CORTE DI CASSAZIONE sentenza n. 831 del 19 gennaio 2016
LAVORO – RAPPORTO DI LAVORO SUBORDINATO – RIFIUTO DEL PORTALETTERE – MEZZO AZIENDALE PER ESEGUIRE LA PRESTAZIONE LAVORATIVA – L’IDONEITA’ DEL LAVORATORE A SVOLGERE LE MANSIONI DI RECAPITO CORRISPONDENZA
Deve ritenersi illegittimo il rifiuto del portalettere inidoneo allo svolgimento a piedi della attività di recapito di utilizzare il mezzo aziendale per eseguire la prestazione lavorativa, atteso che non sussiste alcuna eccezione di “inadimplenti non est adimplendum”, avendo la datrice di lavoro, nonostante sia poi risultata l’idoneità del lavoratore a svolgere le mansioni di recapito corrispondenza sia a piedi sia con automezzi, messo comunque a disposizione un automezzo per lo svolgimento dell’attività lavorativa.
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SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con ricorso depositato in data 21 gennaio 2010, R.A., dipendente della s.p.a. Poste Italiane con mansioni di addetto al recapito della corrispondenza, proponeva appello avverso la sentenza del Tribunale di Milano n. 4550/09 che respinse la sua domanda diretta all’impugnazione del licenziamento, con le conseguenze L. n. 300/1970, intimatogli in data 5 giugno 2008 dalla società Poste Italiane per rifiuto ingiustificato e protratto di eseguire le sue mansioni.
L’appellante lamentava in primo luogo la contraddittorietà della sentenza gravata, laddove, per valutare la legittimità del rifiuto del lavoratore a svolgere l’attività di recapito con l’automezzo messogli a disposizione dalla società aveva fatto riferimento alle conclusioni della consulenza medica d’ufficio, senza tenere in debito conto che l’oggetto del giudizio era la legittimità o meno del rifiuto allo svolgimento delle mansioni, alla luce della sua inidoneità allo svolgimento a piedi dell’attività di recapito.
Lamentava un contrasto tra le certificazioni mediche in atti e che la sentenza impugnata non aveva considerato che il suo comportamento non era sanzionabile disciplinarmente, dal momento che rappresentava l’esercizio di una forma di autotutela messa in atto con il rifiuto di svolgere una mansione con modalità cui riteneva essere inabile.
In secondo luogo, il R. censurava la mancata valutazione dell’elemento soggettivo, costituito dalla sua convinzione di agire per tutelare la propria salute e non per porre in essere un inadempimento contrattuale, come dimostrerebbe la sua disponibilità a svolgere altre mansioni (di ufficio). Lamentava infine la mancanza di proporzione tra il fatto addebitato e la sanzione adottata e la violazione della L. 300/1970, art. 7.
La Corte d’appello di Milano, con sentenza depositata il 15 novembre 2011, rigettava il gravame.
Per la cassazione di tale sentenza propone ricorso il R., affidato a sei motivi. Resiste la società Poste Italiane con controricorso.
Entrambe le parti hanno depositato memoria ex art. 378 c.p.c..
MOTIVI DELLA DECISIONE
1.- Con il primo motivo il ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 2119 c.c., oltre a vizio di motivazione circa un fatto controverso e decisivo della controversia (art. 360 c.p.c., comma 1, n.. 3 e 5.
Lamenta che la stessa nomina di un c.t.u. induceva a dubitare obiettivamente dell’idoneità fisica di esso dipendente allo svolgimento delle mansioni di recapito. Inoltre si duole che la Corte milanese escluse, ritenendola più apparente che reale, la denunciata contraddittorietà delle certificazioni mediche, concludendo che essa era stata comunque superata dalle indagine del c.t.u. (sicchè, osserva il ricorrente, “se la c.t.u. avesse avuto esito contrario..il comportamento del Sig. R. sarebbe stato considerato giustificato”); Che la Corte di merito non considerò che la Commissione medica aveva consigliato una visita per il rinnovo della patente e che la c.t.u. disposta risultava erronea ed insufficiente.
Il motivo è inammissibile poichè diretto esclusivamente, nonostante la norma codicistica invocata in epigrafe (rimasta priva di qualsivoglia sviluppo argomentativo), ad una nuova valutazione delle circostanze e documenti di causa.
Giova al riguardo rimarcare che il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, espresso nell’art. 366 c.p.c., nn. 3 e 4, impone al ricorrente la specifica indicazione dei fatti e dei mezzi di prova asseritamente trascurati dal giudice di merito, nonchè la descrizione del contenuto essenziale dei documenti probatori, eventualmente con la trascrizione dei passi salienti. Il requisito dell’autosufficienza non può peraltro ritenersi soddisfatto nel caso, come quello di specie, in cui il ricorrente inserisca nel proprio atto di impugnazione la riproduzione fotografica di uno o più documenti, affidando alla Corte la selezione delle parti rilevanti e così una individuazione e valutazione dei fatti, preclusa al giudice di legittimità (Cass. 7 febbraio 2012, n. 1716).
Deve inoltre considerarsi che il controllo di logicità del giudizio di fatto, consentito dall’art. 360 c.p.c., non equivale alla revisione del “ragionamento decisorio”, ossia dell’opzione che ha condotto il giudice del merito ad una determinata soluzione della questione esaminata, posto che una simile revisione, in realtà, non sarebbe altro che un giudizio di fatto e si risolverebbe sostanzialmente in una sua nuova formulazione, contrariamente alla funzione assegnata dall’ordinamento al giudice di legittimità; ne consegue che risulta del tutto estranea all’ambito del vizio di motivazione ogni possibilità per la Corte di cassazione di procedere ad un nuovo giudizio di merito attraverso l’autonoma, propria valutazione delle risultanze degli atti di causa. Nè, ugualmente, la stessa Corte realizzerebbe il controllo sulla motivazione che le è demandato, ma inevitabilmente compirebbe un (non consentito) giudizio di merito, se – confrontando la sentenza con le risultanze istruttorie – prendesse d’ufficio in considerazione un fatto probatorio diverso o ulteriore rispetto a quelli assunti dal giudice del merito a fondamento della sua decisione, accogliendo il ricorso “sub specie” di omesso esame di un punto decisivo. Del resto, il citato art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, non conferisce alla Corte di cassazione il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico-formale e della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione operata dal giudice del merito al quale soltanto spetta individuare le fonti del proprio convincimento, e, in proposito, valutarne le prove, controllarne l’attendibilità e la concludenza, scegliendo, tra le varie risultanze probatorie, quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione (Cass. 6 marzo 2006, n. 4766; Cass. 25 maggio 2006, n. 12445; Cass. 8 settembre 2006, n. 19274; Cass. 19 dicembre 2006, n. 27168; Cass. 27 febbraio 2007, n. 4500; Cass. 26 marzo 2010, n. 7394; Cass. 5 maggio 2010, n. 10833, Cass. n. 15205/2014).
2.- Con il secondo motivo il ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 1175 c.c., oltre a vizio di motivazione circa un fatto controverso e decisivo della controversia (art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5).
Lamenta che la sentenza impugnata non valutò adeguatamente che il lavoratore segnalò più volte alla datrice di lavoro le sue condizioni di salute, e la stessa a.s.l. chiese chiarimenti in ordine agli esiti della visita di idoneità fisica, la società Poste si limitò a rispondere che era stata messa a sua disposizione, per lo svolgimento delle mansioni di recapito, un automezzo aziendale.
Anche tale motivo risulta inammissibile per le medesime considerazioni svolte sub 1). La censura, inoltre, non contiene alcun adeguato sviluppo argomentativo in ordine alla denunciata violazione del canone di cui all’art. 1175 c.c., che non può comunque ritenersi violato per avere l’azienda messo a disposizione del R., che lamentava la sua inidoneità a svolgere le mansioni di portalettere a piedi, un automezzo aziendale, così come chiarito dalla sentenza impugnata.
3.- Con il terzo motivo il ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 1460 e 2087 c.c. e del D. Lgs. 81/2008 e dell’art. 32 Cost., oltre a vizio di motivazione circa un fatto controverso e decisivo della controversia (art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5.
Lamenta che la sentenza impugnata non considerò adeguatamente che la società Poste, nonostante i doverosi dubbi circa le condizioni di salute del lavoratore, omise di far sottoporre quest’ultimo ad ulteriori e più accurate visite sanitarie, sicchè il suo rifiuto di svolgere le mansioni assegnategli risultava legittimo ex art. 1460 c.c..
Anche tale motivo è in larga parte inammissibile per le considerazioni svolte sub 1). Non risulta inoltre chiarita la ragione per cui, a fronte di pacifiche e plurime indagini mediche, l’azienda avrebbe dovuto sottoporre il R. ad ulteriori accertamenti. E’ pertanto evidente che
PQM
per tale motivo
potrebbe sussistere alcun legittimo rifiuto del lavoratore di svolgere la sua prestazione, non sussistendo alcuna eccezione di “inadimplenti non est adimplendum”, avendo la datrice di lavoro, nonostante sia poi risultata la sua idoneità di svolgere le mansioni di recapito corrispondenza sia a piedi sia con automezzi (pag. 7 sentenza impugnata), messo a disposizione del R. un automezzo aziendale. Al riguardo questa Corte ha peraltro osservato (Cass. 20 luglio 2012, n. 12696) che il lavoratore adibito a mansioni non rispondenti alla qualifica può chiedere giudizialmente la riconduzione della prestazione nell’ambito della qualifica di appartenenza, ma non può rifiutarsi aprioristicamente, senza avallo giudiziario, di eseguire la prestazione richiestagli, essendo egli tenuto a osservare le disposizioni per l’esecuzione del lavoro impartite dall’imprenditore ai sensi degli artt. 2086 e 2104 c.c., da applicarsi alla stregua del principio sancito dall’art. 41 Cost. e potendo egli invocare l’art. 1460 c.c., solo in caso di totale inadempimento del datore di lavoro, a meno che l’inadempimento di quest’ultimo sia tanto grave da incidere in maniera irrimediabile sulle esigenze vitali del lavoratore medesimo, ipotesi non ricorrente nella specie.
4.- Con il quarto motivo il ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 2103 c.c., art. 41 Cost. e art. 2697 c.c., oltre a vizio di motivazione circa un fatto controverso e decisivo della controversia (art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5.
Lamenta che la sentenza impugnata ritenne irrilevante la mancata previsione contrattuale circa l’obbligo di utilizzare un automezzo aziendale nello svolgimento delle mansioni di portalettere; si duole dell’insussistenza pertanto di un tale obbligo, non esaminato dalla Corte territoriale, violando l’art. 41 Cost., che non consente all’impresa di organizzare il lavoro dei dipendenti secondo qualunque modalità desiderata, ed impone il rispetto nell’esercizio del lavoro della sicurezza, della libertà e dignità umana.
In ogni caso la sentenza impugnata non aveva considerato che le mansioni del R. erano quelle della consegna della corrispondenza, mentre la guida di un veicolo costituiva un’obbligazione ulteriore e non esigibile.
4.1 – Il motivo è infondato per le considerazioni svolte con riferimento al terzo motivo. Può qui aggiungersi che nella specie risulta chiaramente dalla sentenza impugnata che l’automezzo aziendale fu messo a disposizione da Poste a seguito del rifiuto del lavoratore, munito comunque di patente di guida, di provvedere al recapito a piedi, non risultando chiarito dal ricorrente per quale ragione l’uso di un veicolo sarebbe in contrasto con la sicurezza, la libertà e la dignità del lavoratore. D’altro canto l’inesistenza di una norma contrattuale collettiva che imponga l’uso di un automezzo aziendale per gli addetti al recapito non può in alcun modo equivalere ad un divieto in tal senso.
5.- Con il quinto motivo il ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 2106 c.c., oltre a vizio di motivazione circa un fatto controverso e decisivo della controversia (art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5.
Lamenta l’erroneità della sentenza impugnata circa il giudizio di proporzione tra i fatti contestati e la sanzione adottata, necessitante di un esame dell’elemento intenzionale e del grado di affidamento richiesto dalle mansioni svolte dal dipendente, esame in tesi non adeguatamente compiuto dalla Corte milanese, basandosi esclusivamente sulla reiterazione del rifiuto contestato (che dimostrava al più la coerenza e buona fede del lavoratore) e su di una valutazione solo soggettiva del lavoratore circa le sue reali condizioni di salute, in contrasto con gli accertamenti sani tari compiuti.
Il motivo è infondato. La sentenza impugnata ha infatti correttamente osservato che il rifiuto del R. di svolgere le mansioni cui era adibito non solo risultava illegittimo, ma si era più volte ripetuto, in varie giornate del dicembre 2007 (già sanzionate con la sospensione dal lavoro, sanzione che non risulta impugnata) e per altri vari giorni del mese di aprile 2008, valutando così sia l’elemento intenzionale sia l’obiettiva gravità del comportamento contestato. Trattasi di accertamento logico delle circostanze di fatto, rimesso al prudente apprezzamento del giudice di merito ed insindacabile in sede di legittimità ove, come nella specie, adeguatamente motivato (cfr., exaliis, Cass. n. 5095 del 02/03/2011).
6. – Con il sesto motivo il ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 2106, 1175 e 1375 c.c., L. n. 300 del 1070, art. 7, oltre a vizio di motivazione circa un fatto controverso e decisivo della controversia in ordine all’audizione personale del lavoratore (art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5).
Lamenta che la sentenza impugnata escluse un obbligo del datore di lavoro di dar corso all’audizione durante l’orario di lavoro, senza considerare che l’audizione stessa faceva parte del “tempo di lavoro”. Lamenta che la Corte territoriale non spiega perchè tra le due richieste (quella del lavoratore di essere sentito durante l’orario di lavoro e quella dell’azienda di fissare l’audizione fuori dell’orario di lavoro) dovesse essere preferita quest’ultima.
Anche tale motivo è infondato, essendosi la sentenza impugnata attenuta alle giurisprudenza di legittimità, secondo cui ai sensi della L. 20 maggio 1970, n. 300, art. 7, comma 2, in caso di irrogazione di licenziamento disciplinare, il lavoratore ha diritto, qualora ne abbia fatto richiesta, ad essere sentito oralmente dal datore di lavoro; tuttavia, ove il datore, a seguito di tale richiesta, abbia convocato il lavoratore per una certa data, questi non ha diritto ad un differimento dell’incontro limitandosi ad addurre una mera disagevole o sgradita possibilità di presenziare, poichè l’obbligo di accogliere la richiesta del lavoratore sussiste solo ove la stessa risponda ad un’esigenza difensiva non altrimenti tutelabile (Cass. n. 7493/2011, Cass. n. 9233/2015), dovendosi qui chiarire che la materia non può che essere regolata dai principi di correttezza e buona fede nell’esecuzione del contratto (Cass. n. 23528 del 16/10/2013), e che, non esistendo un diritto del lavoratore di essere sentito durante l’orario di lavoro, il suo rifiuto di essere ascoltato personalmente fuori dell’orario di lavoro, ove non risponda ad un’esigenza difensiva non altrimenti tutelabile (nella specie neppure dedotta), risulta in contrasto col canone di cui all’art. 1375 c.c.. Per tali ragioni questa Corte ha già affermato che deve escludersi che il lavoratore abbia diritto ad essere ascoltato a discolpa nel luogo dove svolge le proprie mansioni, e nel corso dell’orario di lavoro, non costituendo violazione del diritto di difesa la convocazione del lavoratore al di fuori del posto e dell’orario di lavoro (Cass. n. 18462 del 29/08/2014).
7. – Il ricorso deve pertanto rigettarsi. Le spese di lite seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, che liquida in Euro 100,00 per esborsi, Euro 3.000,00 per compensi, oltre accessori di legge.
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