CORTE di CASSAZIONE sentenza n. 9467 del 10 maggio 2016
LAVORO – RAPPORTO DI LAVORO – LICENZIAMENTO PER GIUSTIFICATO MOTIVO – LICENZIAMENTO – MANSIONI INFERIORI – DISPONIBILITA’ DI POSIZIONI ALTERNATIVE – REPECHAGE
Svolgimento del processo
La Corte d’appello di Napoli, in riforma della sentenza dei Tribunale , ha rigettato la domanda di (…), dipendente dall’ (…) snc con mansioni di segretaria, ricevimento e cassa, volta ad accertare la nullità del licenziamento perché intimato per causa di matrimonio.
La Corte ha rilevato che ai sensi dell’art. 1 L. n. 7/1963 si presume disposto per causa di matrimonio il licenziamento intimato nel periodo intercorrente dal giorno delle pubblicazioni di matrimonio, in quanto segua la celebrazione, ad un anno dopo la celebrazione Secondo la Corte le pubblicazione a cui la norma faceva riferimento si riferivano esclusivamente a quelle richieste all’ufficiale di stato civile ai sensi del DPR 396/2000, art. 51, ed all’art. 93 c.c., così come affermato dall’appellante, alle quali non erano equipollenti le pubblicazioni per il matrimonio canonico atteso che anche per il matrimonio concordatario erano prescritte le pubblicazioni ai sensi delle norme del codice civile.
Circa la tardività con cui l’appellante aveva sollevato tale questione solo in appello la Corte ha rilevato che si trattava di mera difesa e non già di eccezione in senso stretto vertendosi in ordine ad una questione giuridica circa la disciplina normativa applicabile e la portata della stessa di pertinenza del giudice.
Ha rilevato che nella fattispecie le pubblicazioni civili erano avvenute dopo la comunicazione del licenziamento essendo irrilevanti le pubblicazioni ai fini del matrimonio canonico.
Quanto alla sussistenza del giustificato motivo oggettivo posto a fondamento del licenziamento individuato dall’ (…) nel notevole calo di turismo a causa dell’emergenza rifiuti ha affermato che era emersa effettivamente una riduzione dell’attività lavorativa dovuta ad un grave stato di crisi fin dal 2006 e che le mansioni della lavoratrice erano state assunte dai titolari. Circa la possibilità di adibire la ricorrente ad altri posti di lavoro la Corte ha rilevato che la lavoratrice nulla aveva allegato come sarebbe stato suo onere.
Avverso la sentenza ricorre la (…) con tre motivi. Resiste I’ (…) che deposita anche memoria ex art. 378 cpc.
Motivi della decisione
Con il primo motivo la ricorrente denuncia violazione dell’art. 35, comma 3°, d.lgs n. 198/2006 (in cui è stato trasfuso l’art. 1 L. n. 7/1963).
Deduce che la ratio della normativa è quella della tutela della lavoratrice dalle conseguenze negative della scelta di contrarre matrimonio presumendo per causa di matrimonio il licenziamento comminato dalle pubblicazioni ad un anno successivo.
Osserva che, a prescindere dalla equipollenza delle pubblicazioni canoniche a quelle civili, il dies a quo di tutela della lavoratrice ben può essere ravvisato dalla data di pubblicazioni canoniche assolvendo alla stessa funzione di pubblicità; che la logica sottesa alla norma era la tutela della lavoratrice a fronte della scelta del matrimonio che non può essere mortificata dalla reazione del datore di lavoro nel periodo intercorrente tra le pubblicazioni canoniche e quelle civili a cui sarebbe esposto solo chi sceglie il matrimonio concordatario e non anche che scegli quello civile.
Le censure sono infondate.
Il Collegio ritiene di confermare il proprio precedente del 16/2/1988 (Cass. N. 1651/1988) in ordine ai quale non si sono affermati diversi o contrastanti orientamenti della giurisprudenza né si ravvisano motivi per discostarsene.
Con la citata pronuncia si è affermato che “l’art. 1, terzo comma, della legge 9 gennaio 1963 n. 7 sul divieto di licenziamento delle lavoratrici per causa di matrimonio) nello stabilire che si presume disposto per causa di matrimonio “il licenziamento della dipendente nel periodo intercorrente dal giorno della richiesta della pubblicazioni di matrimonio, in quanta segua fa celebrazione, a un anno dopo la celebrazione stessa, collega tale presunzione ad una tipica forma legale di pubblicità-notizia costituita dal compimento delle formalità preliminari al matrimonio previste dagli artt. 93 e segg. cod. civ., alle quali non sono equipollenti le pubblicazioni per il matrimonio canonico”. Si è affermato, inoltre, nella citata pronuncia che per lo stesso matrimonio concordatario l’art. 6 della legge 27 maggio 1929 n. 847 prescrive che le pubblicazioni debbono essere fatte a norma degli artt. 93 e seg. del codice civile e 91 e seg. degli artt. 91 del R. d. 9 luglio 1939 n. 1238 e che ciò dimostra che secondo il legislatore non sono equipollenti le pubblicazioni religiose .
Infine si è sottolineato che la disposizione del terzo comma dell’art. 1 della legge n. 7 del 1963, così interpretata nel senso che la presunzione predetta è ricollegabile soltanto alla richiesta delle pubblicazioni civili e non anche a quella delle pubblicazioni religiose, non è in contrasto con il principio costituzionale di eguaglianza, non operando essa alcuna discriminazione per motivi di religione limitandosi a stabilire che la presunzione di conoscenza, derivante dall’attuazione di una forma di pubblicità legale, scaturisce soltanto dall’attuazione di tale pubblicità secondo le norme dell’ordinamento che la prevede.
La richiesta di pubblicazioni del matrimonio costituisce, poi, elemento necessario perché sia operativa la presunzione prevista nella norma così come questa Corte ha ribadito enunciando il principio secondo cui “il divieto di licenziamento attuato a causa di matrimonio opera, in forza della presunzione legale di cui all’art. 1, terzo comma, della legge 9 gennaio 1963, n. 7, allorché il licenziamento sia stato intimato, senza che ricorressero i presupposti di una delle ipotesi di legittimo recesso datoriale, contemplate nell’ultimo comma dello stesso art. 1, nel periodo intercorrente tra la richiesta delle pubblicazioni ed un anno dalla celebrazione, senza che possa attribuirsi rilievo ad atti prodromici alla richiesta di pubblicazione” (cfr Cass. 17612/2009).
Con il secondo motivo la ricorrente denuncia violazione dell’art. 437 cpc (360 n. 3 cpc). Censura l’affermazione della Corte secondo cui l’esclusiva rilevanza delle pubblicazioni civili eccepita solo in appello dall’ (…) costituiva mera difesa atteso che l’interpretazione della norma e la sua corretta applicazione spettavano solo al giudice.
Osserva che non si trattava di mera difesa: l’appellante per la prima volta aveva indicato e fornito la prova della data delle pubblicazioni civili e, dunque, aveva violato l’art. 437 cpc che fa divieto di nuovi mezzi di prova in appello.
Il motivo è infondato.
La Corte territoriale ha correttamente interpretato l’art. 35, comma 3°, d.lgs n. 198/2006 (In cui è stato trasfuso l’art. 1 L. n. 7/1963), come esposto nel motivo che precede, escludendo quindi rilevanza, ai fini della valutazione della fondatezza della domanda di nullità del licenziamento, alle pubblicazioni canoniche, oggetto esclusivo di esame nel giudizio davanti al Tribunale. Ne consegue che la Corte ha ritenuto giustamente indispensabile, – dunque sussistenti i presupposti di cui all’art. 437 cpc – acquisire la richiesta di pubblicazione civili al fine della corretta valutazione della domanda che sulla base delle pubblicazioni canoniche non avrebbe potuto concludersi che in senso sfavorevole alla lavoratrice.
Non sussiste, pertanto, alcuna violazione delle norme citate.
Con il terzo motivo la ricorrente denuncia violazione della L. n. 604/1966 in relazione all’obbligo di repechage (art. 360 n. 3 cpc). Censura la sentenza secondo cui la lavoratrice nulla aveva allegato circa la possibilità di essere adibita ad altri posti di lavoro.
Osserva che in primo grado la stessa società aveva riferito che l’unica possibilità era di adibirla come cameriera ai piani mansione diversa ed inferiore e che, dunque, per ammissione dello stesso datore di lavoro vi era la possibilità concreta di adibire la (…) ad altre mansioni.
Il motivo è infondato.
Il licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo, L. n. 604 del 1966, ex art. 3, è determinato dalla necessità di procedere alla soppressione del posto o del reparto cui è addetto.
Il singolo lavoratore, cosicché, ai fini della legittimità dello stesso, sul datore di lavoro incombe la prova sia della concreta riferibilità del licenziamento a iniziative collegate ad effettive ragioni di carattere produttivo – organizzativo, sia della impossibilità di utilizzare il lavoratore in altre mansioni compatibili con la qualifica rivestita, in relazione al concreto contenuto professionale dell’attività cui il lavoratore stesso era precedentemente adibito (cfr, ex plurimis, Cass., n. 10554/2003 e successive).
La ricorrente non formula censure circa la sussistenza di un’effettiva riduzione dell’attività svolta dalla società nell’albergo, della soppressione del suo posto, né in ordine alla insussistenza di mansioni equivalenti. Essa rileva, tuttavia, che la stessa società aveva affermato l’esistenza di una mansione inferiore quale cameriera e che il datore di lavoro avrebbe dovuto dimostrare di averla offerta alla lavoratrice ricevendo un rifiuto.
Essa, dunque, non allega che, contrariamente a quanto affermato dal datore di lavoro, vi fossero in albergo mansioni equivalenti. A riguardo deve richiamarsi quanto affermato da questa Corte (cfr Cass. N. 3040/2011) secondo cui il datore di lavoro ha l’onere di provare, anche mediante elementi presuntivi ed indiziari, l’impossibilità di una differente utilizzazione del lavoratore in mansioni diverse da quelle precedentemente svolte; tale prova, tuttavia, non deve essere intesa in modo rigido, dovendosi esigere dallo stesso lavoratore che impugni il licenziamento una collaborazione nell’accertamento di un possibile “repechage”, mediante l’allegazione dell’esistenza di altri posti di lavoro nei quali egli poteva essere utilmente ricollocato, e conseguendo a tale allegazione l’onere del datore di lavoro di provare la non utilizzabilità nei posti predetti” (nello stesso senso cfr. Cass. N. 15157/2011, n. 7474/2012, n. 25197/2012).
La D. lamenta che lo stesso datore di lavoro aveva affermato l’esistenza di un posto di cameriera e che tuttavia non le era stato offerto.
Anche sotto tale profilo le censure non sono fondate atteso che il demansionamento, a prescindere dall’accettazione o meno da parte del lavoratore e dunque dall’esistenza di un patto di demansionamento, è ammissibile sempre che ci sia una certa omogeneità con i compiti originariamente svolti dal lavoratore. Il datore di lavoro che adduca a fondamento del licenziamento la soppressione del posto di lavoro cui era addetto il lavoratore licenziato ha l’onere di provare non solo che al momento del licenziamento non sussisteva alcuna posizione di lavoro analoga a quella soppressa, alla quale avrebbe potuto essere assegnato il lavoratore per l’espletamento di mansioni equivalenti a quelle svolte, ma anche l’insussistenza di mansioni inferiori rientranti e compatibili con il bagaglio professionale dei lavoratore. (cfr Cass n. 21579/2008, n. 23698/2015).
Non appare, inoltre, configurabile un obbligo del datore di lavoro di offrire al lavoratore tutte le mansioni anche quelle del tutto incompatibili con quelle svolte in precedenza dal lavoratore.
Nella specie risulta dalla sentenza impugnata che la (…) era inquadrata nel 4° livello del CCNl con mansioni di segretaria, ricevimento e cassa ed in generale con compiti amministrativi e che, invece, l’unica mansioni ritenuta disponibile era quella di cameriera che non solo era inferiore a quella svolta dalla lavoratrice, ma era del tutto avulsa dal bagaglio professionale e dalle competenze della lavoratrice e, dunque, non era ravvisabile un obbligo della società di offrire dette diverse mansioni alla (…).
Per le considerazioni che precedono il ricorso deve essere rigettato con condanna della ricorrente a pagare le spese del presente giudizio.
Avuto riguardo all’esito del giudizio ed alla data di proposizione del ricorso sussistono i presupposti di cui all’art. 13, comma 1 quater, dpr n. 115/2002.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente a pagare le spese del presente giudizio liquidate in Euro 100,00 per esborsi ed Euro 3.500,00 per compensi professionali, oltre 15% per spese generali ed accessori di legge.
Al sensi dell’art. 13, comma 1 quater del dpr n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1-bis dello stesso articolo 13.
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