patologia ritenersi secondaria alla forte abitudine tabagica del lavoratore il quale aveva sofferto, per effetto della suddetta esposizione, solo di una lieve broncopneumopatia con danno funzionale del 6%, già indennizzato dall’Inall.
Per la cassazione della sentenza propongono ricorso R.S., R.L. e R.A. con un solo motivo.
Resiste con controricorso l’Inail.
DIRITTO
Con un solo motivo le ricorrenti lamentano la violazione degli artt. 40 e 41 c.p., per non avere la Corte territoriale fatto buon governo del principio di equivalenza delle cause nell’accertamento dell’origine professionale della malattia che aveva causato il decesso del loro dante causa, e dell’art. 421 c.p.c., per non aver la stessa Corte esercitato i propri poteri istruttori d’ufficio, non avendo disposto nuova consulenza medico-legale a fronte della grave discrasia emersa tra le perizie svolte nei primi due gradi di giudizio.
In particolare, le ricorrenti criticano le conclusioni cui è pervenuto il C.T.U di secondo grado, che a loro giudizio la Corte d’appello avrebbe condiviso acriticamente, in base alle quali, pur essendo certa l’esposizione professionale del R.G. alle polveri di silice, era stato tuttavia escluso il nesso causale fra il tumore del polmone, dal quale quest’ultimo era risultato essere affetto, e l’esposizione della durata di 33 anni alla predetta sostanza nociva, per il solo fatto che il lavoratore non aveva contratto la silicosi, il tutto in contrasto con quanto emerso dalla documentazione sanitaria presente in atti e col diverso giudizio formulato al riguardo dell’ausiliare di prime cure.
In definitiva, le ricorrenti imputano alla Corte di merito di aver escluso il predetto nesso causale senza che si fosse nel contempo raggiunta la prova dell’esistenza di una serie causale autonoma e di per sé sufficiente a causare la morte del loro dante causa. Osserva la Corte che il presente ricorso, attraverso il cui unico motivo si fa leva sul supposto mal governo del concetto di equivalenza causale di cui all’art. 41 c.p. e sul lamentato mancato espletamento di un ulteriore approfondimento peritale, è destituito di fondamento: invero, lo stesso motivo, sebbene prospettato come vizio di violazione di legge, finisce per tradursi, anzitutto, in un mero dissenso diagnostico delle risultanze peritali condivise dai giudici di secondo grado, senza che ne venga messa in discussione la devianza dai metodi di indagine scientifica e senza che venga denunziata una omissione di accertamenti strumentali e diagnostici dai quali non si possa prescindere per la formulazione di una corretta diagnosi. Inoltre, attraverso lo stesso motivo le ricorrenti tentano una rivisitazione del materiale istruttorio, operazione, quest’ultima, che non è consentita nel giudizio di legittimità allorquando, come nella fattispecie, il collegio giudicante abbia adeguatamente scrutinato i mezzi di prova sottoposti al suo esame, senza incorrere in vizi logici e giuridici.
In pratica la Corte di merito, con congrua ed adeguata motivazione esente da rilievi di legittimità, ha condiviso gli esiti degli accertamenti eseguiti dal consulente d’ufficio di secondo grado in base ai quali ha potuto appurare che il R.G. non era affetto da silicosi polmonare, pur essendo stato esposto alle polveri di silicio, e che il medesimo era stato in vita un forte fumatore, avendo fumato venti sigarette al giorno per oltre quarant’anni; inoltre, in data 15.5.2009, a seguito di TC al torace, non gli erano state rilevate alterazioni pleuriche o del parenchima polmonare indicative di esposizione a silice e l’esposizione a tale sostanza era stata causa solo della lieve bronco pneumopatia con danno funzionale del 6%, già indennizzato dall’Inail, per cui occorreva tener conto dei dati della letteratura medico-scientifica che escludevano una correlazione fra tumore al polmone ed esposizione a silice senza silicosi.
Tra l’altro la Corte ha escluso che le considerazioni delle appellate in ordine alla sussistenza di un nesso di causalità anche tra la mera esposizione a polveri di silicio, in assenza di silicosi, e cancro al polmone potessero implicare un giudizio di probabilità vicino alla certezza, in quanto le stesse erano basate su osservazioni empiriche prive di fondamento medico-scientifico.
Né la stessa Corte era tenuta ad espletare una terza consulenza, una volta condivisa con adeguata motivazione quella di secondo grado che aveva sottoposto a vaglio critico le conclusioni dell’ausiliare di prime cure il quale, è bene precisarlo, aveva, comunque, escluso che il R.G. fosse affetto da silicosi.
In definitiva, il fatto che in base alla letteratura medico-scientifica la Corte abbia escluso che l’esposizione alla silice senza silicosi potesse essere causa del tumore che causò il decesso in un forte tabagista, quale il dante causa delle odierne ricorrenti, impedisce che possa trovare ingresso la problematica dell’efficienza causale nel concorso di cause, in quanto la Corte territoriale ha accertato, sulla scorta di dati diagnostici e strumentali oggettivi, che l’esposizione del R.G. al silicio non gli provocò la silicosi.
Pertanto, il ricorso va rigettato.
Le spese di lite del presente giudizio seguono la soccombenza delle ricorrenti e vanno poste a loro carico nella misura liquidata come da dispositivo, unitamente al contributo unificato di cui all’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna le ricorrenti al pagamento delle spese del presente giudizio nella misura di € 2500,00 per compensi professionali e di € 100,00 per esborsi, oltre spese generali al 15% ed accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte delle ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13.
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