CORTE di CASSAZIONE sentenza n. 8709 del 3 maggio 2016
LAVORO – RAPPORTO DI LAVORO – LICENZIAMENTO PER GIUSTA CAUSA – DEQUALIFICAZIONE – ACCERTAMENTO – DANNO ESISTENZIALE – DANNO ALLA SALUTE – ONERE DELLA PROVA
Svolgimento del processo
Con sentenza n. 10395/2012 la Corte d’Appello di Roma, in riforma di due sentenze rese dal tribunale di Roma, previa riunione dei relativi giudizi, ha accolto parzialmente gli appelli presentati da A.M., avverso le statuizioni rese in primo grado sulle sue domande promosse nei confronti di A.G.l. SPA, in materia di dequalificazione, demansionamento, differenze retributive non corrisposte e licenziamento per giusta causa. Ed ha perciò condannato la datrice di lavoro a risarcirgli il danno non patrimoniale, in conseguenza dell’accertato demansionamento liquidandolo in € 5000 in relazione alla lesione della sua immagine professionale, nonché a pagargli la somma di € 5.503 per retribuzioni non corrisposte nel periodo di malattia da agosto 2007 all’8.10.2007 su cui il tribunale aveva omessa la pronuncia, oltre gli accessori. La Corte d’Appello ha invece respinto le altre pretese risarcitorie avanzate dal M. in relazione al danno alla salute, alla professionalità, esistenziale, per perdita di chanches.
Sulla domanda di inquadramento superiore ha confermato che il ricorrente non avesse diritto ad essere inquadrato nel 10° livello richiesto.
Ed ha altresì confermato la legittimità del licenziamento disciplinare intimato al ricorrente. Ha pure respinto l’appello incidentale proposto da A.G.I. sotto vari profili in relazione all’accertato demansionamento dall’1.6.2006 ed in relazione all’affermazione effettuata dal tribunale circa il diritto del M. allo svolgimento di mansioni di responsabile della rassegna stampa ENI o altre equivalenti proprie del 9° livello CCNL.
Per la cassazione di questa sentenza, ricorre il lavoratore A.M., affidandosi ad otto motivi. Resiste AGI con controricorso contenente ricorso incidentale fondato su due motivi, cui si oppone il ricorrente con controricorso. Entrambe le parti hanno depositato memoria ex artt. 384 c.p.c.
Motivi della decisione
1. – Col primo motivo il ricorrente censura la sentenza impugnata sotto il profilo della nullità del procedimento per la violazione e falsa applicazione di norma di rito: 112 e 437 c.p.c.; art. 41 c.p. (art. 360 n. 4 c.p.c.), laddove la Corte ha omesso di esaminare il motivo di appello concernente il risarcimento del danno alla salute affermando che concretasse domanda nuova, mentre era soltanto una nuova deduzione difensiva la prospettazione secondo cui detto danno fosse causalmente correlato al lavoro come concausa e non più come causa esclusiva.
2. – Col secondo motivo impugna la sentenza d’appello sotto il profilo della nullità del procedimento per la violazione e falsa applicazione dì norme di rito: artt. 115 e commi 1° e 2° comma, 116, 61, 62, 195 c.p.c. 2727, 2729 c.c. (art. 360 n. 4 c.p.c.) laddove ha escluso il nesso causale tra la malattia e l’attività professionale trascurando la ctu, i documenti medici ed adoperando generiche considerazioni, scienza privata e presunzioni non pertinenti.
I due motivi, per la loro intima connessione logica, vanno esaminati unitariamente.
Il giudice d’appello, come già quello di primo grado, ha escluso il nesso di causalità tra demansionamento e danno alla salute motivando correttamente il proprio convincimento, per una serie di considerazioni. Ha infatti richiamato i documenti medici, ritenendoli non confacenti rispetto alla domanda prospettata dal lavoratore in ragione della genericità che li contraddistingueva, in quanto semplicemente collegati con le condizioni di lavoro (come quello di primo grado aveva rilevato che “nulla dicono in termini medico legali accertabili”). Ha osservato che lo svolgimento delle mansioni dequalificanti era stato di assai breve durata (“quasi del tutto mancato, visto il lunghissimo periodo di assenza”). Ha valorizzato il fatto pacifico che la situazione di stress denunciata fosse insorta da epoca precedente all’inizio del lamentato demansionamento. E non ha negato (come peraltro prima il giudice di primo grado) l’esistenza di una malattia in capo al ricorrente, come si ritiene nella doglianza, ma la sua natura professionale. Si tratta di un accertamento rimesso al giudice del merito il quale, quando argomenta in modo logico e conforme a tutte le risultanze, non è vincolato nemmeno alla ctu. D’altra parte non è vero che il giudice d’appello abbia mutato la natura della malattia parlando semplicemente di nevrosi; dato che in più punti della sentenza ha parlato anche di sindrome ansioso depressiva, secondo gli accertamenti della ctu effettuata in primo grado (v. ad es. pag. 20 riferimento sub a.).
La reiezione del secondo motivo (sulla carenza della malattia professionale) assorbe la disamina del primo motivo, col quale si censura la tesi secondo cui la domanda di risarcimento del danno alla salute concretasse una domanda nuova.
Motivo, peraltro, infondato anche nel merito, in quanto se è vero che in generale non costituisce domanda nuova dedurre in appello che la malattia sia stata concausata (e non più soltanto causata) dalla attività lavorativa; è pur vero che si incorre nel divieto di nova ex art. 437,2° comma c.p.c. quando – come nella fattispecie – la nuova prospettazione sia intesa ad affermare che la malattia fosse in realtà insorta prima ed in modo indipendente dall’attività lavorativa; e che quest’ultima abbia inciso soltanto sulle conseguenze pregiudizievoli. In siffatta ipotesi mutano i fatti costitutivi del diritto azionato e la stessa causa petendi della domanda ed entrano in gioco principi differenti da quelli della sola causalità naturale ex art. 41 c.p, – Invocato a supporto della censura – che attiene alla sola produzione del fatto materiale; mentre la nuova prospettazione incide sia sull’an sia sul quantum dei presunti danni, posto che le conseguenze pregiudizievoli vanno computate col diverso criterio della causalità giuridica ex art. 1223 e ss c.c.
3. – Col terzo motivo il ricorso deduce violazione e falsa applicazione di norme di legge: art. 7 comma 2° L. 300/1970, artt. 2 e 5 L. 604/1966, art. 2119 c.c. (art. 360 n. 5 c.p.c. ) in relazione alla contestazione che ha portato al licenziamento. Il motivo è infondato perché – contrariamente a quanto si sostiene – non è vero che la sentenza non indichi quali siano state le mancanze sui cui si fondi il licenziamento. Al contrario, rigettando i motivi d’appello, la Corte ha condiviso la soluzione adottata dal primo giudice sostenendo che al ricorrente fosse stata contestata non solo l’ingiustificatezza dell’assenza alla visita fiscale, ma altresì la falsità della relativa giustificazione e che di ciò avesse tenuto conto correttamente il Tribunale. Ha affermato anche che la decisione si rivelasse corretta dove risultava fondata sull’ulteriore circostanza, pure provata in giudizio, secondo cui II ricorrente guidasse la vettura in presenza di terapia farmacologica di psicofarmaci, e che ciò costituisse esposizione a grave rischio per l’incolumità propria (oltre che di terzi). E’ poi evidente che respingendo il motivo d’appello la Corte ha pure ritenuto le suddette condotte sufficienti ad integrare la nozione di giusta causa di licenziamento, come già affermato dal primo giudice; senza che fosse tenuta a precisare espressamente la portata degli addebiti residui rispetto a quella degli addebiti originari; e di valutare se venuti meno gli altri addebiti, essi acquisissero un significato diverso dalla giusta causa. Una volta accertato che i comportamenti ritenuti sussistenti facessero parte della originaria contestazione e costituissero giusta causa, il giudice non è tenuto a richiamare espressamente quali fossero gli altri comportamenti che la costituissero in origine, ed a precisare se quelli residui acquisissero un significato autonomo oppure fossero soltanto circostanze aggravanti rispetto ai primi. Infatti se un licenziamento si fonda su una pluralità di addebiti è sufficiente ai fini della sua legittimità che anche uno soltanto di essi rimanga dimostrato quando venga ritenuto idoneo, anche implicitamente, ad integrare la giusta causa.
4. – Il quarto motivo deduce violazione e falsa applicazione di norme di legge: art. 7 comma 2° L. 300/1970, artt. 1324, 1362, 1363 c.c. (art. 360 n. 5 c.p.c.), in quanto la Corte violando i principi di specificità ed immutabilità ha addossato al ricorrente una condotta diversa e più grave di quella contestata.
Il motivo è infondato. Al ricorrente era stato contestato, secondo la lettera del 10.8.2007, un comportamento in tutto e per tutto in contrasto con il suo dichiarato stato di malattia, costituito dal fatto che egli guidasse una autovettura in malattia, nonostante egli stesso avesse comunicato che la guida dell’autovettura fosse incompatibile con il suo stato di malattia. Così come gli era stata contestata l’assenza alla visita di controllo del 6.6.2007, in occasione della quale il ricorrente si trovava a L’Aquila per trattare un affare in nome e per conto della VSM srl.
Inoltre gli era stata contestata anche la falsità delle dichiarazioni rese in sede di giustificazioni a fronte della contestazione (effettuata il 13.6.2007) dell’assenza alla visita fiscale; in relazione alla quale il lavoratore aveva prodotto una certificazione, evidentemente non veritiera, nella quale si affermava che al momento della visita egli si trovasse dal medico per una visita, mentre in realtà era a L’Aquila.
5. – Col quinto motivo si deduce la nullità del procedimento per la violazione e falsa applicazione di norme di rito: artt. 112 e 115 c.p.c., 191 c.p.p, 5 e 38 L. 300/70 (art. 360 n. 4 c.p.c.) laddove il giudice non ha considerato il motivo di appello concernente l’inammissibilità della relazione e della deposizione testimoniale dell’investigatore privato concernendo accertamenti sanitari vietati, che ha invece utilizzato ai fini della decisione.
Il motivo è infondato nel merito, siccome nel nostro ordinamento è ammissibile la testimonianza e la relazione dell’agente investigativo che verta non sulla malattia, ma sull’attività svolta (alla luce del sole) dal lavoratore in malattia. Da ultimo, in questo senso Cass. n. 25162 del 26/11/2014 ” Le disposizioni dell’art. 5 della legge 20 maggio 1970, n. 300, in materia di divieto di accertamenti da parte del datore di lavoro sulle infermità per malattia o infortunio del lavoratore dipendente e sulla facoltà dello stesso datore di lavoro di effettuare il controllo delle assenze per infermità solo attraverso i servizi ispettivi degli istituti previdenziali competenti, non precludono al datore medesimo di procedere, al di fuori delle verifiche di tipo sanitario, ad accertamenti di circostanze di fatto atte a dimostrare l’insussistenza della malattia o la non idoneità di quest’ultima a determinare uno stato d’incapacità lavorativa e, quindi, a giustificare l’assenza. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito che aveva ritenuto legittimi gli accertamenti demandati, dal datore di lavoro, a un’agenzia investigativa, e aventi a oggetto comportamenti extralavorativi, che assumevano rilievo sotto il profilo del corretto adempimento delle obbligazioni derivanti dal rapporto di lavoro).
Perciò, quand’anche la Corte territoriale avesse considerato espressamente lo specifico motivo di appello avrebbe dovuto rigettarlo.
6. – Con il sesto motivo il ricorrente lamenta violazione e falsa applicazione di norme di legge : artt. 2110, 2119, 1175 e 1375 c.c. (art. 360 n. 3 c.p.c.) per aver la Corte attribuito rilievo al rischio di incidente automobilistico ai fini della giusta causa pur non avendo avuto incidenza sulla durata della malattia; e per aver omesso di verificare che non avesse avuto alcuna incidenza sulla durata della malattia ed in quale misura il rischio fosse espressione di consapevole violazione dei propri doveri nei confronti della datrice di lavoro.
Anche questo motivo è infondato, perché la giusta causa accertata a carico del ricorrente è rimasta integrata da una varietà di comportamenti disciplinari all’interno dei quali è stato attribuito rilievo anche al rischio di incidenti cui si era sottoposto consapevolmente il ricorrente. Onde il ricorrente avrebbe dovuto dedurre anche in relazione alla permanenza della nozione di giusta causa, ove fosse venuto meno il rilievo attribuito al rischio di incidenti. In secondo luogo il motivo è infondato anche nel merito. Il lavoratore in malattia ha l’obbligo di comportarsi secondo correttezza e buona fede per favorire la guarigione e la ripresa e di non tenere comportamenti incompatibili. In questa ottica di preparazione alla ripresa ed all’adempimento rileva anche il comportamento di rischio potenziale consapevolmente assunto; che nella fattispecie pacificamente sussiste atteso che detta incompatibilità era stata più volte allegata dal medesimo lavoratore per non spostarsi dalla propria abitazione al fine di essere sentito nell’ambito del procedimento disciplinare (tanto che il rappresentate aziendale si era dovuto recato presso la sua abitazione). D’altra parte è certo che la guida sotto effetto di psicofarmaci aggrava il rischio di incidenti e perciò la possibilità di aggiungere patologie traumatiche a quelle psichiatriche in atto che determinavano la sua assenza dal lavoro da oltre dieci mesi. La soluzione presa dalla Corte d’appello è pure conforme alla giurisprudenza di questa Corte di legittimità, la quale ha anche di recente confermato che (Cass. Sez. L, Sentenza n. 16465 del 05/08/2015 est. Roselli) costituisce illecito disciplinare l’espletamento di attività extralavorativa durante il periodo di assenza per malattia non solo se da tale comportamento derivi un’effettiva impossibilità temporanea della ripresa del lavoro, ma anche quando la ripresa sia solo messa in pericolo dalla condotta imprudente.
7. – Con il settimo motivo il ricorrente lamenta violazione e falsa applicazione dell’art. 7 L. 300/1970 in relazione all’art. 649 c.p.c. (art. 360 n. 3 c.p.c.) per violazione del bis in idem in quanto la contestazione relativa all’assenza della visita medica del 6.6.2007 costituisce duplicazione di quella della falsità delle dichiarazioni rese dal lavoratore nella precedente procedura.
Il motivo è infondato perché a fini disciplinari l’assenza alla visita fiscale e la sua giustificazione in base ad affermazioni e documenti ritenuti falsi sono fatti diversi, tali da poter essere contestati in modo distinto ed in via successiva; e ben ha fatto la Corte a rilevarlo. D’altra parte l’invocato principio del divieto di bis in idem postula la consumazione del potere sostanziale ovvero l’irrogazione di una sanzione in merito ad un fatto ritenuto assorbente, ma non può valere in fase di mera contestazione degli addebiti.
8. – Con l’ottavo motivo il ricorso lamenta violazione e falsa applicazione dell’art. 7, commi 2° e 3° L. 300/1970, artt. 51 e 384 c.p.c. (art. 360 n.3 c.p.c.) avendo la Corte errato laddove ha ritenuto che le modalità di esercizio del diritto di difesa in sede disciplinare integrassero illecito disciplinare, mentre esse ricadono sotto l’esimente dell’esercizio di un diritto.
Va premesso che è rimasto accertato, In modo incontestato, nei giudizi che precedono il fatto che, a seguito dell’adibizione (avvenuta il 1. 6.2006) a mansioni diverse da quelle precedentemente svolte, il ricorrente fosse rimasto assente per malattia, ascritta dai medici a patologia ansioso depressiva reattiva. Tali assenze sono state dapprima sporadiche fino a settembre 2006, poi sono considerevolmente aumentate, fino a quando dal 24 novembre 2006 al licenziamento (8/10/2007), ossia per oltre dieci mesi, sono divenute continuative. Durante questo stesso periodo il ricorrente aveva svolto attività lavorativa presso l’azienda, gestita da una srl costituita dalla figlia con un’altra persona, avente ad oggetto la realizzazione di Impianti fotovoltaici con sede in Cittaducale; con ufficio sito a circa dieci km di distanza dall’abitazione del ricorrente. In questo stesso periodo il ricorrente ha guidato un’auto vettura per recarsi sia presso la sede della srl, sia a Roma sia a L’Aquila. Trovato assente alla visita fiscale del 6.7.2007, il ricorrente si era difeso sostenendo che si trovasse dal medico per un controllo, producendo il relativo certificato, mentre a quella stessa ora egli era sicuramente a L’Aquila per lavoro.
E’ evidente da ciò, come anche la doglianza in esame si riveli infondata, perché l’addebito disciplinare formulato dal datore non riguardava le difese del lavoratore ovvero la falsità delle sue dichiarazioni, isolatamente considerate, rese in sede disciplinare; quanto il fatto che a comprova di quanto falsamente dichiarato sulla assenza rivelatasi ingiustificata, egli avesse dolosamente prodotto una certificazione medica non veritiera.
Dentro tali limiti, è fondato allora quanto osservato dalla Corte allorché ha ricordato che, perdurando il rapporto di lavoro, anche in ambito disciplinare il lavoratore è obbligato a rispettare gli obblighi di buona fede e correttezza, talché viola i medesimi principi il lavoratore che, seppure nell’ambito del diritto di difesa, produce una prova documentale scientemente falsa a sostegno di una dichiarazione della stessa natura. Si tratta infatti di una condotta di natura frodatoria, di potenziale rilevanza penale, che non è non coperta dal generale principio di cui all’art. 51 c.p.
9. – Il ricorso incidentale presentato da A.G.I. col primo motivo denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt 2103 e 2697 c.c., 112 e 115 c.p.c. (art. 360 n. 3 , 4, 5 c.p.c.) in relazione alla sua condanna pronunciata in appello al pagamento di euro 5000 a titolo di danno non patrimoniale all’immagine, quale conseguenza diretta del provvedimento di adibizione al ruolo di Responsabile dell’archivio fotografico dell’Eni in luogo di quello di Responsabile della rassegna stampa ENI in precedenza rivestito.
Si tratta di un motivo dubbioso e in quanto tale inammissibile per difetto di specificità; e comunque infondato nel merito, posto che secondo la sentenza impugnata la dequalificazione era stata riconosciuta dal tribunale sulla base di una pluralità di argomenti; ed in particolare perché con le nuove mansioni era venuto meno “lo svolgimento delle funzioni direttive e di coordinamento di altri dipendenti”; e che perciò sarebbe stato irrilevante l’assunzione dei mezzi di prova dedotti dalla AGI. Così come irrilevante deve ritenersi ai fini del dedotto demansionamento il fatto che le nuove mansioni rientrassero nel 9° livello, posto che, come esattamente affermato dal giudice d’appello, il demansionamento ex art. 2103 c.c. sussiste anche soltanto quando lo svolgimento delle nuove mansioni non assicuri la conservazione, l’utilizzo e lo sviluppo del patrimonio professionale precedente.
Del pari non sussiste alcun vizio nel fatto che il risarcimento sarebbe stato accordato senza tener conto del periodo di concreta adibizione alla mansione. Intanto perché la censura è smentita dal contenuto della sentenza che invece si è fatto carico di tale accertamento, allorché ha evidenziato che le mansioni fossero state esercitate per poco tempo. Ma ciò non vale ad escludere la lesione ed il danno non patrimoniale liquidato in quanto il diritto all’immagine professionale del lavoratore, rinvenendo dal catalogo di quelli fondamentali ex art. 2 Cost, non può essere leso neppure per poco tempo. D’altra parte è pure logico che se viene meno la funzione di coordinamento prima svolta, il lavoratore subisce una innegabile lesione della propria considerazione professionale quanto meno all’interno della cerchia dei colleghi che prima coordinava e di quelli che operavano nello stesso ambiente di lavoro.
10. – Col secondo motivo il ricorso incidentale deduce la violazione e la falsa applicazione degli artt. 2110 e 1218 c.c. (ex art. 360 n. 3 c.p.c.) posto che la sentenza d’appello ha riconosciuto l’inadempimento di AGI nella corresponsione delle retribuzioni da agosto fino all’8 ottobre 2007 senza considerare su questo capo che la malattia del M. non fosse imputabile all’AGI e che, in ogni caso, a seguito della ingiustificata assenza alla visita fiscale il lavoratore sarebbe decaduto dal diritto al trattamento economico di malattia.
Il motivo è inammissibile in quanto non rispetta il principio di autosufficienza posto che non risulta quando AGI avesse tempestivamente sollevato nel corso del procedimento di merito questo genere di eccezioni, nonostante la loro tardività si evinca da quanto già dedotto dal lavoratore nel procedimento di appello circa la mancata contestazione della debenza delle retribuzioni di cui si discute.
11. – In conclusione tanto il ricorso principale quanto quello incidentale devono essere respinti. Sussistono i presupposti, ravvisabili nella peculiarità della vicenda trattata, nell’esito contrastante dei giudizi di merito e nella reciproca soccombenza, per compensare interamente tra le parti le spese del presente giudizio.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso principale ed il ricorso incidentale. Compensa tra le parti le spese del giudizio di legittimità.
Ai sensi dell’art.13,comma 1-quater D.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente principale e del ricorrente incidentale dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale ed Incidentale a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13.
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