CORTE di CASSAZIONE, sez. penale, sentenza n. 20905 del 3 maggio 2017
RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza del 20 aprile 2016 il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Nola ha applicato a I. A. B., su sua richiesta ai sensi dell’art. 444 cod. proc. pen., la pena di anni uno e mesi quattro di reclusione in relazione ai reati di cui agli artt. 8, 5 e 10 d.lgs. n. 74 del 2000, disponendo, ai sensi degli artt. 240 cod. pen., nonché 1, comma 143, I. 24 dicembre 2007 n. 244, e 12 bis d.lgs. n. 74 del 2000, la confisca del profitto del reato di cui all’art. 5 d.lgs. n. 74 del 2000 e, in caso di mancata individuazione dello stesso, dei beni dell’imputato fino alla concorrenza della somma di euro 676.523. Nel disporre tale confisca il Giudice dell’udienza preliminare ha, in particolare, evidenziato la continuità normativa tra l’art. 12 bis d.lgs. n. 74 del 2000, introdotto dal d.lgs. n. 158 del 2015, e l’art. 1, comma 143, I. 24 dicembre 2007 n. 244, che già consentiva la confisca per equivalente del profitto dei reati di cui agli artt. 2, 3, 4, 5, 8, 10 bis, 10 ter, 10 quater e 11 d.lgs. n. 74 del 2000, e l’applicabilità, ratione tennporis, della precedente disciplina, non modificata dalla novella.
2. Avverso tale sentenza ha proposto ricorso l’imputato, affidato a tre motivi, così enunciati nei limiti strettamente necessari ai fini della motivazione.
2.1. Con il primo motivo ha prospettato l’illegittimità costituzionale dell’art. 12 bis d.lgs. n. 74 del 2000, per violazione degli artt. 2, 3, 13, comma 1, 25, comma 2, 27, commi 1 e 2, Cost., e degli artt. 5, comma 1, 6, commi 1 e 2 CEDU. Ha sottolineato, in particolare, la violazione del principio di colpevolezza di cui all’art. 27, commi 1 e 2, Cost. a causa della disposizione della confisca anche in assenza di accertamento della responsabilità penale, allorquando la sentenza sia pronunciata ai sensi dell’art. 444 cod. proc. pen., difettando in tale ipotesi sia l’accertamento della commissione del fatto da parte dell’imputato, sia del conseguimento di un profitto, estraneo al contenuto del concordato di pena sulla base del quale viene emessa la sentenza di applicazione della pena su richiesta. Ha prospettato anche violazione del principio di determinatezza della legge penale, per la mancata previsione nel giudizio ex art. 444 cod. proc. pen. della necessità di determinare l’esatto ammontare delle somme effettivamente percepite dall’imputato a seguito della commissione dei reati, posto che nel giudizio di applicazione della pena su richiesta non si svolge alcun accertamento al riguardo, e anche del principio di ragionevolezza, mancando in tale giudizio il consenso dell’imputato in ordine alla determinazione del profitto del reato ed essendo la confisca in contrasto con lo scopo di tale giudizio, e cioè di rendere più celere e meno complessa la conclusione del procedimento penale. Ha denunciato anche violazione del principio di proporzionalità, evidenziando che la previsione della confisca scoraggiava il ricorso all’istituto della applicazione della pena su richiesta, comprimendo, per contro, il diritto dell’imputato alla salvaguardia e alla conservazione del suo patrimonio.
2.2. Con il secondo motivo ha prospettato violazione e falsa applicazione dell’art. 12 bis d.lgs. n. 74 del 2000 e del 546 cod. proc. pen. e contraddittorietà e illogicità della motivazione, a causa del mancato accertamento della evasione fiscale e del conseguente profitto da parte del ricorrente e, soprattutto, della sua effettiva entità, e per la disposizione della confisca per equivalente nel caso di mancato reperimento del profitto, determinante, in sostanza, una ipotesi di obbligatorietà della confisca.)
2.3. Con il terzo motivo ha denunciato violazione dell’art. 25 Cost. e dell’art.2 cod. pen., essendo stato applicato l’art. 1, comma 143, I. 24 dicembre 2007 n. 244, abrogato dall’art. 14 del d.lgs. n. 158 del 2015, e non potendo neppure applicarsi l’art. 12 bis d.lgs. n. 74 del 2000, introdotto dal citato d.lgs. 158/2015, trattandosi di disposizione successiva ai fatti. 3. Il Procuratore Generale nella sua requisitoria scritta ha concluso per l’inammissibilità del ricorso, evidenziando la piena ragionevolezza della equiparazione, ai fini della confisca per equivalente, della sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti a quella di condanna, il sufficiente accertamento della evasione d’imposta e del conseguente profitto, la piena continuità normativa tra l’art. 1, comma 143, I. 24 dicembre 2007 e l’art. 12 bis d.lgs. n. 74 del 2000.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è inammissibile.
2. La questione di legittimità costituzionale prospettata con il primo motivo è manifestamente infondata. Va al riguardo ricordato che le Sezioni Unite di questa Corte, nell’affermare che “la sentenza di patteggiamento, in ragione dell’equiparazione legislativa ad una sentenza di condanna in mancanza di un’espressa previsione di deroga, costituisce titolo idoneo per la revoca, a norma dell’art. 168, comma primo, n. 1 cod. pen., della sospensione condizionale della pena precedentemente concessa” (Sez. U, n. 17781 del 29/11/2005, Diop, Rv. 233518; conf. Sez. U., 29 novembre 2005, n. 17782/06, Duduman, non nnassimata), hanno ampiamente analizzato l’istituto della applicazione della pena su richiesta di cui all’art. 444 cod. proc. pen., concludendo che, pur non potendosi equiparare la sentenza pronunziata in esito a giudizio ordinario a quella resa a seguito di richiesta concordata di applicazione della pena, da quest’ultima consegue comunque l’applicazione di tutte le conseguenze penali della sentenza di condanna non espressamente escluse (cfr., in senso conforme, Sez. 1, n. 16026 del 12/04/2006, Luodoiyi, Rv. 234135; Sez. 1, n. 42411 del 19/10/2007, Ciampoli, Rv. 237970).
Tale principio è stato richiamato nella sentenza n. 336 del 2009 della Corte Costituzionale, che, nel dichiarare non fondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 445, comma 1 bis, e 653, comma 1 bis, cod. proc. pen., impugnati in riferimento agli artt. 3, comma secondo, 24, comma secondo, e 111, comma secondo, Cost., nella parte in cui, equiparata la sentenza di cui all’art. 444 dello stesso codice a una sentenza di condanna, prevedono che essa abbia efficacia di giudicato nel giudizio per responsabilità disciplinare davanti alle pubbliche autorità quanto all’accertamento della sussistenza del fatto, alla sua illiceità penale ed all’affermazione che l’imputato lo ha commesso, ha ritenuto non irragionevole la scelta legislativa di perequare, agli effetti del giudizio disciplinare, l’efficacia probatoria della pronuncia di condanna a seguito di dibattimento e della pronuncia di applicazione della pena su richiesta delle parti, aggiungendo che la più recente giurisprudenza di legittimità e l’evoluzione normativa del patteggiannento avvalorano un principio di tendenziale equiparazione delle dette pronunce. E’ stato, in particolare, sottolineato come la scelta del patteggiamento sia un diritto dell’imputato, cui si accompagna l’accettazione di tutti gli effetti, favorevoli e sfavorevoli, tassativamente tracciati dal legislatore come elementi coessenziali allo stesso istituto, tra i quali è stato ritenuto non irragionevole annoverare anche il valore di giudicato ai fini del giudizio disciplinare; la circostanza che l’imputato accetti una determinata condanna penale sta univocamente a significare che ha ritenuto, a quei fini, di non contestare il fatto e la propria responsabilità, con la conseguenza di rendere per ciò stesso coerente, rispetto agli evocati parametri, la possibilità che, intervenuto il giudicato su quel fatto e sulla relativa attribuibilità allo stesso imputato, simili componenti del giudizio si cristallizzino anche agli effetti del giudizio disciplinare.
Ne consegue la manifesta infondatezza dei rilievi sollevati dal ricorrente a proposito della violazione del principio di colpevolezza e di determinatezza, posto che, come ricordato, la richiesta di applicazione della pena implica la rinuncia a qualsiasi contestazione sia sul fatto così come contestato (e, dunque, per quanto riguarda la vicenda in esame, anche a proposito dell’ammontare dell’imposta evasa e quindi anche del profitto del reato, chiaramente indicati nella imputazione), sia sulla responsabilità dell’imputato, ed è idonea a determinare il passaggio in giudicato della relativa pronuncia, che ha quindi efficacia di accertamento incontrovertibile in ordine alla commissione del fatto così come contestato e alla sua attribuibilità all’imputato.
La mancanza di consenso delle parti alla disposizione della confisca non determina, poi, alcuna irragionevolezza, in quanto la confisca per equivalente disciplinata dall’art. 322 ter cod. pen. opera in via obbligatoria, come si ricava sia dal dato testuale della norma, ove si prevede, sia nel primo sia nel secondo comma, che la confisca sia “sempre ordinata”, sia dalla natura sanzionatoria a essa incontestabilmente riconosciuta dalla giurisprudenza; attraverso di essa, infatti, si è inteso privare l’autore del reato di qualunque beneficio economico derivante dall’attività criminosa, anche di fronte all’impossibilità di aggredirne l’oggetto principale, nella convinzione della capacità dissuasiva e disincentivante 4 L ( di tale strumento, che assume, così, i tratti distintivi di una vera e propria sanzione, non commisurata né alla colpevolezza dell’autore del reato, né alla gravità della condotta (Sez. 3, n. 6047 del 27/09/2016, Zaini, Rv. 268829; Sez. 3, n. 19461 del 11/03/2014, Stefanelli, Rv. 260599; Sez. 3, n. 44445 del 09/10/2013, Cruciani, Rv. 257616). Non vi è, dunque, alcuna irragionevolezza della previsione della obbligatorietà della confisca per equivalente anche nelle ipotesi di sentenza resa ai sensi dell’art. 444 cod. proc. pen., in considerazione della evidenziata sua natura sanzionatoria e della esistenza di un accertamento anche a proposito della entità della evasione fiscale e quindi anche del profitto del reato, corrispondente a quanto indicato nella imputazione, da ritenersi incontrovertibile a seguito della richiesta di applicazione della pena formulata dall’imputato. La necessità di dover corso alla fase esecutiva della confisca non determina neppure essa alcuna irragionevolezza, per contrarietà alla ratio deflattiva dell’istituto, posto che tale funzione si riferisce al processo di cognizione e non anche a quello di esecuzione e che anche le altre sanzioni, conseguenti alla sentenza ex art. 444 cod. proc. pen., ove non sospese condizionalmente, debbono essere eseguite. La scelta del legislatore di equiparare la sentenza di condanna e quella di applicazione della pena su richiesta ai sensi dell’art. 444 cod. proc. pen. per i reati tributari ai fini della confisca obbligatoria diretta del profitto o del prezzo, ovvero per equivalente, non è neppure in contrasto con il principio di proporzionalità, in quanto la confisca del prezzo e del profitto del reato è finalizzata alla rimozione dì una pericolosità di tipo obiettivo derivante da cose che, provenendo da illeciti penali, o essendo collegate in quale modo alla loro esecuzione, manterrebbero viva l’idea e l’attrattiva del reato (Relazione Ministeriale sul progetto del codice penale, n. 202, Lav. Prep., 1929, Vol. V, 19, 245), mentre sarebbe stato, al contrario irragionevole escludere la possibilità di vedere soddisfatte tali ragioni in caso di patteggiamento. Ne consegue, in definitiva, la manifesta infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale prospettate dal ricorrente, non ravvisandosi alcuna irragionevolezza, indeterminatezza o violazione del principio di proporzionalità nella previsione della confisca obbligatoria per equivalente nella ipotesi di sentenza per reati tributari resa ai sensi dell’art. 444 cod. proc. pen.
3. La doglianza relativa all’insufficiente accertamento dell’effettivo conseguimento di un profitto da parte dell’imputato e alla sua entità è, anch’essa, manifestamente infondata, dovendo l’obbligo di motivazione al riguardo essere correlato alla particolare natura giuridica della sentenza di applicazione della pena su richiesta, rispetto alla quale, pur non potendo ridursi il 5 L(A°.fr compito del giudice a una funzione di semplice presa d’atto del patto concluso tra le parti, lo sviluppo delle linee argomentative della decisione è necessariamente correlato all’esistenza dell’atto negoziale con cui l’imputato dispensa l’accusa dall’onere di provare i fatti dedotti nell’imputazione. Nella specie il Giudice dell’udienza preliminare, nell’escludere, sulla base di quanto emergente dalle informative della Guardia di Finanza e della Agenzia delle Dogane, la sussistenza di elementi per la pronunzia di una sentenza di proscioglimento ai sensi dell’art. 129 cod. proc. pen., ha dato atto in modo sufficiente del compimento positivo della verifica a proposito della sussistenza dei fatti e della loro attribuibilità all’imputato, da cui discende l’esistenza dei presupposti per disporre la confisca, potendo dirsi accertata l’evasione d’imposta quale indicata nella imputazione e, con essa, anche il corrispondente profitto derivante dal reato, in relazione al quale è stata dunque correttamente disposta la confisca per equivalente nei confronti del suo autore.
4. Infine anche la doglianza fondata sulla abrogazione dell’art. 1, comma 143, I. 24 dicembre 2007 n. 244, da parte dell’art. 14 d.lgs. n. 158 del 2015, è manifestamente infondata, stante l’identità della lettera e la piena continuità normativa tra la disposizione di cui all’art. 12 bis, comma secondo, d.lgs. n. 74 del 2000 (introdotta dal predetto d.lgs. 24 settembre 2015, n. 158), e la previgente fattispecie prevista dall’art. 322 ter cod. pen., richiamato dall’art. 1, comma 143, I. 24 dicembre 2007, n. 244, abrogata dall’art. 14 del citato d.lgs. n. 158 del 2015 (Sez. 3, n. 50338 del 22/09/2016, Lombardo, Rv. 268386; Sez. 3, n. 35226 del 16/06/2016, D’Agapito, Rv. 267764).
5. In conclusione il ricorso deve essere dichiarato inammissibile, stante la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale prospettata e anche degli altri motivi di ricorso. L’inammissibilità originaria del ricorso esclude il rilievo della eventuale prescrizione verificatasi successivamente alla sentenza impugnata, giacché detta inammissibilità impedisce la costituzione di un valido rapporto processuale di impugnazione innanzi al giudice di legittimità, e preclude l’apprezzamento di una eventuale causa di estinzione del reato intervenuta successivamente alla decisione impugnata (Sez. un., 22 novembre 2000, n. 32, De Luca, Rv. 217266; conformi, Sez. un., 2/3/2005, n. 23428, Bracale, Rv. 231164, e Sez. un., 28/2/2008, n. 19601, Niccoli, Rv. 239400; in ultimo Sez. 2, n. 28848 del 8.5.2013, Rv. 256463; Sez. 2, n. 53663 del 20/11/2014, Rasizzi Scalora, Rv. 261616). Alla declaratoria di inammissibilità del ricorso consegue, ex art. 616 cod. proc. pen., non potendosi escludere che essa sia ascrivibile a colpa del ricorrente o-l’ (Corte Cost. sentenza 7 – 13 giugno 2000, n. 186), l’onere delle spese del procedimento, nonché del versamento di una somma in favore della Cassa delle Ammende, che si determina equitativamente, in ragione dei motivi dedotti, nella misura di euro 2.000,00.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 2.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.
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