CORTE di CASSAZIONE, sezione penale, ordinanza n. 25227 depositata il 19 maggio 2017
RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza emessa in data 23.02.2015, la Corte d’appello di Roma, in parziale riforma della sentenza del tribunale di Roma del 22.11.2013, dichiarava non doversi procedere nei confronti del R. e del F. in relazione al periodo di imposta 2005, rideterminando la pena in 1 anno di reclusione ciascuno per il residuo reato di cui all’art. 2, d. lgs. n. 74 del 2000, in relazione all’anno di imposta 2007, riconoscendo i doppi benefici di legge.
2. Hanno proposto separati ricorsi per cassazione i due imputati a mezzo dei difensori di fiducia iscritti all’albo ex art. 613 c.p.p., deducendo complessivamente tre motivi, di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione ex art. 173 disp. att. cod. proc. pen.
In particolare, con il ricorso R., la difesa evoca: a) con il primo motivo, il vizio di cui all’art. 606, lett. c) ed e) cod. proc. pen. in relazione all’art. 192 c.p.p. e correlato triplice vizio di motivazione in ordine alla condotta oggettiva e soggettiva contestata al ricorrente (in sintesi, si sostiene che i giudici di merito avrebbero fondato la responsabilità ancorandosi al mero dato documentale rappresentato dalla visura camerale, da cui risultava che il ricorrente era socio al 50% con il coimputato della società oggetto di verifica; si tratterebbe di motivazione apparente in quanto non si sarebbe tenuto conto di quanto affermato dai testi indotti dalla difesa, le cui dichiarazioni sono state ritenute generiche e rese da soggetti interessati in quanto dipendenti; non si sarebbero poi valutate le dichiarazioni rese dai commercialisti DP. e M., che avevano invece escluso che il ricorrente si fosse occupato della gestione societaria e del pagamento dei collaboratori evidenziando come questi non avesse mai avuto la delega di firma sul c/c della società, né rapporti diretti con i predetti professionisti); b) con il secondo motivo, chiede applicarsi ai sensi dell’art. 609, co. 2, c.p.p., in relazione all’art. 2, co. 4 c.p., il novellato art. 13 e l’art. 13 bis, d. lgs. n. 74 del 2000, a seguito delle modifiche introdotte con il d. lgs. n. 158 del 2015 (in sintesi, premesso che la difesa del coimputato F. aveva depositato la prova dell’avvenuto pagamento dell’intero debito tributario, l’attenuante ad effetto speciale prevista dall’originario art. 13 d. lgs. n. 74 del 2000 non era stata riconosciuta, in quanto la prova di tale pagamento era stata data solo dopo l’apertura del dibattimento; per effetto del d. lgs. n. 158 del 2015, a seguito della novella, sono stati modificati sia l’art. 13 che l’art. 13 bis, d. lgs. n. 74 del 2000; in base a quanto affermato con la sentenza delle Sezioni Unite n. 46653/2015, la Cassazione può rilevare d’ufficio l’applicabilità del c.d. favor rei, donde si chiede che la sentenza venga annullata rilevando che, nonostante la prova dell’avvenuto pagamento del debito tributario prima della decisione di primo grado, l’imputato non avrebbe potuto usufruire della richiesta di sospendere per tre mesi prorogabili il giudizio dibattimentale, al fine di estin- guere definitivamente il debito con il pagamento ed usufruire dei benefici previsti dal combinato disposto degli artt. 13 e 13 bis).
In particolare, poi, con il ricorso F., la difesa evoca con l’unico motivo, il vizio di cui all’art. 606, lett. b) ed e) cod. proc. pen. quanto all’affermazione della responsabilità del ricorrente (in sintesi, si censura la sentenza affermando che la stessa si sarebbe appiattita su quella di primo grado, senza tener conto delle doglianze mosse alla sentenza di prime cure con cui si censurava l’illogicità dell’affermazione secondo cui le fatture non presentavano alcun riscontro nelle scritture contabili degli emittenti, perché ciò avrebbe finito per far ricadere “sulle spalle” del ricorrente le conseguenze di condotte illecite altrui; detta illogicità sarebbe altresì confermata dalla stessa adesione acritica alle dichiarazioni del funzionario dell’Agenzia delle Entrate che si era espresso in termini probabilistici sulla natura di fatture per operazioni inesistenti delle fatture in questione, ciò che non sarebbe sufficiente per condannare in sede penale; infine, si censura la svalutazione delle prove a discarico costituite dalle dichiarazioni dei dipendenti, giustificata con l’affermazione del loro interesse a mantenere il posto di lavoro).
CONSIDERATO IN DIRITTO
3. I ricorsi sono inammissibili.
4. Ed invero, dall’esame congiunto delle sentenze di primo grado e di appello (che, com’è noto si integrano reciprocamente: Sez. 3, n. 44418 del 16/07/2013 – dep. 04/11/2013, Argentieri, Rv. 257595), risulta palese anzitutto la manifesta infondatezza del primo motivo di ricorso — comune ad entrambi i ricorrenti e che pertanto si ritiene opportuno trattare congiuntamente -, atteso che la Corte d’appello, seppure sinteticamente ma con percorso argomentativo immune da vizi logici, indica nell’impugnata sentenza le ragioni per le quali ha ritenuto di dover affermare la responsabilità di ambedue i ricorrenti per la violazione tributaria accertata, ragioni che si intendono in questa sede integralmente richiamate per esigenze di economia motivazionale né essendo richiesto a questa Corte di procedere ad una ricognizione e riproposizione delle argomentazioni in fatto sviluppate dalla Corte territoriale a sostegno di quanto sopra, dovendosi la Corte di Cassazione limitare a valutare la congruenza motivazionale e la logicità complessiva dell’apparato argomentativo utilizzato dai giudici di merito e non certo sindacare gli argomenti fattuali utilizzati dai predetti giudici.
5. In particolare, le censure sollevate con il primo motivo (che prestano anche il fianco alla inammissibilità per aspecificità del motivo in quanto non si confrontano con le argomentazioni ineccepibili della Corte d’appello che aveva adeguatamente confutato gli analoghi rilievo mossi nell’atto di appello da parte di ambedue gli imputati: Sez. 4, n. 18826 del 09/02/2012 – dep. 16/05/2012, Pezzo, Rv. 253849), sono manifestamente infondate perché non tengono nemmeno conto della giurisprudenza di questa Corte che consente al giudice di desumere anche indiziariamente la prova della fittizietà delle operazioni sottese alle fatture; le censure difensive appaiono quindi manifestazioni di dissenso rispetto alla ricostruzione fattuale operata dai giudici di merito, non rilevando, quanto al R., la mancata valutazione delle deposizioni dei commercialisti, atteso che dal complesso della motivazione della sentenza sia di primo grado che di appello era evidente il rigetto implicito delle eccezioni difensive quanto alla presunta rilevanza delle loro deposizioni, in ragione della struttura societaria della s.n.c. utilizzatrice delle ff.00.ii. e del ruolo dello stesso R., agente assicurativo ALLIANZ e socio al 50% della s.n.c. che aveva proprio quale oggetto sociale la stipula di contratti assicurativi per conto della RAS, essendo quindi palese l’interesse del ricorrente alle vicende societarie a prescindere dal ruolo gestionale attivo all’interno della società.
6. Quanto, poi, al motivo esclusivo al R. con cui si invoca l’applicazione dell’art. 609, co. 2, c.p.p., trattasi di eccezione del tutto priva di pregio. Ed infatti, se è ben vero che questa Corte si è espressa nel senso di ritenere che la causa di non punibilità contemplata dall’art. 13 del D.Lgs. n. 74 del 2000, come sostituito dall’art. 11 del D.Lgs. n. 158 del 2015, è applicabile ai procedimenti in corso alla data di entrata in vigore del D.Lgs. n. 158 del 2015, anche qualora, alla data predetta, era già stato aperto il dibattimento (Sez. 3, n. 40314 del 30/03/2016 – dep. 28/09/2016, Fregolent, Rv. 267807), è altrettanto vero che – fermo restando quanto si dirà oltre circa la non valutabilità direttamente da parte della Corte di Cassazione dell’applicabilità della predetta causa di non punibilità come della circostanza attenuante di cui all’art. 13-bis, d. lgs. n. 74 del 2000 – l’art. 13, come novellato, non trova applicazione al reato di cui all’art. 2, d. lgs. n. 74 del 2000. Ed infatti, l’art. 13, novellato dal d. lgs. n. 158 del 2015, limita l’applicabilità della causa di non punibilità, da un lato, ai reati di cui agli articoli 10- bis, 10-ter e 10-quater, comma 1, d. lgs. n. 74 del 2001 (comma primo) nonché (comma secondo) ai reati di cui agli articoli 4 e 5, d. lgs. n. 74 del 2000, ponendo condizioni differenziate per l’applicabilità a seconda delle fattispecie. In sostanza, mentre il comma primo, richiede che “prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, i debiti tributari, comprese sanzioni amministrative e interessi, sono stati estinti mediante integrale pagamento degli importi dovuti, anche a seguito delle speciali procedure conciliative e di adesione all’accertamento previste dalle norme tributarie, nonché del ravvedimento operoso”, il comma se- condo richiede invece che “i debiti tributari, comprese sanzioni e interessi, sono stati estinti mediante integrale pagamento degli importi dovuti, a seguito del ravvedimento operoso o della presentazione della dichiarazione omessa entro il termine di presentazione della dichiarazione relativa al periodo d’imposta successivo, sempreché il ravvedimento o la presentazione siano intervenuti prima che l’autore del reato abbia avuto formale conoscenza di accessi, ispezioni, verifiche o dell’inizio di qualunque attività di accertamento amministrativo o di procedimenti penali”. Ne consegue, pertanto, che l’applicabilità della causa di non punibilità non è pre- vista, proprio per il particolare disvalore penale attribuito dal legislatore al reato di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti (art. 2, d. lgs. n. 74 del 2000), del resto nemmeno soggetto a soglie di punibilità, come invece previsto per la maggior parte delle fattispecie penale tributarie.
7. Né, peraltro, trova applicazione l’invocata disposizione dell’art. 13 bis, d. lgs. n. 74 del 2000, in tema di circostanze, che prevede “fuori dai casi di non punibilità”, il riconoscimento di una diminuzione di pena fino alla metà “per i delitti di cui al presente decreto” (dunque, a differenza di quanto previsto dall’art. 13, anche per i reati tributari diversi da quelli per cui si applica la predetta causa di non punibilità) e la non applicazione delle pene accessorie indicate nell’articolo 12 “se, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, i debiti tributari, comprese sanzioni amministrative e interessi, sono stati estinti mediante integrale pagamento degli importi dovuti, anche a seguito delle speciali procedure conciliative e di adesione all’accertamento previste dalle norme tributarie”. Ed infatti, da un lato, non risulta dalla sentenza impugnata – né il ricorrente si è fatto carico di fornire quanto meno l’allegazione documentale per consentire a questa Corte di valutare la richiesta – il presupposto fattuale, ossia l’avvenuta estinzione integrale del debito tributario. In secondo luogo, si noti per completezza, detta allegazione potrebbe tutt’al più avere effetti nei confronti della sola persona del F., trattandosi di circostanza attenuante operante esclusiva- mente nei confronti del soggetto che ha curato l’adempimento del debito tributa- rio, non risultando, né essendo stato sostenuto nel ricorso, che il R. avesse personalmente contribuito all’adempimento del predetto debito. Ed invero, osserva il Collegio l’effetto premiale che discende dal disposto dell’art. 13-bis (in cui è stato traslato il vecchio art. 13, con la sola modifica dell’entità della riduzione di pena e l’aggiunta della clausola di riserva, prevedendo la sospensione del procedimento penale nelle more del pagamento del debito tributario), si configura come: a) una circostanza attenuante speciale, rispetto a quella comune di cui all’art. 62, n. 6, prima parte, c.p.; b) ad effetto speciale (originariamente ad effetto speciale, poi resa ad effetto comune con l’art. 2, comma 36-vicies semel, lett. i), del D.L. 13 agosto 2011, n. 138 conv., con modif., in L. 14 settembre 2011, n. 148, ora riconfigurata ad effetto speciale), in quanto comporta la diminuzione della pena sino alla metà; c) estrinseca, poiché è integrata da un comportamento diverso e temporalmente successivo rispetto a quello caratterizzante il fatto di reato; d) soggetta al bilanciamento ex art. 69 c.p. nel caso di concorso eterogeneo. Ai fini, peraltro, dell’applicazione della stessa in caso di concorso di persone del reato, non può condividersi quanto sembrerebbe desumibile dalla Relazione di accompagnamento al d. lgs. n. 74 del 2000 (pag. 3165), nel senso che la stessa sia oggettiva, con conseguente applicabilità della stessa anche laddove il pagamento venga effettuato da un terzo. Ed invero, partecipando l’attenuante de qua ai caratteri dell’attenuante comune di cui all’art. 62, n. 6 c.p., non possono non valere i rilievi operati dalle Sezioni Unite di questa Corte al proposito, in particolare essendosi affermato che in tema di concorso di persone nel reato, ove un solo con- corrente abbia provveduto all’integrale risarcimento del danno, la relativa circo- stanza attenuante non si estende ai compartecipi, a meno che essi non manifestino una concreta e tempestiva volontà di riparazione del danno (Sez. U, n. 5941 del 22/01/2009 – dep. 11/02/2009, Pagani e altro, Rv. 242215). Come infatti ben osservato dal Supremo Collegio, è canone interpretativo comune delle norme penali che le condotte in esse previste, salvo eccezioni espressamente indicate, debbano essere connotate da volontarietà e che vada osservato e conservato nel con- creto, nel suo profilo assiomatico, il valore della locuzione impiegata legislatore. E quindi il “sono stati estinti mediante integrale pagamento degli importi dovuti”, riferito ai debiti tributari, cui si riferisce il primo comma dell’art. 13-bis, per integrarsi, non può consistere solo nella sussistenza dell’evento, ma deve comprendere una volontà riparatoria. Tanto più che la disposizione in esame si collega alla previsione del successivo art. 14, d. lgs. n. 74 del 2000, che, nel prevedere la possibilità per l’imputato di taluno dei delitti previsti dal medesimo decreto, di “chiedere di essere ammesso a pagare, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, una somma, da lui indicata, a titolo di equa riparazione dell’offesa recata all’interesse pubblico tutelato dalla norma violata”, si riferisce pur sempre ai “debiti indicati nell’articolo 13” (che sono del resto gli stessi di cui all’art. 13-bis, trattandosi pur sempre di “debiti tributari”), ove risultino estinti per prescrizione o per decadenza. Dunque il “sono stati estinti” di cui all’art. 13- bis, d. lgs. n. 74 del 2000 non è locuzione neutra, ma è voce di segno positivo in funzione del grado di disvalore di cui lo specifico reato costituisce espressione, che richiede una volontà riparatoria, nella specie di aver contribuito anche parzialmente all’adempimento del debito tributario (nella specie, riferibile ad una società in nome collettivo in cui i soci rispondono personalmente con il proprio patrimonio delle obbligazioni sociali), circostanza nella specie non emergente dagli atti.
8. Da ultimo, si rileva, poiché l’applicazione dell’art. 609, co. 2, c.p.p. richiede pur sempre che ciò sia compatibile con il sindacato e la cognizione di legittimità, non devono essere richiesti apprezzamenti di fatto a questa Corte, cosa che invece viene richiesta nel motivo di ricorso con cui si chiede di valutare l’applicabilità degli artt. 13 e 13-bis, d. lgs. n. 74 del 2000, donde ne appare evidente anche sotto tale profilo l’inammissibilità. Come affermato autorevolmente dalle Sezioni Unite di questa Corte, infatti, allorché non tutti i motivi di ricorso per cassazione siano inammissibili (e, nella specie, diversamente i motivi sarebbero comunque tutti inammissibili), sono rilevabili di ufficio le questioni inerenti all’applicazione della declaratoria delle cause di non punibilità di cui all’art. 129, comma primo, cod. proc. pen. che non comportino la necessità di accertamenti in fatto o di valutazioni di merito incompatibili con i limiti del giudizio di legittimità (Sez. U, n. 8413 del 20/12/2007 – dep. 26/02/2008, Cassa, Rv. 238467).
9. Segue, a norma dell’articolo 616 c.p.p., la condanna di ciascun ricorrente al pagamento delle spese del procedimento e, non emergendo ragioni di esonero, al pagamento a favore della Cassa delle ammende, a titolo di sanzione pecuniaria, di una somma che si stima equo fissare in euro 2000,00 (duemila/00) ciascuno.
P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di duemila euro ciascuno in favore della Cassa delle ammende.
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