CORTE di CASSAZIONE sentenza n. 9217 del 6 maggio 2016
LAVORO – licenziamento – abuso di diritto – permesso ex art. 33 L. n. 104/1992
Svolgimento del processo
Il Tribunale di Lanciano dichiarava l’illegittimità del licenziamento per giusta causa intimato dalla S. spa a M.M. in quanto, come da accertamento di Agenzia investigativa. Il M. pur avendo richiesto alcuni permessi ex L. n. 104/1992 era stato visto recarsi presso l’abitazione dell’assistita (cognata non convivente) affetta da grave disabilità per un numero di ore inferiore a quello previsto. Il Tribunale annullava il licenziamento con le conseguenze di cui alla sentenza e rigettava il reclamo della società. La Corte di appello con sentenza del 14.10.2014 accoglieva invece il reclamo della società e dichiarava la legittimità del recesso. La Corte territoriale osservava che dall’accertamento non contestato dell’Agenzia investigativa incaricata della verifica il M. era stato visto recarsi presso l’abitazione dell’assistita solo il 12.12 per un totale di 4 ore e 15 minuti e per tre ore e 25 minuti il 13.12. Circa la deduzione del lavoratore di avere il 10.12 svolto nella mattina attività di assistenza osservava che il permesso riguardava il pomeriggio, durante il quale il M. non si era invece visto. Ricorreva la figura dell’abuso del diritto in relazione a permessi che dovevano essere svolti in coerenza con la loro funzione; per oltre due terzi del tempo previsto il lavoratore non aveva svolto alcuna attività assistenziale o accedendo ad alcune circostanze addotte dal M. per la metà del tempo previsto. Erano stati violati i principi di correttezza e buona fede ed il fatto (non previsto espressamente dal CCNL) era certamente di gravità tale da comportare il venir meno del vincolo fiduciario. Irrilevante era che l’assistenza era stata in parte fornita e l’insussistenza di un danno quantificabile.
Per la cassazione di tale decisione propone ricorso il M. con 9 motivi; resiste controparte con controricorso.
Parte ricorrente depositava memoria di replica alla conclusioni del P.G.
Motivi della decisione
Con il primo motivo si allega la violazione e/o erronea applicazione dell’art. 115 c.p.c. in relazione all’art. 116 c.p.c. nonché di ogni altra norma e principio di pacifica e/o incontroversa ricostruzione del quadro fattuale su cui esprimere il giudizio giuridico o di diritto, di omessa valutazione di fatti decisivi e delle risultanze processuali e di valutazione delle prove. Con il secondo motivo si allega l’omesso esame circa fatti decisivi per il giudizio oggetto di discussione tra le parti.
Il primo motivo appare inammissibile in quanto si propone in sostanza un vizio di motivazione non coerente con la nuova formulazione dell’art. 360 n. 5 c.p.c. applicabile ratione temporis.
Va infatti rimarcato che il vizio di violazione o falsa applicazione di norma di diritto, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3 c.p.c., ricorre o non ricorre a prescindere dalla motivazione (che può concernere soltanto una questione di fatto e mai di diritto) posta dal giudice a fondamento della decisione (id est: del processo di sussunzione), per l’esclusivo rilievo che, in relazione al fatto accertato, la norma, della cui esatta interpretazione non si controverte (in caso positivo vertendosi in controversia sulla “lettura” della norma stessa), non sia stata applicata quando doveva esserlo, ovvero che lo sia stata quando non si doveva applicarla, ovvero che sia stata “male” applicata, e cioè applicata a fattispecie non esattamente comprensibile nella norma (Cass. 15 dicembre 2014, n. 26307; Cass. 24 ottobre 2007, n. 22348). Sicché, il processo di sussunzione, nell’ambito del sindacato sulla violazione o falsa applicazione di una norma di diritto, presuppone la mediazione di una ricostruzione del fatto incontestata; al contrario del sindacato ai sensi dell’art. 360, primo comma n. 5 c.p.c. (oggetto della recente riformulazione interpretata quale riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione: Cass. s.u. 7 aprile 2014, n. 8053), che invece postula un fatto ancora oggetto di contestazione tra le parti”. Peraltro, anche il relazione al secondo motivo, la Corte territoriale ha già valutato la pretesa assistenza prestata nella giornata del 10 ed ha osservato che nel turno pomeridiano dalle ore 16,20 alle ore 20 (per il quale II permesso era stato in realtà richiesto) in ogni caso l’assistenza non era stata effettuata come dagli accertamenti dell’Agenzia investigativa, così come è stata anche valutato il periodo trascorso in farmacia. Gli altri, confusi, episodi menzionati al motivo non fanno che riscontrare l’accertamento effettuato dalla Corte di appello sul fatto che l’assistenza per la quale il permesso fu richiesto non fu effettuata per l’orario dovuto in quanto il ricorrente si occupò di altro, nonostante la richiesta di un permesso per assistenza presupponga, come logico, che ci si obblighi effettivamente a fornirla senza che sia lecito occuparsi proprio in quelle ore, come sembra di capire, dì sospetti pericoli dì furti nella propria abitazione o pedinamenti anomali e via dicendo. Si tratta di circostanze che non sono in alcuna contraddizione obiettiva con l’accertamento effettuato dai Giudici di appello per i quali l’assistenza alla disabile non fu effettuata per tre giorni per la maggior parte del tempo dovuta in relazione ad ” attività estranee all’assistenza alla cognata disabile”. Per cui non può neppure dirsi che tale pretese attività del ricorrente non siano state valutate dalla Corte di appello che le ha giudicate del tutto irrilevanti in quanto svolte in contrasto ed ad onta degli impegni presi.
Con il terzo motivo si allega l’omesso esame circa fatti decisivi per II giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti. Non era stata considerato dalla Corte lo svolgimento dì attività concernente lo stato di gravidanza della moglie, le preoccupazione ingenerate dallo scoperto pedinamento, la visita in farmacia.
Il terzo motivo appare inammissibile. Va ricordato che o “l’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., riformulato dall’art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. in legge 7 agosto 2012, n. 134, introduce nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia). Ne consegue che, nel rigoroso rispetto delle previsioni degli artt. 366, primo comma, n. 6, e 369, secondo comma, n. 4, cod. proc. civ., il ricorrente deve indicare il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extra testuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività”, fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie” (Cass. SSUU n. 8053/2014). Ora il “fatto” nella sua dimensione storica fattuale è stato, come detto, esaminato: la Corte ha accertato che per il maggior tempo dovuto l’assistenza non era stata effettuata e che le attività svolte erano estranee a quanto si era obbligato a compiere il ricorrente.
Con il quarto motivo si allega la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 33 L. n. 104/1992 nonché di altra norma e principio in tema di permessi fruiti dal lavoratore per l’assistenza al disabile. L’assistenza era stata fornita in via continuativa, ma la legge non richiede più che venga svolta per l’intero arco del permesso fruito.
Il motivo appare infondato alla luce dell’orientamento di questa Corte che si condivide ed al quale si intende dare continuità secondo il quale ” il comportamento del prestatore di lavoro subordinato che, in relazione al permesso ex art. 33 L. n. 104/1992, si avvalga dello stesso non per l’assistenza al familiare, bensì per attendere ad altra attività, integra l’ipotesi dell’abuso di diritto, giacché tale condotta si palesa, nei confronti del datore di lavoro come lesiva della buona fede, privandolo ingiustamente della prestazione lavorativa in violazione dell’affidamento riposto nel dipendente ed Integra nei confronti dell’Ente di previdenza erogatore del trattamento economico, un’indebita percezione dell’indennità ed uno sviamento dell’intervento assistenziale (cass. n. 4984/2014). Nel caso in esame è stato accertato che l’assistenza non è stata fornita per due terzi del tempo dovuto o in base agli stessi riferimenti del ricorrente per metà del tempo dovuto con grave violazione dei doveri di correttezza e buona fede sia nei confronti del datore di lavoro (che sopporta modifiche organizzative per esigenze di ordine generale) che dell’Ente assicurativo, norme codicistiche che non risultano rispettate dal ricorrente, anche a non voler seguire necessariamente la figura “dell’abuso di diritto” che comunque è stata integrata tra i principi della Carta dei diritti dell’Unione europea (art. 54), dimostrandosi così il suo crescente rilievo nella giurisprudenza europea.
Con il quinto motivo si allega l’omesso esame circa fatti decisivi per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti. La Corte di appello non aveva considerato che il M. aveva svolto attività urgenti ed indifferibili.
Il motivo appare inammissibile in quanto emerge, come già osservato, che le attività pretesamente urgenti ed indifferibili svolte dal ricorrente sono state nel complesso esaminate.
Con il quinto motivo si allega la violazione e/o erronea applicazione degli artt. 5, 2, 3 e 4 legge n. 300/70 nonché di ogni altra norma in tema di inutilizzabilità degli accertamenti disposti dal datore di lavoro tramite agenzia investigativa. Violazione e/o erronea applicazione degli artt. 2697 c.c. 115, 116 c.p.c. nonché di ogni altra norma e principio di tema di inutilizzabilità delle prove illecite e/o acquisite illecitamente o illegittimamente. Gli accertamenti erano avvenuti in modo invasivo turbando la tranquillità familiare. Erano illegittimi pedinamenti senza il minimo sospetto del compimento dì Illeciti.
Il motivo appare infondato alla stregua della giurisprudenza di questa Corte secondo la quale le disposizioni dell’art. 5 della legge 20 maggio 1970, n.300, in materia di divieto di accertamenti da parte del datore di lavoro sulle infermità per malattia o infortunio del lavoratore dipendente e sulla facoltà dello stesso datore di lavoro di effettuare il controllo delle assenze per infermità solo attraverso i servizi ispettivi degli istituti previdenziali competenti, non precludono al datore medesimo di procedere, al di fuori delle verifiche di tipo sanitario, ad accertamenti di circostanze di fatto atte a dimostrare l’insussistenza della malattia o la non idoneità di quest’ultima a determinare uno stato d’incapacità lavorativa e, quindi, a giustificare l’assenza. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito che aveva ritenuto legittimi gli accertamenti demandati, dal datore di lavoro, a un’agenzia investigativa, e aventi a oggetto comportamenti extralavorativi, che assumevano rilievo sotto il profilo del corretto adempimento delle obbligazioni derivanti dal rapporto di lavoro)” (Cass. n. 25162/2014). Appare evidente che il controllo di Agenzie investigative, come si è detto del tutto lecito, non può che avvenire attraverso forme di controllo sui comportamenti e spostamenti del lavoratore; il fatto che questi abbia chiamato i Carabinieri non comprova che me modalità sia state invasive della tranquillità familiare posto che si sono seguiti i molteplici spostamenti del ricorrente. Certamente rientrava nel potere del datore di lavoro di verificare la correttezza, sotto il profilo dell’effettività, della richiesta di permessi di lavoro per l’assistenza a cognata non convivente (pur essendo la moglie del ricorrente vicina al parto); effettività smentita in pieno dalla verifica effettuata su tre giorni lavorativi.
Con il sesto motivo si allega la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2119 c.c e dell’art. 32 del CCNL nonché di ogni altra norma o principio in tema di sussistenza della giusta causa ai fini dell’irrogazione del licenziamento – di sussistenza del fatto materiale, oltre che del fatto giuridicamente qualificato addebitato disciplinarmente. Il fatto non era così grave; l’assistenza era stata prestata e comunque per il periodo in cui non lo era stata il ricorrente aveva svolto attività utili alla tranquillità della sua famiglia. Il CCNL non prevedeva il recesso per simili ipotesi.
Il motivo appare infondato in quanto già la Corte territoriale ha ampiamente e correttamente motivato sul punto; si tratta di grave violazione dei doveri di correttezza e buona fede sia nei confronti del datore di lavoro (che sopporta modifiche organizzative per esigenze di ordine generale) che dell’Ente assicurativo, norme codicistiche che non risultano rispettate dal ricorrente in relazione ad episodi che sono stati scoperti solo grazie al ricorso ad una Agenzia investigativa e che quindi dimostrano una particolare attitudine del lavoratore a strumentalizzare forme legittime di sospensione dal lavoro. E’ orientamento costante di legittimità quello per cui il codice disciplinare del CCNL ha funzione meramente indicativa e certamente non esclude il ricorso all’art. 2119 c.c. laddove ne ricorrano i presupposti. Peraltro il CCNL disciplina il diverso caso della mera assenza dal lavoro mentre qui abbiamo un ben diverso caso di strumentalizzazione, particolarmente insidiosa, di un istituto disposto a fini di interesse generale che incide notevolmente sulla libera autorganizzazione imprenditoriale ed anche sulle risorse pubbliche che in questo modo vengono attribuite sine titulo.
Con il settimo motivo si allega l’omesso esame circa fatti decisivi per il giudizio. Non era stata valutata la condotta complessiva del ricorrente.
Il motivo appare inammissibile in quanto il “fatto” e cioè la condotta tenuta dal ricorrente risulta valutata dalla Corte di appello così come le pretese attività svolte in luogo di quella, doverosa, per la quale erano stati richiesti e connessi i permessi di cui è processo.
Con l’ottavo motivo si allega la violazione e /o falsa applicazione degli artt. 2106 e 2119 c.c. del CCNL e di ogni altra norma e principio in tema di proporzionalità della sanzione disciplinare irrogata rispetto alla violazione. La proporzionalità della sanzione non era stata adeguatamente valutata, anche in relazione al caso specifico ed all’assenza di precedenti disciplinari.
Il motivo, con il quale si reiterano le doglianze di quelli precedenti, è infondato avendo la Corte territoriale correttamente con argomentazioni congrue e logicamente coerenti spiegato la gravità del fatto con l’inevitabile rottura del vincolo fiduciario.
Con il nono motivo si allega l’omesso esame in relazione alle circostanze menzionate nel motivo precedente.
Il motivo è inammissibile in quanto la condotta del ricorrente, la sua gravità, l’inidoneità dell’episodio a rompere il rapporto fiduciario tra le parti sono stati dalla Corte di appello. Non sussistono carenze motivazionali con quelle caratteristiche che possono oggi essere denunciate alla luce dell’art. 360 n. 5 nella nuova formulazione, alla stregua dell’orientamento di questa Corte che è già stato ricordato.
Si deve quindi rigettare il proposto ricorso.
Le spese di lite del giudizio di legittimità – liquidate come al dispositivo – seguono la soccombenza.
La Corte ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater, del d.p.r. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente in via principale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del comma 1 -bis, dello stesso articolo 13.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso. Condanna parte ricorrente a! pagamento delle spese del giudizio di legittimità che si liquidano in euro 100,00 per esborsi, nonché in euro 3.500,00 per compensi oltre accessori di legge nella misura del 15%.
La Corte ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater, del d.p.r. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente in via principale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del comma 1 -bis, dello stesso articolo.
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