CORTE di CASSAZIONE sentenza n. 7296 del 13 aprile 2016
LAVORO – RAPPORTO DI LAVORO – PREVIDENZA – DIPENDENTE INPS – AVVOCATO – CREDITI CONTRIBUTIVI CEDUTI – CRITERI DI RIPARTIZIONE DEGLI ONORARI E COMPETENZE
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Corte di Appello di ROMA con sentenza n. 8603 del 27 nov. 2008 – 15 ottobre 2009, in riforma dell’appellata pronuncia, rigettava la domanda dell’attrice; avv. C. e dichiarava nulla la domanda proposta dall’appellante Istituto, volta alla restituzione di quanto asseritamente corrisposto in forza della riformata pronuncia di primo grado, compensando tra le parti le spese di lite, relative ad entrambi i gradi del giudizio.
Avverso la sentenza della Corte territoriale proponeva ricorso (principale) per cassazione l’avv. P. C. con l’avv. P. B., affidato a 8 (otto) motivi (indicati in numero di nove, ma saltando nella enumerazione da sette a nove – cfr. pagg. 39 – 42).
L’INPS, a sua volta, notificava controricorso con ricorso incidentale (avv.ti P. e R.), con un solo motivo ex art. 360 nn. 3 (con riferimento agli artt. 414, 416, 434, 436, 115 e 116 c.p.c.) e 5 c.p.c., limitatamente al rigetto della sua domanda, relativa all’invocata restituzione di quanto pagato in base alla sentenza di primo grado.
La C. ha spiegato difese avverso il ricorso incidentale dell’I.N.P.S. mediante controricorso.
Sono state depositate memorie ex art. 378 c.p.c. da entrambe le parti.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Preliminarmente l’impugnazione principale e quella incidentale, proposte avverso la medesima pronuncia, vanno riunite ex art. 335 c.p.c..
Nel merito, il ricorso principale è infondato, sicché va respinto, mentre va accolto quello incidentale, in relazione al quale l’impugnata sentenza deve essere cassata con rinvio al giudice di merito per nuovo esame.
Ed invero, con ricorso al giudice del lavoro di Roma P. C. esponeva che: 1) era dipendente dell’INPS con la qualifica di avvocato; 2) in attuazione della L. n. 448 del 1998, l’Istituto aveva ceduto alla società di cartolarizzazione SCCI spa i propri crediti contributivi, con distinti contratti del 29/11/1999, 31/5/2001 e 18/7/2002, i quali prevedevano che l’INPS, tramite la propria avvocatura, avrebbe proseguito i giudizi pendenti alla data di cessione, e avrebbe assunto i giudizi pendenti alla data di cessione nonché, sempre tramite la propria avvocatura, anche la difesa tecnica della società concessionaria; 3) ai sensi dell’art. 9 del decreto del Ministero del Tesoro 2.11.99, l’INPS avrebbe trattenuto un importo sino al 2% delle somme riscosse e recuperate; tale importo era stato espressamente qualificato (clausola 9, punto 5 del contratto 31/5/2001, nonché deliberazione INPS n. 89/02) quale corrispettivo per l’attività svolta dall’avvocatura dell’Istituto, prevedendone la distribuzione a ciascun avvocato dell’INPS secondo i criteri di ripartizione degli onorari e competenze ai sensi del D.P.R. n. 411 del 1976, art. 30, comma 2; 4) I’INPS non aveva tuttavia provveduto al pagamento dei compensi per gli anni 2000-2001-2002; 5) il 4.6.03 era stato stipulato un accordo sindacale col quale si destinava una parte di tali risorse (70%) agli avvocati INPS.
L’attrice, pertanto, chiedeva la condanna del convenuto Istituto al pagamento dell’importo spettantegli. L’I.N.P.S. resisteva alla domanda ed il Tribunale accoglieva la domanda in ragione di 32.530,49 a titolo di quote di ripartizione di cui all’art. 30, comma due, D.P.R. n. 412/76, in relazione ai tre contratti di cessione in data 19 nov. 1999, 31 maggio 2001 e 18 luglio 2002.
L’Istituto, quindi, appellava la sentenza emessa il 28 giugno 2005, e la Corte capitolina in riforma della gravata pronuncia, rigettava la domanda dell’attrice, di cui al ricorso introduttivo del giudizio, dichiarando altresì nulla la domanda di restituzione avente ad oggetto le somme versate in esecuzione della sentenza di primo grado, proposta dall’Istituto.
Spese di lite per intero compensate.
Contro la sentenza della Corte territoriale l’avv. C. ha proposto ricorso per cassazione, sostenuto da nove motivi, cui ha resistito l’Inps con controricorso, spiegando altresì ricorso incidentale, fondato su un unico motivo.
Seguendo l’ordine dato dal ricorrente ai motivi del ricorso, principale, il primo è stato formulato per violazione e la falsa applicazione dell’art. 2 del d.lgs. n. 165/2001 e dell’art. 1988 cod.civ., in relazione all’art. 360, comma 1°, n. 3, cod.proc.civ.
La ricorrente ha dedotto che la revoca della delibera n. 89 del 2002 – con la quale il Consiglio di amministrazione dell’ente aveva riconosciuto all’avvocatura il 2% dell’importo lordo dei crediti recuperati in via legale per l’anno 2000, dedotte le spese forfettarie nella misura del 10%, gli incentivi speciali per recupero ed incassi crediti già erogati per il 2000 e gli oneri riflessi, nonché aveva stabilito di distribuire tra i singoli avvocati le somme spettanti secondo le quote di ripartizione contrattualmente stabilite – era inammissibile ai sensi del d.lgs. n. 165/2001, che, privatizzando il rapporto di lavoro, ha sottratto all’amministrazione il potere di autotutela, sicché la stessa non poteva più adottare unilateralmente modifiche o revoche di obbligazioni contrattualmente assunte nei confronti dei dipendenti. Inoltre, la successiva debberà del 17 luglio 2003, n. 805, mediante cui l’ente aveva deciso di ripartire tra i professionisti dell’area legale l’importo di € 7.124.147,06 a titolo di competenze per gli anni 2000-2001, costituiva un atto di riconoscimento di debito.
Con il secondo motivo la ricorrente ha denunciato la violazione e la falsa applicazione dell’art. 132, comma 2°, n. 4 cod.proc.civ., 1362, comma 1°, c.c., nella parte in cui nella sentenza si affermava, senza adeguata motivazione, che i contenuti dell’intesa sindacale del 4 giugno 2003 sarebbero stati superati dal successivo accordo collettivo del 19/12/2005.
Con il terzo motivo il ricorrente ha dedotto l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto decisivo e controverso del giudizio, costituito dalla mancata applicazione del contratto collettivo integrativo 4 giugno 2003 per effetto dell’accordo del 19 dicembre 2005. La sentenza de qua non era condivisibile nella parte in cui aveva ritenuto che questo secondo contratto avesse novato il primo, facendone cessare gli effetti, in violazione del principio generale secondo cui la modifica di una clausola retributiva trova un limite nei diritti quesiti e nell’esaurimento del rapporto.
Con il quarto motivo è stata denunciata la violazione e falsa applicazione dell’art. 1362, comma 1°, cod.civ., nonché l’omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso decisivo del giudizio, in relazione all’art. 360, nn. 3 e 5 c.p.c., assumendo che con il contratto collettivo nazionale integrativo del 19/12/2005 le parti non avevano inteso novare e rimuovere il precedente accordo del giugno 2003, ma solo quello di renderlo inapplicabile, rinegoziando un contratto ritenuto nullo per contrarietà alla legge. La legge, tuttavia, ammetteva la novazione solo in caso di annullabilità dell’obbligazione originaria, e non anche della sua nullità, e comunque non si poteva incidere su un contratto non scaduto ed in vigore, obliterando un diritto ormai acquisito.
Con il quinto motivo il ricorrente ha dedotto la violazione e la falsa applicazione dell’art. 1362, comma 1°, c.c. e del “principio generale dei diritti quesiti”, ribadisce quanto già sostenuto nel motivo precedente, asserendo che l’accordo del 4 giugno 2003 era fonte di diritti di credito ormai acquisiti.
Il sesto motivo ha ad oggetto la violazione e la falsa applicazione dell’art. 13 della legge n. 448/1998 e dell’art. 4 del D.M. 5 novembre 1999, nel testo sostituito dall’art. 9 del D.M. 2 dicembre 1999, nonché dell’art. 1362 c.c., lamentando altresì la violazione dell’art. 30 d.P.R. n. 411/1976.
Il ricorrente ha sostenuto che la quota del 2%, trattenuta dall’INPS per l’attività di difesa e rappresentanza, era il corrispettivo della relativa attività svolta dai difensori del medesimo Istituto, come emergeva dal tenore letterale dei primi due contratti di cessione del 29/11/1999 e del 31/5/2001, quest’ultimo da leggersi anche quale strumento interpretativo del primo, i quali riconoscevano ai legali dell’ente il corrispettivo pari al 2% di quanto riscosso e recuperato tramite la loro attività professionale. L’uso del termine “corrispettivo” era chiaro ed inequivoco della volontà dell’ente di compensare le prestazioni professionali degli avvocati al di fuori di alcuna ulteriore contrattazione, com’era desumibile dai chiarimenti resi dal direttore generale dell’Istituto ai ministeri vigilanti con nota del 20/5/2002 e dell’ulteriore nota del commissario straordinario in data 4/7/2003. La decisione impugnata violava anche disposto dell’art. 30 del d.P.R. citato che, fino al 2002, aveva disciplinato la liquidazione dei compensi inerenti all’attività svolta dai professionisti degli enti pubblici non economici, i quali erano distribuiti automaticamente e periodicamente ai professionisti senza la mediazione di accordi sindacali. In tale schema rientrava anche il 2%, derivante dall’attività di recupero dei crediti oggetto dei contratti di cartolarizzazione, in quanto tipica della funzione legale, da compensare ai sensi del d.P.R. 411/1976. Sul punto la Corte d’appello aveva fornito un’interpretazione non rispondente alla voluntas legis.
Il settimo motivo ha riguardato la violazione e la falsa applicazione dell’art. 45, comma 2°, del testo unico n. 165 del 2001, nonché l’omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio.
Con tale mezzo la ricorrente ha lamentato la disparità di trattamento, in violazione della norma citata, nella parte in cui, di fatto, si era applicato l’accordo del 4 giugno 2003 al personale amministrativo, destinatario del 30% degli introiti, e non anche agli avvocati. Con l’ottavo motivo il ricorrente ha poi denunciato violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c., dell’art. 40 del d.lgs. n. 165/2001 e dell’art. 36 Cost., nonché l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia, con riferimento all’applicazione dei contratti collettivi del 4/6/2003 e del 19/12/2005. Ha ribadito l’erroneità dell’affermazione, contenuta nella sentenza impugnata, secondo cui il secondo contratto avrebbe avuto portata novativa, in contrasto con il fatto che il primo non era mai stato annullato, ma anzi era stato eseguito attraverso la ripartizione dei compensi nella misura del 30% ai dipendenti amministrativi relativi al periodo 2000, 2001 e 2002. L’erroneità riguardava anche la parte della sentenza con la quale la Corte d’appello, violando l’art. 112 del codice di rito, aveva ritenuto un’inammissibile mutatio libelli la sua domanda, proposta in via subordinata, di ripartizione delle somme in base all’accordo del 19/12/2005, considerato che la questione era comunque entrata nel thema decidendum. Né poteva valere l’argomento inerente al mancato rispetto della condizione posta nell’accordo, circa la rinuncia del dipendente ad ogni altra pretesa e alle azioni promosse o da promuovere al fine di poter usufruire dell’applicazione di tale contratto, in ragione della nullità di una preventiva rinuncia alla tutela giudiziale. Il contratto era pertanto suscettibile di essere applicato nei suoi confronti, anche in mancanza di una sua esplicita manifestazione di volontà, ai sensi dell’art. 1419 c.c., stante la nullità della clausola con cui si era subordinata la validità dell’accordo alla rinuncia di un diritto costituzionalmente garantito.
Tutti i motivi, che si affrontano congiuntamente per la connessione logica che li lega, sono infondati.
La questione è stata già esaminata da questa Corte con la sentenza del 18 febbraio 2015, n. 3243, con argomenti che questo Collegio condivide ed a cui intende dare continuità. Essi possono essere così sintetizzati.
La L. 23 dicembre 1998, n. 448, art. 13, prevede la cessione a titolo oneroso ad una società di cartolarizzazione (la SCCI S.p.A.), dei crediti contributivi vantati dall’ INPS già maturati e maturandi sino al 31.12.2001. Il comma 8, di tale articolo dispone: “Nei procedimenti civili di cognizione e di esecuzione, pendenti alla data della cessione, il cessionario può intervenire fermo restando che I’ INPS non può in ogni caso essere estromesso. Per i giudizi di opposizione all’esecuzione promossi avverso, il ruolo, instaurati successivamente alla cessione dei crediti, sussiste litisconsorzio necessario nel lato passivo tra l’INPS ed il cessionario”.
Il D.M. 5 novembre 1999, art. 4, nel testo sostituito dal D.M. 2 dicembre 1999, art. 9, (attuativo della Suindicata legge) prevede che: “L’INPS assume l’onere degli aggi, commissioni e spese di riscossione e recupero relative ai crediti contributivi ceduti, nonché delle anticipazioni della remunerazione riconosciuta ai concessionari, in applicazione del D.Lgs. n. 112 del 1999, art. 17, comma 5. L’INPS trattiene, ovvero ha diritto di ricevere, dall’acquirente dei crediti un importo sino al 2% di qualunque somma riscossa o recuperata a valere sui crediti contributivi ceduti, a titolo di rimborso forfettario degli oneri di cui al presente comma”.
Con contratti stipulati in data 29/11/1999, 31/5/2001 e 18/7/2002, l’ INPS ha ceduto all’acquirente i crediti contributivi maturati al 31/12/1999, al 31/12/2000 ed al 31/12/2001. In tutti tali contratti, alla clausola 9, si prevede che l’INPS “assume nei confronti dell’acquirente gli impegni di cui alle clausole 9.2., 9.3 e 9.4”.
Con la clausola 9.2 l’INPS, in ordine ai crediti contributivi ceduti, si impegna a proseguire i relativi giudizi ex art. 111 c.p.c., con facoltà dell’acquirente di intervenire in tali giudizi. La clausola 9.3 prevede, in materia di esecuzione forzata, che l’INPS si impegna proseguire le dette esecuzioni ex art. 111 c.p.c., con facoltà dell’acquirente di intervenire in tali esecuzioni. La clausola 9.4 prevede che, qualora i debitori promuovano giudizi di merito (o opposizione all’esecuzione), l’INPS e l’acquirente sono litisconsorti necessari. In tal caso l’INPS si impegna a proseguire la relative lite anche per conto dell’acquirente, impegnandosi ad assumerne la difesa tecnica. La clausola 9.5 dispone che l’ “Acquirente con il presente contratto conferisce mandato con rappresentanza all’ INPS affinché lo stesso provveda, ove richiesto e tramite gli avvocati della propria avvocatura, alla rappresentanza e difesa tecnica dello stesso Acquirente dinanzi alle autorità giudiziarie”. Solo nel secondo contratto di cessione, alla clausola 9.5, si prevede che “per lo svolgimento delle attività indicate nella presente clausola 9, sarà corrisposto dall’Acquirente all’ INPS un corrispettivo in conformità a quanto previsto dalla clausola 11 che segue”. L’art. 11 di tutti i contratti di cessione prevede il diritto dell’INPS al rimborso forfettario dell’insieme degli oneri sostenuti per la riscossione ed il recupero dei crediti in questione.
Con delibera n. 89 del 26 marzo 2002, il Consiglio di amministrazione dell’INPS, richiamata la clausola 9.5 del secondo contratto, stabilì di “attribuire il 2% dell’importo lordo dei crediti recuperati in via legale per l’anno 2000 all’Avvocatura interna, dedotte le spese forfetarie nella misura del 10% in applicazione della legge professionale, gli incentivi speciali per il recupero ed incassi crediti già erogati per il 2000 e gli oneri riflessi”, e di “distribuite le somme spettanti secondo le quote, contrattualmente stabilite, di ripartizione di onorari e competenze legali”.
Con tale delibera fu dunque prevista l’attribuzione agli avvocati dell’INPS dell’importo che, in base al DM 5 novembre 1999 ed ai contratti di cessione, la società di cartolarizzazione era tenuta a corrispondere all’ INPS a titolo di rimborso forfetario per rifonderlo dell’onere degli aggi, commissioni e spese di riscossione e recupero relative ai crediti contributivi.
Tale delibera venne revocata dal Commissario Straordinario dell’Istituto con determinazione n. 805 del 17/7/2003 sul presupposto che il 2% dei crediti riscossi o recuperati fosse corrispettivo di pertinenza dell’ INPS e non dell’Avvocatura; che i legali, iscritti all’Albo speciale, potevano patrocinare solo in nome dell’INPS, al quale la SCCI aveva conferito mandato con rappresentanza; che non rientrava nella competenze del C.d.A. dell’Istituto la determinazione del trattamento economico dei dipendenti, oggetto esclusivo della contrattazione collettiva; che, infine, l’accordo sindacale 4/6/2003 destinava all’avvocatura solo una parte (70%) del complessivo importo del 2% dei contributi recuperati per via legale afferenti gli anni 2000-2001 e la restante parte alla contrattazione integrativa relativa al personale amministrativo. Anche tale delibera fu ritenuta illegittima dalla Corte dei conti in sede di controllo sulla gestione dell’ente, sul presupposto che in tanto possono essere riconosciuti a indipendenti trattamenti economici in quanto ciò avvenga mediante contratti, stipulati secondo i criteri e le modalità previste nel titolo terzo del d.lgs. n.165/2001.
Incontestate queste premesse, deve rilevarsi che nell’ambito del pubblico impiego privatizzato, l’amministrazione che, melus re perpensa, modifica o ritira l’atto di riconoscimento di un trattamento economico non dovuto, non esercita il potere amministrativo di autotutela, ma compie un atto di organizzazione e gestione del rapporto di lavoro tipico del diritto privato, rispetto al quale il privato può insorgere denunciandone la illegittimità e, nel relativo giudizio, la pubblica amministrazione resta soggetta ai soli principi di imparzialità e buon andamento, ex art. 97 Cost., in una scelta soggetta a valutazioni che ben potrebbero essere compiute da un privato committente.
Nel caso di specie, la Corte ha ritenuto che l’Inps abbia ben esercitato il suo potere di recesso in ragione della palese invalidità delle delibere, perché emesse in violazione di norme imperative, sicché l’atto in esame, ossia la revoca (recte: il recesso) costituisce atto di conformazione all’ordinamento dei pubblici dipendenti contrattualizzati, in cui vige il principio inderogabile secondo cui l’attribuzione di trattamenti economici può avvenire esclusivamente mediante contratti collettivi, da stipularsi secondo i criteri e le modalità previste nel titolo III dello stesso decreto legislativo (art. 2, commi da 1 a 3 del d.lgs. n. 29 del 1993, come sostituiti prima dall’art. 2 del d.lgs. n. 546 del 1993 e poi dall’art. 2 del d.lgs. n. 80 del 1998: v, ora D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, art. 2).
E’, quindi, priva di fondamento la tesi del ricorrente secondo cui l’Inps, in quanto datore di lavoro che agisce e opera iure privatorum, non può unilateralmente e in sede di autotutela revocare un atto che ha inciso nella sfera giuridica patrimoniale del dipendente e di cui questi ha chiesto l’attuazione, perché ciò che difetta è la validità della premessa maggiore del sillogismo, ovvero che l’atto successivamente revocato sia stata fonte del diritto soggettivo. L’atto è infatti invalido ab origine e, in quanto tale, può e deve essere rimosso dal datore di lavoro, pubblico o privato che sia (Cass., 24 ottobre 2008, n. 25761; Cass., 20 gennaio 2014, n. 1047).
La rilevata conformità alla legge dell’atto di recesso e le ragioni su esposte escludono che alle delibere n. 89/2002 e 805/2003 possa attribuirsi valore di una ricognizione di debito, la quale non integra una fonte autonoma di obbligazione ma ha effetto confermativo di un preesistente rapporto fondamentale, comportando soltanto l’inversione dell’onere della prova dell’esistenza di quest’ultimo, sicché è destinata a perdere di efficacia qualora la parte da cui provenga dimostri che il rapporto medesimo non sia stato instaurato, o sia sorto invalidamente (Cass., 13 giugno 2014, n. 13506; Cass., Sez. Un., ord., 28 maggio 2014, n. 11917).
Si conferma, pertanto, la correttezza, anche sotto l’aspetto dell’adeguatezza della motivazione, della sentenza impugnata, che sostanzialmente ha fatto piana applicazione dei principi innanzi richiamati. Con l’accordo sindacale del 4 giugno 2003 le parti deliberarono di destinare all’avvocatura solo una parte (il 70%) del complessivo importo del 2% dei contributi recuperati per via legale, relativi agli anni 2000-2001, destinando la restante parte al personale amministrativo.
Ma anche tale accordo sindacale non può ritenersi fonte di diritto per il ricorrente. E infatti pacifico che esso esorbita dalle materie riservate alla contrattazione integrativa dal contratto collettivo, il quale non indica tra le materie demandate alla contrattazione integrativa la corresponsione diretta di trattamenti economici in favore del personale. In proposito va richiamato l’art. 4 del CCNI del 16 febbraio 1999, che definisce l’oggetto ed i contenuti contrattazione integrativa e prevede che i contratti collettivi integrativi e decentrati non possono in contrasto con vincoli risultanti dei contratti collettivi nazionali o comportare oneri non previsti rispetto all’ambito di risorse indicato al comma primo, e sancisce che “Le clausole difformi sono nulle e non possono essere applicate” (comma 6°).
A tale accordo ha fatto seguito l’ulteriore accordo in data 19/12/2005 (CCNI per la destinazione delle risorse derivanti dall’attività di riscossione dei crediti contributivi ceduti alla SCCI S.p.a. svolta dei professionisti legali dell’istituto nel quinquennio 2000-2004 primo trimestre 2005), con il quale si stabilì che “le risorse derivanti dall’attività di riscossione … svolta dei professionisti legali dell’istituto,… al netto della quota spettante al personale amministrativo dall’accordo sindacale del 4 giugno 2003, vengono destinate a compensare l’attività dei professionisti dell’area legale”. In particolare, con quest’ultimo accordo le parti ritennero di regolamentare interamente la questione e di riconoscere la percentuale del 2% dell’importo dei crediti contributivi solo qualora i ricorrenti avessero prestato esplicita adesione e avessero rinunciato alle pretese azionate in via contenziosa.
La ricorrente ha sostenuto che il credito azionato trova la sua fonte non solo nelle delibere dei C.d.A. INPS, ma soprattutto nel D.P.R. n. 411 del 1976, art. 30, trattandosi di compensi dovuti agli avvocati dell’Istituto per l’attività legale svolta anche in favore della SCCI, senza quindi la necessità di una nuova contrattazione sugli stessi; che con l’accordo del 4/6/2003, era stato ribadito e riconosciuto che il loro diritto al compenso per l’attività legale svolta era a titolo di onorari senza alcuna riserva da parte dell’INPS.
Anche tale tesi è infondata, in quanto basata sull’erroneo presupposta che la percentuale del 2% riconosciuta all’ INPS costituisca esclusivamente una competenza di procuratore ed onorario di avvocato per i legali interni dell’ INPS.
Deve invece convenirsi con la sentenza impugnata laddove osserva che tale percentuale (del 2%) era un corrispettivo di pertinenza dell’INPS e non dell’Avvocatura interna, posto che i legali dell’ INPS, essendo iscritti all’Albo speciale, possono patrocinare solo in nome dell’Ente di appartenenza.
I giudici di appello hanno invero correttamente ritenuto che, dalla lettura dei contratti di cessione succedutisi nel tempo, emergeva che la percentuale del 2% riconosciuta all’INPS era destinata a compensare una serie complessa di attività svolte dall’INPS quale mandatario con rappresentanza della cessionaria; che tale importo costituiva un compenso forfettario corrisposto da un terzo per i compiti svolti per suo conto, non limitati esclusivamente alle attività processuali e richiedenti necessariamente l’intervento di un avvocato dell’Ente, ma anche altri oneri ed attività accessorie e complementari a quelle legali inerenti anche al personale amministrativo degli uffici legali.
Ne deriva che non è sostenibile l’assunto degli avvocati interni, secondo il quale tale rimborso forfettario, in quanto riferito alle competenze di procuratore ed onorari di avvocato riscosso dall’Ente, spettasse direttamente e per intero agli avvocati ai sensi del D.P.R. n. 411 del 1976, art. 30.
Tale ultima normativa, infatti, si riferisce a somme che ab origine hanno natura di compensi professionali, liquidate in favore dell’ INPS secondo tariffe professionali e poste a carico di controparti soccombenti nei confronti dell’Istituto. Dal momento che, come visto, la destinazione dell’importo in questione (2%) era collegato allo svolgimento di molteplici attività svolte in favore del cessionario, spettante all’Istituto in base ai relativi contratti di cessione, deve escludersi che la normativa invocata (D.P.R. n. 411 del 1976) possa consentire la relativa diretta distribuzione ai legali medesimi. Si tratta, in sostanza, di un compenso diverso ed aggiuntivo rispetto a quanto gli stessi legali percepiscono per l’attività professionale svolta per l’INPS, che, in quanto forma di retribuzione accessoria, richiede una regolamentazione negoziale specifica e non suscettibile di attribuzione diretta.
Anche valutando la richiesta in base all’accordo sindacale del 4.6.03 (che prevedeva la distribuzione agli avvocati interni del 70% degli introiti in questione), non potrebbe giungersi a diverse conclusioni. Ed invero, ribadito che le somme in questione non costituiscono onorari, esse non potevano essere attribuite agli avvocati né ai sensi del D.P.R. n. 411 del 1976, art. 30, né sulla base dell’accordo sindacale anzidetto, recepito nella determina n. 805/03, in forza di quanto dispone il D.Lgs. n. 29 del 1993, art. 2, comma 3, come sostituito dal D.Lgs. n. 80 del 1998, nonché il D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 2, comma 3, i quali prevedono, come si è già osservato, che l’attribuzione di trattamenti economici può avvenire esclusivamente mediante contratti collettivi, con la precisazione che “i contratti collettivi sono stipulati secondo i criteri e le modalità previste nel titolo III del presente decreto”, e tale non può ritenersi l’accordo sindacale del giugno 2003.
Il D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 40, stabilisce che “La contrattazione collettiva integrativa si svolge sulle materie e nei limiti stabiliti dai contratti collettivi nazionali, tra i soggetti e con le procedure negoziali che questi ultimi prevedono; essa può avere ambito territoriale e riguardare più amministrazioni. Le pubbliche amministrazioni non possono sottoscrivere in sede decentrata contratti collettivi integrativi in contrasto con vincoli risultanti dai contratti collettivi nazionali o che comportino oneri non previsti negli strumenti di programmazione annuale e pluriennale di ciascuna amministrazione. Le clausole difformi sono nulle e non possono essere applicate”.
L’accordo del giugno 2003, che peraltro avrebbe necessitato di un atto applicativo mai intervenuto, esorbita dalle materia riservate dal contratto collettivo nazionale alla contrattazione integrativa, tra le quali non è prevista la corresponsione difetta di trattamenti economici in favore del personale.
In definitiva, esclusa la natura di onorari del rimborso forfettario de quo, non sussistono i presupposti per l’attribuzione diretta agli avvocati interni.
Infine, la domanda non può trovare accoglimento in base al c.c.n.l. 19/12/2005, posto che tale accordo prevedeva solo che una parte delle risorse in questione fossero destinate a finanziare il fondo dei trattamenti accessori dei professionisti dell’Istituto e dunque non direttamente gli avvocati; prevedeva inoltre la necessità di una espressa adesione, da manifestarsi nelle forme di cui al D.Lgs. n. 165 del 2001, artt. 65 e 66, e degli artt. 410 e 411 c.p.c., “entro 60 giorni dalla data di stipula del presente accordo, con conseguente rinuncia all’azione giudiziaria ed impegno alla cessazione dell’eventuale giudizio in corso con compensazione delle spese”, circostanza non verificatasi nella specie come affermato nella sentenza impugnata e come esplicitamente ammesso dallo stesso ricorrente nel suo ricorso. Non sussistono pertanto i presupposti per l’estensione di tale accordo anche alla posizione del ricorrente.
Né vale osservare in questa sede che tale rinuncia sarebbe nulla perché relativa a diritti indisponibili del lavoratore e preventiva rispetto al loro sorgere, per l’assorbente considerazione che è nella stessa prospettazione attorea l’assunto che il diritto era già sorto per effetto della delibera n. 89/2002, con la conseguenza che esso ben avrebbe potuto costituire oggetto di rinuncia, salva l’eventuale annullabilità dell’atto di disposizione ai sensi dell’art. 2113 cod.civ. (cfr. Cass., 26 maggio 2006, n. 12561). Non sussiste, pertanto, la dedotta violazione dell’art. 112 c.p.c., né sussiste lesione del principio di parità di trattamento rispetto al personale amministrativo, questione quest’ultima non affrontata dalla Corte territoriale e di cui il ricorrente non deduce i termini e le modalità con le quali essa sarebbe stata introdotta nelle precedenti fasi del giudizio, nel rispetto del principio di autosufficienza (Cass., 18 ottobre 2013, n. 23675).
Il ricorso principale dunque deve essere rigettato.
Con il ricorso incidentale l’I.N.P.S. ha censurato la sentenza per la violazione degli artt. 414, 416, 434, 436, 115 e 116 c.p.c., in relazione all’art. 360, co. I, n, 3, dello stesso codice di rito, nonché per l’omessa e/o insufficiente motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio.
L’Istituto si è doluto della sentenza, nella parte in cui ha erroneamente disatteso la sua domanda, volta ad ottenere la restituzione delle somme versate in esecuzione della sentenza di primo grado, laddove si è osservato che la domanda risultava genericamente formulata, del tutto nulla per omessa specifica documentazione attestante l’effettiva ricezione delle somme, da parte dei professionisti, presupposto indefettibile per far luogo alla richiesta pronuncia di ripetizione.
L’I.N.P.S. ha, quindi, trascritto parte del suo ricorso in appello, laddove aveva espressamente e chiaramente enunciato la suddetta domanda, nonché le relative conclusioni, con le quali aveva chiesto la restituzione della somma di 32.530.49 euro, oltre interessi.
Il motivo è fondato. Il tenore letterale del ricorso in appello e le pedisseque conclusioni evidenziano con chiarezza l’ambito della domanda ed il suo petitum. Inoltre, era stata allegata la lettera dell’Istituto, con la quale l’ente assumeva di aver corrisposto all’avvocato ricorrente la somma ivi indicata, al solo ed esclusivo fine di evitare l’azione esecutiva, con riserva di ripetizione di quanto versato all’esito delle successive fasi e gradi del giudizio.
Si è, dunque, in presenza di una domanda chiaramente delineata nel petitum e nella causa petendi, ammissibile nel giudizio di appello in quanto non si tratta di domanda nuova (Cass. 31 marzo 2015, n. 6457).
La circostanza, poi, che ci sia difformità tra l’importo, indicato nelle conclusioni con la richiesta di restituzione, e quello invece riportato nella succitata missiva (peraltro con riferimento al decreto ingiuntivo emesso il 17 luglio 2003) costituisce una situazione di fatto attinente al merito della pretesa fatta valere, perciò non pertinente di certo alla declaratoria di nullità, in proposito emessa invece dalla Corte territoriale, la cui motivazione sul punto del resto nemmeno accennava all’anzidetta diversità d’importi.
Non è, pertanto, condivisibile l’apprezzamento del giudice del merito che, da un lato, ha ritenuto generica tale domanda, ciò che ne avrebbe precluso l’esame nel merito, e, dall’altro in motivazione sosteneva tale giudizio in ragione di un’omessa specifica documentazione attestante l’effettiva ricezione delle somme in questione (peraltro in modo inconferente utilizzando il plurale «… ricezione, da parte dei professionisti, delle somme di cui si discute…», mentre la decisone riguardava la sola C. P., a favore della quale il giudice di primo grado aveva riconosciuto unicamente la somma di 32.530,49 euro, come è dato leggere nella parte narrativa della sentenza qui impugnata), così soprapponendo, ma inammissibilmente e contraddittoriamente, il profilo relativo alla specificità della domanda – che va valutato ex se, a prescindere dai documenti che la corredano (v. Cass., 27 maggio 2008, n. 13825) – a quello della sua fondatezza.
In tale giudizio, inoltre, il giudice dell’appello non ha tenuto conto sia della missiva prodotta in giudizio dall’Istituto, sia dell’allegato contegno processuale, osservato nell’occorso da parte appellata, che, a fronte di quanto sul punto dedotto dall’Istituto appellante, non l’avrebbe specificamente contestata.
Deve, pertanto, ritenersi fondata la censura sollevata dall’I.N.P.S., sia per quanto concerne l’inconferente motivazione fornita in ordine alla ritenuta nullità, sia sotto il profilo dell’omesso esame di “un fatto decisivo della controversia”, consistente nella mancata considerazione da parte del giudice di appello degli anzidetti elementi di fatto (documentazione prodotta e “non contestazione”), rilevanti ai fini della decisione per la loro incidenza causale, circa la loro idoneità ad orientare diversamente la decisione riguardo all’invocata restituzione.
Il ricorso principale va, pertanto, rigettato, mentre deve essere accolto quello incidentale, con rinvio alla Corte d’appello di Roma, in diversa composizione, perché esamini nel merito la domanda di restituzione di quanto si assume corrisposto in esecuzione della sentenza di primo grado, e provveda anche per le spese del presente giudizio.
P.Q.M.
Riuniti i ricorsi, rigetta quello principale e in accoglimento di quello incidentale cassa la sentenza impugnata, con rinvio per tale effetto, anche relativamente alle spese, alla Corte d’Appello di Roma in diversa composizione.
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