CORTE di CASSAZIONE sentenza n. 891 del 13 gennaio 2016
CONFISCA OBBLIGATORIA IN CASO DI PATTEGGIAMENTO – SUSSISTE – MISURA – PRESUPPOSTI
RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza del 3/12/2012, il Tribunale di Pinerolo applicava a C.P. e G.M. – ai sensi dell’art. 444 c.p.p. – la pena, rispettivamente, di un anno e sette mesi di reclusione e di sei mesi di reclusione; al primo, quale titolare dell’omonima impresa individuale, erano contestati i delitti di cui al D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, artt. 2 e 4, e ad entrambi la fattispecie di cui al cit. decreto, art. 11.
2. Propongono separati ricorsi per cassazione C. e G., personalmente, deducendo i seguenti motivi: G. e C.: Erronea applicazione degli artt. 129 e 444 c.p.p.. Il Tribunale, nel pronunciare la sentenza, avrebbe dovuto accertare la mancanza di ogni responsabilita’ in capo ai ricorrenti, si’ da pervenire ad una declaratoria ai sensi dell’art. 129 c.p.p.; G.: – Erronea applicazione dell’art. 322 ter c.p.. Il Tribunale avrebbe disposto la confisca per equivalente, previo sequestro, di beni appartenenti ad entrambi i ricorrenti per un valore – per ciascuno di essi – corrispondente all’intero profitto del reato; quel che non risponderebbe a criteri di personalita’ e proporzionalita’ della pena, cui ogni sanzione – compresa la confisca in oggetto – debbono sottostare.
CONSIDERATO IN DIRITTO
3. Con riguardo al ricorso proposto dal C., osserva la Corte che nelle more del giudizio di legittimita’ e’ stato emanato il D.Lgs. 24 settembre 2015, n. 158 (Revisione del sistema sanzionatorio, in attuazione della L. 11 marzo 2014, n. 23, art. 8, comma 1), in vigore dal 22 ottobre 2015, che – all’art. 4 – ha modificato il D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 4, in contestazione, sostituendolo con il seguente (per la parte qui di interesse): “Fuori dai casi previsti dagli artt. 2 e 3, e’ punito con la reclusione da uno a tre anni chiunque, al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, indica in una delle dichiarazioni annuali relative a dette imposte elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo od elementi passivi inesistenti, quando, congiuntamente: a) l’imposta evasa e’ superiore, con riferimento a taluna delle singole imposte, a Euro centocinquantamila; b) l’ammontare complessivo degli elementi attivi sottratti all’imposizione, anche mediante l’indicazione di elementi passivi inesistenti, e’ superiore al dieci per cento dell’ammontare complessivo degli elementi attivi indicati in dichiarazione, o, comunque, e’ superiore a Euro tre milioni”.
Ne consegue che la dichiarazione infedele contestata al C. al capo c) per gli anni di imposta 2006, 2007, 2008 e 2009 risulta inferiore nel quantum alla soglia di punibilita’ oggi vigente, come individuata dal decreto n. 158 citato; si’ da imporsi l’annullamento della sentenza senza rinvio, per insussistenza del fatto, con trasmissione degli atti al Tribunale di Torino quanto al residuo reato. Formula, peraltro, da preferirsi a quella “perche’ il fatto non e’ previsto dalla legge come reato”.
Ed invero, quest’ultima va adottata la’ dove il fatto non corrisponda ad una fattispecie incriminatrice in ragione o di un’assenza di previsione normativa o di una successiva abrogazione della norma o di un’intervenuta dichiarazione d’incostituzionalita’ (integrale e non parziale, come nel caso di specie), permanendo in tutti tali casi la possibile rilevanza del fatto in sede civile; la formula “il fatto non sussiste”, che esclude ogni possibile rilevanza anche in sede diversa da quella penale, va invece adottata quando difetti un elemento costitutivo del reato, come nel caso in esame (v., sul punto: Sez. 3, n. 13810 del 12/02/2008, D., Rv. 239949).
4. Manifestamente infondato, poi, risulta il ricorso della G..
Con riguardo al primo motivo (peraltro comune al C.), si osserva che per costante indirizzo di questa Corte Suprema, condiviso dal Collegio, la sentenza del Giudice di merito che applichi la pena su richiesta delle parti puo’ essere oggetto di controllo di legittimita’, sotto il profilo della motivazione, soltanto se dal testo del provvedimento appaia evidente la sussistenza delle cause di non punibilita’ di cui all’art. 129 c.p.p. (da ultimo, Sez.3, n. 27426 del 16/04/2014, D., Rv. 259394); diversamente, il richiamo alla norma medesima (e ancor piu’, come nel caso in esame, il riferimento a precise risultanze istruttorie) e’ sufficiente a far ritenere che il Giudice abbia verificato ed escluso la presenza di cause di proscioglimento, non occorrendo ulteriori e piu’ analitiche disamine al riguardo (tra le altre, Sez. 2, n. 6455 del 17/11/2011, A., Rv. 252085). Ebbene, dal testo della pronuncia in oggetto detta evidenza non si ravvisa affatto; ne’, peraltro, i ricorrenti individuano alcun elemento – di ordine logico o documentale – che il Tribunale di Pinerolo avrebbe dovuto esaminare al fine di pervenire alla richiesta declaratoria, si’ da derivarne ulteriormente l’inammissibilita’ del motivo.
4. In ordine, poi, alla doglianza proposta dalla sola G., si osserva che la L. 24 dicembre 2007, n. 244, art. 1, comma 143, stabilisce che “nei casi di cui al D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, artt. 2, 3, 4, 5, 8, 10 bis, 10 ter, 10 quater e 11, si osservano, in quanto applicabili, le disposizioni di cui all’art. 322 ter c.p.” in tema di confisca, compresa, quindi, quella per equivalente; misura, questa, che, nell’impossibilita’ di applicare il vincolo sul bene direttamente derivante dall’illecito quale prezzo o profitto (perche’ ceduto, disperso, distrutto o, comunque, non reperito), ne va dunque a colpire un altro di cui il reo ha la disponibilita’, individuato in ragione del suo valore, corrispondente – per l’appunto – al prezzo o profitto medesimo ricavato dall’illecito, anche sotto forma di risparmio.
La finalita’ dell’istituto e’ stata piu’ volte descritta dal questa Corte, ed ha trovato ulteriore, recentissima conferma in una articolata pronuncia del Supremo Collegio (Sez. U., n. 31617 del 26/6/2015, Lucci, non massimata), che ha ripreso talune delle considerazioni gia’ espresse l’anno precedente dallo stesso Consesso (Sez. U., n. 10561 del 30/1/2014, G.) e che occorre, in tal modo “rinforzate”, ribadire in questa sede.
In particolare, la giurisprudenza del Supremo Consesso ha ripetutamente sostenuto che la ratio essendi della confisca di valore o per equivalente risiede nell’impossibilita’ di procedere alla confisca “diretta” della cosa che presenti un nesso di derivazione qualificata con il reato. “La trasformazione, l’alienazione o la dispersione di cio’ che rappresenti il prezzo o il profitto del reato determina la conseguente necessita’, per l’ordinamento, di approntare uno strumento che, in presenza di determinate categorie di fatti illeciti, faccia si’ che il beneficio che l’autore del fatto ha tratto, ove fisicamente non rintracciabile, venga ad essere concretamente sterilizzato sul piano patrimoniale, attraverso una misura ripristinatoria che incida direttamente sulle disponibilita’ dell’imputato, deprivandolo del tantundem sul piano monetario”. Le Sezioni unite, quindi, hanno qui ribadito la natura sanzionatoria della confisca per equivalente disciplinata dall’art. 322 ter c.p., piu’ volte affermata da questa Corte e motivata dal fatto che, attraverso di essa, si intende privare l’autore del reato di un qualunque beneficio economico derivante dall’attivita’ criminosa, di fronte all’impossibilita’ di aggredire l’oggetto direttamente ricavato dall’illecito; cio’, nella convinzione della capacita’ dissuasiva e disincentivante di tale strumento, che assume cosi’ i tratti distintivi di una vera e propria sanzione, non commisurata ne’ alla colpevolezza dell’autore del reato, ne’ alla gravita’ della condotta (tra le altre, Sez. 3, n. 18311 del 6/3/2014, C., Rv. 259103; Sez. 3, n. 44445 del 9/10/2013, C., non massimata; Sez. 3, n. 23649 del 27/2/2013, D’A., Rv. 256164).
Del resto, lo stesso Supremo Collegio, gia’ in precedente occasione, aveva espressamente individuato nella confisca per equivalente, ancorche’ con riguardo al reato di truffa aggravata, “una forma di prelievo pubblico a compensazione di prelievi illeciti”, ribadendo il conseguente “carattere preminentemente sanzionatorio” della stessa (Sez. U, n. 41936 del 25/10/2005, M., Rv. 232164; in termini, Sez. 5, n. 15445 del 16/1/2004, N., Rv. 228750).
La finalita’ appena richiamata, propria dell’istituto, risulta poi a tal punto avvertita dal legislatore da assegnare a tale misura ablatoria, al pari di quella diretta, il carattere dell’obbligatorieta’, desunto dal dato testuale dell’art. 322-ter c.p., a mente del quale la confisca “e’ sempre ordinata”; cio’, quindi, anche nel caso di applicazione della pena su richiesta, pur laddove – come nella vicenda di specie – la stessa non abbia costituito oggetto dell’accordo delle parti (tra le altre, Sez. 2, n. 20046 del 4/2/2011, M., non massimata). Conclusione, questa, ulteriormente discendente dal fatto che – come rilevato dal Tribunale di Palermo – la sentenza di patteggiamento e’ sentenza vincolata relativamente a solo profilo del trattamento sanzionatorio e non anche a quello relativo alla confisca, per il quale la discrezionalita’ del Giudice si riespande come in una normale sentenza di condanna, si’ che, ove accordo tra le parti su tale punto vi sia comunque stato, il Giudice stesso non e’ obbligato a recepirlo o a recepirlo per intero (cfr. Sez. 2, n. 19945 del 19/04/2012, T., Rv. 252825). Ne’, infine, e’ necessario, per l’assenza di norme che dispongano in senso contrario, che la confisca per equivalente sia preceduta dal sequestro preventivo dei beni oggetto della stessa (Sez. 3, n. 17066 del 04/02/2013, V. e altri, Rv. 255113), come ancora correttamente affermato dal Tribunale di Palermo nell’ordinanza qui impugnata (punto, peraltro, non controverso).
Orbene, tutto cio’ premesso, osserva il Collegio che – per costante indirizzo di legittimita’ – nel caso di illeciti plurisoggettivi la confisca di valore puo’ interessare indifferentemente ciascuno dei concorrenti anche per l’intera entita’ del profitto accertato, fermo restando che il provvedimento definitivo di confisca, rivestendo natura sanzionatoria, non puo’ essere duplicato o comunque eccedere nel “quantum” l’ammontare complessivo dello stesso profitto (tra le altre, Sez. 3, n. 27072 del 12/5/2015, B., Rv. 264343; Sez. 6, n. 17713 del 18/2/2014, A., Rv. 259338; Sez. 5, n. 13562 del 10/1/2012, B., Rv. 253581). Ne consegue che la questione sollevata dalla G., lungi dal costituire censura alla sentenza impugnata, rappresenta – anche con riguardo all’entita’ del profitto dalla stessa realizzato con l’illecito – materia che potra’ essere sottoposta all’attenzione del Giudice dell’esecuzione.
Il ricorso della stessa, pertanto, deve essere dichiarato inammissibile. Alla luce della sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che “la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilita’”, alla declaratoria dell’inammissibilita’ medesima consegue, a norma dell’art. 616 c.p.p. ed a carico della ricorrente G., l’onere delle spese del procedimento nonche’ quello del versamento della somma, in favore della Cassa delle ammende, equitativamente fissata in Euro 1.000,00.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata nei confronti di C. P. e limitatamente al reato di cui al capo c), perche’ il fatto non sussiste e, per l’effetto, annulla la decisione di patteggiamento, per lo stesso C., e dispone trasmettersi gli atti al Tribunale di Torino.
Dichiara inammissibile il ricorso di G.M. e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.000,00 in favore della Cassa delle ammende.
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