CORTE di CASSAZIONE sentenza n. 9680 del 11 maggio 2016
LAVORO – RAPPORTO DI LAVORO – LICENZIAMENTO PER GIUSTA CAUSA – IMMEDIATEZZA DELLA COMUNICAZIONE DEL PROVVEDIMENTO ESPULSIVO
Svolgimento del processo
1. – La sentenza attualmente impugnata (depositata il 18 gennaio 2013), in parziale riforma della impugnata sentenza del Tribunale di Milano n. 3675/2011, dichiara l’illegittimità del licenziamento per giusta causa intimato il 30 aprile 2010 dalla (…) a (…) e, per l’effetto, condanna la suddetta società a reintegrare il dipendente nel posto di lavoro e a corrispondergli l’importo delle retribuzioni globali di fatto dalla data de licenziamento fino all’effettiva reintegra, oltre agli accessori di legge e alla regolarizzazione contributiva. Respinge ogni altra domanda. La Corte d’appello di Milano, per quel che qui interessa, precisa che:
a) i fatti contestati sono pacifici, in quanto il lavoratore non nega di aver utilizzato in modo improprio la tessera SpesAmica, nelle circostanze di tempo e di luogo indicate dalle società;
b) peraltro, è senz’altro tardiva la contestazione effettuata nel mese di aprile e, quindi, a distanza di quasi quattro mesi dal primo utilizzo anomalo della suddetta tessera, comportamento di immediata conoscibilità per la società;
b) inoltre, il licenziamento appare sproporzionato rispetto alla condotta contestata con le quale il dipendente si è procurato un vantaggio economico di soli euro 4,14 (questo essendo II valore dei 414 punti accreditati per mezzo dell’utilizzo anomalo della tessera fedeltà), mentre la società non ha mai negato che il caricamento dei punti sulla tessera sia stato preceduto da acquisti di merci, con produzione di conseguenti vantaggi economici in capo alla società stessa;
c) è pertanto da escludere che il comportamento addebitato al dipendente sia stato tale da portare alla definitiva rottura del rapporto fiduciario che deve legare datore di lavoro e lavoratore e che sia da considerare meritevole della sanzione espulsiva;
d) del resto, anche dal regolamento aziendale sull’utilizzo della carta SpesAmica, prodotto dall’azienda, risulta che la stessa società aveva previsto che l’utilizzo improprio delle tessera potesse legittimare il licenziamento soltanto nel “casi più gravi” e tra questi casi certamente non può farsi rientrare la presente vicenda, per quel che si è detto;
e) il licenziamento è, quindi, illegittimo e va applicata la tutela reale, nei termini suindicati.
2. – Il ricorso della (…) illustrato da memoria, domanda la cassazione della sentenza per tre motivi; resiste, con controricorso.
Motivi della decisione
I – Sintesi dei motivi di ricorso
1. – Il ricorso è articolato in tre motivi.
1.1.- Con il primo motivo – a proposito della tardività della contestazione affermata nella sentenza impugnata – si denunciano: a) in relazione all’art. 360, n. 3, cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione dell’art. 7 della legge n. 300 del 1970 e dell’art. 115 cod. proc. civ.; b) in relazione all’art. 360, n. 5, cod. proc. civ., omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio.
Si sostiene l’erroneità della statuizione della Corte d’appello di tardività della contestazione degli addebiti effettuata nel mese di aprile 2010 e, quindi, a distanza di quasi quattro mesi dal primo utilizzo anomalo della suddetta tessera, fondata sull’assunto secondo cui tale utilizzo anomalo sarebbe da qualificare come comportamento di immediata conoscibilità da parte della datrice di lavoro.
Si sottolinea, in particolare, che tale affermazione si porrebbe in contrasto con il consolidato indirizzo della giurisprudenza di legittimità in base al quale l’immediatezza della contestazione va intesa in senso relativo in considerazione della natura del comportamento contestato e del tempo occorrente per l’espletamento delle indagini.
Si aggiunge che la Corte territoriale non avrebbe considerato che l’effettivo diritto di difesa del lavoratore non ha subito alcuna limitazione e che neppure avrebbe indicato le font del proprio convincimento sulla facilità di conoscenza dell’uso indebito della tessera da parte del dipendente, quando in concreto la società ha effettuato complesse verifiche.
1.2. – Con il secondo motivo – a proposito della sproporzione della sanzione espulsiva rispetto ai fatti contestati, affermata nella sentenza impugnata – si denunciano: a) in relazione all’art. 360, n. 3, cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione dell’art. 2106 e 2119 cod. civ.;
b) in relazione all’art. 360, n. 5, cod. proc. civ., omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio.
Si sostiene la contraddittorietà tra la ritenuta non necessità della garanzia della preventiva affissione del codice disciplinare e l’affermata non proporzionalità del licenziamento rispetto ai fatti contestati.
Si assume che tale ultima statuizione sarebbe sostenuta da una motivazione inadeguata rispetto alla clausola generale della giusta causa, in quanto sarebbe fondata solo sulla particolare tenuità del vantaggio economico ottenuto dal dipendente e dall’assenza di danno in capo all’azienda.
Si contesta la mancata valutazione dei seguenti elementi: a) la posizione del lavoratore, addetto alle vendite adibito alle operazioni di incasso; b) le modalità della condotta (reiterata 19 volte, di cui 12 in un solo giorno); c) l’elemento soggettivo: consapevolezza di porre in essere un comportamento vietato; d) la finalità del comportamento: procurarsi un vantaggio Indebito; e) il danno all’Immagine della società e, in particolare, all’interesse della stessa al corretto svolgimento della campagna promozionale legata alla tessera fedeltà; f) il danno alle società derivante dalla effettuata attribuzione, da parte del lavoratore, di sconti e promozioni ai clienti, loro non spettanti.
1.3. – Con il terzo motivo – a proposito della misura del risarcimento del danno liquidata nella sentenza impugnata – si denunciano: a) in relazione all’art. 360, n. 3, cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione dell’18 della legge n. 300 del 1970, degli artt. 1218 e 1227 cod. civ.; b) in relazione all’art. 360, n. 5, cod. proc. civ., omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio.
In via subordinata rispetto ai precedenti motivi, si rileva che la Corte milanese ha anche disatteso, senza alcuna motivazione, l’eccezione con la quale la società aveva sostenuto che eventuale risarcimento del danno non potesse essere superiore alla misura minima di cinque mensilità, in ragione dell’inerzia manifestata dal lavoratore (pari ad un anno) prima di instaurare il presente giudizio.
II – Esame delle censure
2. – L’esame congiunto di tutti i motivi di censura – reso opportuno dalla loro intima connessione – porta al rigetto del ricorso, per le ragioni di seguito esposte.
3. – Preliminarmente deve essere precisato che al presente ricorso si applica ratione temporis il nuovo testo del n. 5 dell’art. 360 cod. proc. civ., di cui all’art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, convertito dalla legge 7 agosto 2012, n. 134 (visto che la sentenza impugnata è stata depositata il 18 gennaio 2013 e la novella si applica ai ricorsi avverso sentenze depositate dopo il giorno 11 settembre 2012).
Ebbene, nella formulazione dei profili di censura riferiti all’art. 360, n. 5 cod. proc. civ. (presenti in tutti e tre i motivi) la società ricorrente non considera quanto espressamente affermato da questa Corte a proposito della suindicata novella, secondo cui:
a) la riformulazione dell’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., disposta dall’art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. in legge 7 agosto 2012, n. 134, deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 delle preleggi, come riduzione al “minime costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione. Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione (Cass. SU 7 aprile 2014, n. 8053 e n. 8054);
b) in tema di ricorso per cassazione, dopo la modifica dell’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ. ad opera dell’art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, convertito in legge 7 agosto 2012, n. 134, la ricostruzione del fatto operata dai giudici di merito è sindacabile in sede di legittimità soltanto quando la motivazione manchi del tutto, ovvero sia affetta da vizi giuridici consistenti nell’essere stata essa articolata su espressioni od argomenti tra loro manifestamente ed immediatamente inconciliabili, oppure perplessi od obiettivamente incomprensibili (Cass. 9 giugno 2014, n. 12928);
c) in tema di ricorso per cassazione, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., come novellato dall’art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, convertito in legge 7 agosto 2012, n. 134, deve escludersi la sindacabilità in sede di legittimità della correttezza logica della motivazione di idoneità probatoria di una determinata risultanza processuale, non avendo più autonoma rilevanza il vizio di contraddittorietà della motivazione (Cass. 16 luglio 2014, n. 16300).
In questo quadro è del tutto evidente che le censure formulate, in tutti e tre i motivi, con riguardo all’art. 360, n. 5, cit. sono Inammissibili, in quanto sostanzialmente dirette a denunciare un vizio – l’insufficienza, la contraddittorietà e illogicità della motivazione – che non è più deducibile, in quanto tale, in base al nuovo testo dell’art. 360, n. 5.cod. proc. civ..
4. – Quanto alle altre censure, va specificato, in primo luogo, che la statuizione di tardività della comunicazione del provvedimento espulsivo è logicamente e giuridicamente pregiudiziale e di per sé sufficiente a giustificare la decisione in oggetto.
4.1. – Inoltre, va aggiunto che in base alla consolidata giurisprudenza di questa Corte l’immediatezza della comunicazione del licenziamento si configura quale elemento costitutivo del diritto al recesso del datore di lavoro, in quanto la non immediatezza della contestazione o del provvedimento espulsivo induce ragionevolmente a ritenere che il datore di lavoro abbia soprasseduto al licenziamento ritenendo non grave o comunque non meritevole della massima sanzione la condotta del lavoratore.
E, pur dovendosi intendere il requisito della immediatezza in senso relativo – potendo in concreto essere compatibile con un intervallo di tempo, più o meno lungo, quando l’accertamento e la valutazione dei fatti richieda uno spazio temporale maggiore ovvero quando la complessità della struttura organizzativa dell’impresa possa far ritardare il provvedimento di recesso – resta comunque riservata al giudice del merito la valutazione delle circostanze di fatto che in concreto giustifichino o meno il ritardo (vedi, tra le tante: Cass. 1 luglio 2010, n. 15649; Cass. 10 settembre 2013, n. 20719; Cass. 19 giugno 2014, n. 13955).
4.2. – Nella specie la Corte d’appello, con motivazione esauriente e corretta, ha affermato che l’utilizzo anomalo della tessera SpesAmica contestato al lavoratore – preceduto da acquisti di merci, con produzione di conseguenti vantaggi economici in capo alla società (…) – era da qualificare come comportamento di immediata conoscibilità da parte della società stessa.
Pertanto la Corte territoriale ha ritenuto non giustificato il ritardo di quattro mesi per la relativa contestazione disciplinare, il che è del tutto plausibile e conforme alta indicata giurisprudenza di questa Corte.
Infatti, a fronte dell’irrilevante vantaggio economico procuratosi da parte del lavoratore – pari a soli euro 4,14 (questo essendo il valore dei 414 punti accreditati per mezzo dell’utilizzo anomalo della tessera fedeltà) – e dei vantaggi invece derivati alla società dagli acquisti effettuati, la non immediatezza della intimazione del licenziamento poteva ragionevolmente indurre a ritenere che la datrice di lavoro avesse soprasseduto al licenziamento ritenendo non grave o comunque non meritevole della massima sanzione la condotta del lavoratore. 4.3. – Per tali ragioni non sono da accogliere le censure di violazione di legge proposte, sul punto, nel primo motivo, che peraltro, nella sostanza, risultano dirette ad esprimere un mere dissenso rispetto alle motivate valutazioni di merito delle risultanze probatorie di causa effettuate dal Giudice del merito con un tipo di argomentazione, quindi, inammissibile anche per il previgente testo dell’art. 360, n. 5, cod. proc. civ.
5. – Lo stesso inconveniente si riscontra con riguardo alle censure proposte con il secondo motivo, sotto il profilo della violazione di legge, peraltro solo formalmente richiamato nell’intestazione del motivo, visto che tutte le censure sono inammissibilmente incentrate sulla prospettata mancanza di valutazione, da parte della Corte milanese, di una serie di elementi di fatto, da cui si evincerebbe l’inadeguatezza della motivazione rispetto alla clausola generale della giusta causa. 6. – Il terzo motivo – per la parte che residua rispetto alla suindicata dichiarazione di inammissibilità delle censure ex art. 360, n. 5, cod. proc. civ. – non è fondato.
La censura, Infatti, risulta formulata senza considerare che, per costante e condiviso orientamento di questa Corte, ai sensi dell’art. 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300, nel testo nella specie applicabile, la limitazione del risarcimento del danno al suo minimo ammontare di cinque mensilità, costituisce una presunzione iuris et de iure del danno causato dal recesso, assimilabile ad una sorta di penale connaturata al rischio di impresa, mentre la corresponsione di tutte le retribuzioni effettivamente non percepite costituisce una presunzione iuris tantum di lucro cessante e il datore di lavoro, per evitare, in tutto o in parte, tale ultima corresponsione, ha l’onere di provare che il danno ulteriore non sussiste per effetto di un aliunde perceptum o della sussistenza di un fatto colposo del lavoratore in relazione al danno che il medesimo avrebbe potuto evitare usando l’ordinaria diligenza (Cass. 11 novembre 2011, n. 23666; Cass. 28 agosto 2007, n. 18146; Cass. 2 settembre 2003, n. 12798).
Nella specie non venendo in considerazione l’aliunde perceptum. la società ricorrente sostiene che la Corte d’appello non avrebbe giustificato la scelta di non limitare il risarcimento del danno alla misura minima di cinque mensilità – come richiesto dalla ricorrente medesima – in ragione dell’inerzia manifestata dal lavoratore (pari ad un anno) prima di instaurare il presente giudizio.
Orbene, è evidente che la suddetta istanza si deve considerare implicitamente respinta dalla Corte territoriale, non potendosi certamente configurare come fatto colposo del lavoratore quello di aver ritardato ad affrontare l’alea e i costi del giudizio di impugnazione del licenziamento nei confronti della datrice di lavoro.
IlI – Conclusioni
7. – In sintesi, il ricorso deve essere respinto. Le spese del presente giudizio di cassazione – liquidate nella misura indicata in dispositivo – seguono la soccombenza., dandosi atto della sussistenza dei presupposti di cui all’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge n. 228 del 2012.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna la società ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di cassazione, liquidate in euro 100,00 per esborsi ed euro 3500,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% ed accessori.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge n. 228 del 2012, si dà atto della sussistenza del presupposti per il versamento, da parte del ricorrente principale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13.
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