CORTE di CASSAZIONE, sezione penale, ordinanza n. 44293 depositata il 26 settembre 2017
RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza emessa in data 6.10.2016, la Corte d’appello di Firenze, in parziale riforma della sentenza del tribunale di Prato del 23.07.2011, appellata dallo H., dichiarava non doversi procedere nei confronti del medesimo in relazione ai reati di cui ai capi a) e b) della rubrica perché estinti per prescrizione, rideterminando per l’effetto la pena nei confronti del medesimo per il residuo reato di dichiarazione infedele di cui al capo c), relativo al periodo di imposta 2008, commesso in data 23.09.2009, in 2 anni di reclusione.
2. Ha proposto ricorso per cassazione l’imputato a mezzo del difensore di fiducia iscritto nell’Albo speciale ex art. 613 c.p.p., deducendo due motivi, di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione ex art. 173 disp. att. cod. proc. pen.
In particolare si evoca: a) con il primo motivo, il vizio di cui all’art. 606, lett. b), cod. proc. pen. in relazione all’art. 4, d. lgs. n. 74 del 2000, quanto alla sussistenza dell’elemento psicologico del reato (in sintesi, sostiene il ricorrente che la Corte d’appello avrebbe errato nel ritenere sussistente l’elemento soggettivo del dolo generico, non potendo ritenersi in re ipsa per il mero conseguimento della prova dell’elemento materiale; nella specie, si sostiene la mancata ed errata conoscenza dell’onere documentale imposto dall’art. 8, d.p.r. n. 633 del 1972, che implicava una mancata rappresentazione degli elementi costitutivi della fattispecie, trovando dunque applicazione il disposto dell’art. 47, co. 3, c.p., e non invece l’art. 5 c.p.; non rileverebbe sul punto la circostanza che il reo avesse la qualifica di “imprenditore”, sicchè la mancata conoscenza dell’onere documentativo delle transazioni intra ed extra comunitarie avrebbe comportato la conseguenza di non aver contezza di dover sottoporre a tassazione IVA proprio quelle transazioni contestate; il dolo e la relativa prova devono essere estese alla conoscenza della norma tributaria, la cui ignoranza incide sull’elemento psicologico del reato; ciò sarebbe stato affermato anche delle Sezioni Unite di questa Corte con la sentenza n. 37424/2013, e non sarebbe possibile l’applicazione della giurisprudenza sulla teoria della c.d. incorporazione per escludere l’applicabilità dell’art. 47, co. 3, c.p.); b) con il secondo motivo, il vizio di cui all’art. 606, lett. e), cod. proc. pen. sotto il profilo della manifesta illogicità della motivazione in ordine al mancato riconoscimento del beneficio della sospensione condizionale della pena (in sintesi si sostiene che erroneamente la Corte d’appello avrebbe negato il predetto beneficio in base all’assunto della reiterazione delle condotte illecite in più anni, tenuto conto P, degli importi notevoli evasi ed in assenza di nemmeno parziali pagamenti successivi all’evasione d’imposta; diversamente, si afferma, né dopo la prima sentenza né dopo quella d’appello sarebbero emersi elementi idonei a sostenere la prognosi negativa, avendo anzi l’imputato per ben otto anni rispettato sempre la normativa fiscale).
CONSIDERATO IN DIRITTO
3. Il ricorso è inammissibile.
4. Ed invero, dall’esame congiunto delle sentenze di primo grado e di appello (che, com’è noto si integrano reciprocamente: Sez. 3, n. 44418 del 16/07/2013 – dep. 04/11/2013, Argentieri, Rv. 257595), risulta palese la manifesta infondatezza di entrambi i motivi, atteso che la Corte d’appello, pur se sinteticamente ma con percorso argomentativo immune da vizi logici, indica nell’impugnata sentenza le ragioni per le quali ha ritenuto integrata la fattispecie penale in esame e responsabile l’imputato per il reato ascritto, in particolare per quanto concerne la sussistenza degli elementi costitutivi della fattispecie anche sotto il profilo del dolo normativamente richiesto (e giustificato il diniego del beneficio di cui all’art. 163 c.p.), ragioni che si intendono in questa sede integralmente richiamate per esigenze di economia motivazionale né essendo richiesto a questa Corte di procedere ad una ricognizione e riproposizione delle argomentazioni in fatto sviluppate dalla Corte territoriale a sostegno di quanto sopra, dovendosi la Corte di Cassazione limitare a valutare la congruenza motivazionale e la logicità complessiva dell’apparato argomentativo utilizzato dai giudici di merito e non certo sindacare gli argomenti fattuali utilizzati dai predetti giudici.
5. In particolare, la Corte d’appello sul primo motivo, si sofferma a confutare la tesi difensiva evidenziando come l’assenza della documentazione richiesta per provare che le operazioni dichiarate come intracomunitarie non potesse ascriversi a mero caso o a negligenza del ricorrente, anche alla luce del dato fattuale per il quale alcuni clienti “presunti” intracomunitari della società del ricorrente risultarono inesistenti o avevano cessato l’attività o, al tempo dell’operazione, non l’avevano ancora iniziata; ancora, quanto alla contestazione di indebito utilizzo del “plafond”, si rileva come l’assenza assoluta di documenti a fronte di cessioni di considerevole importo per ciascun anno, escluderebbe per la Corte d’appello l’ipotesi di uno smarrimento o di negligenza del ricorrente.
6. Al cospetto di tale apparato argomentativo, le doglianze svolte nel primo motivo, pur apprezzabili nella loro articolazione logico – giuridica, si appalesano tuttavia prive di pregio, prestando il fianco al giudizio di inammissibilità per manifesta infondatezza. Ed infatti, le considerazioni svolte dalla Corte d’appello si mostrano del tutto corrette, oltre che fedelmente ricostruttive delle emergenze fattuali, risultando in maniera implicita, ma chiara, l’esistenza per i giudici territoriali (a prescindere da un’analisi ex professo del punto) del dolo specifico normativamente richiesto dall’art. 4, d. lgs. n. 74 del 2000 per la punibilità dell’agente (v., per la necessità del dolo specifico nel reato de quo: Cass. pen., Sez. III, 9 dicembre 2010, n. 8972, non massimata; Id., Sez. III, 13 novembre 2013, n. 11380, non massimata).
7. Piuttosto, la questione giuridica controversa che il ricorso pone (ossia se la mancata conoscenza della norma tributaria, che è posta alla base della violazione penale contestata di dichiarazione infedele, configuri un errore sul fatto ex art. 47, co. 3, c.p. o un’ignoranza della legge penale rilevante ex art. 5 c.p., alla luce della celeberrima sentenza n. 364 del 1998 della Corte costituzionale) deve essere risolta attraverso una lettura della norma alla luce del disposto dell’art. 15, d. lgs. n. 74 del 2000. Detta disposizione, sotto la rubrica «Violazioni dipendenti da interpretazione delle norme tributarie», recita “1. Al di fuori dei casi in cui la punibilità è esclusa a norma dell’articolo 47, terzo comma, del codice penale, non danno luogo a fatti punibili ai sensi del presente decreto le violazioni di norme tributarie dipendenti da obiettive condizioni di incertezza sulla loro portata e sul loro ambito di applicazione”. L’interpretazione più corretta della predetta disposizione è nel senso che solo “l’obiettiva incertezza” della norma tributaria integrativa del precetto penale rileva, in quanto la ratio di quanto affermato nella iniziale clausola di riserva (“Al di fuori dei casi in cui la punibilità è esclusa a norma dell’articolo 47, terzo comma, del codice penale”) è frutto di una precisa scelta del legislatore, che ha inteso ampliare lo spettro dell’ignoranza inevitabile ex art. 5 c.p., sganciandola dall’elemento soggettivo sottesa all’errata cognizione del precetto stesso. Quanto sopra, del resto, è confermato dall’esistenza dello specifico precedente normativo dell’art. 6, co. 2, d. lgs. n. 472 del 1997, individuato nell’art. 8, d. lgs. n. 546 del 1992 (che, in tema di “Errore sulla norma tributaria”, prevede la non applicabilità delle sanzioni non penali previste dalle leggi tributarie da parte della commissione tributaria “quando la violazione è giustificata da obiettive condizioni di incertezza sulla portata e sull’ambito di applicazione delle disposizioni alle quali si riferisce”), disposizione che è stata interpretata dall’Erario (cfr. Circolare Min. Econ. e Finanze, n. 98/E del 23.04.1996) nel senso che per incertezza oggettiva deve ritenersi quella “non derivante dalle condizioni soggettive del ricorrente”.
Così delimitato il campo applicativo della disposizione di cui all’art. 15 citato, non può non richiamarsi a questo punto il principio affermato dalle Sezioni Unite penali di questa Corte per il quale, a seguito della sentenza 23 marzo 1988 n. 364 della Corte Costituzionale (secondo la quale l’ignoranza della legge penale, se incolpevole a cagione della sua inevitabilità, scusa l’autore dell’illecito), vanno stabiliti i limiti di tale inevitabilità. Per il comune cittadino tale condizione è sussistente, ogni qualvolta egli abbia assolto, con il criterio dell’ordinaria diligenza, al cosiddetto “dovere di informazione”, attraverso l’espletamento di qualsiasi utile accertamento, per conseguire la conoscenza della legislazione vigente in materia. Tale obbligo è particolarmente rigoroso per tutti coloro che svolgono professionalmente una determinata attività, i quali rispondono dell’illecito anche in virtù di una “culpa levis” nello svolgimento dell’indagine giuridica. Per l’affermazione della scusabilità dell’ignoranza, occorre, cioè, che da un comportamento positivo degli organi amministrativi o da un complessivo pacifico orientamento giurisprudenziale, l’agente abbia tratto il convincimento della correttezza dell’interpretazione normativa e, conseguentemente, della liceità del comportamento tenuto (Sez. U, n. 8154 del 10/06/1994 – dep. 18/07/1994, RG. in proc. Calzetta, Rv. 197885).
Del resto, questa stessa Corte ha avuto modo di precisare, proprio in materia tributaria, che il principio secondo il quale l’ignoranza, della legge penale scusa quando si versi in caso di ignoranza inevitabile, affermato dalla Corte costituzionale con sentenza 24 marzo 1988, n. 364, non può non valere – ed a maggior ragione – per ogni difficoltà interpretativa che si presenti per il “comune cittadino” come “inevitabile” (Sez. 3, n. 14657 del 24/09/1990 – dep. 08/11/1990, MONTI, Rv. 185695). Il che comporta, quindi, per l’operatore professionale, l’inoperatività dell’errore scusabile, tanto di diritto quanto di fatto, quando lo stesso cada non solo sulla norma extrapenale integratrice del precetto penale, ma anche sulla norma tributaria (nella specie quella di cui all’art. 8, d.p.r. n. 633 del 1972, riguardante le operazioni di cessione all’esportazione non imponibili), non certo predisposta ai fini della definizione dei reati e quindi non integrante la norma penale di cui all’art. 4, d. lgs. n. 74 del 2000.
8. Alla luce di quanto sopra, deve, pertanto, essere affermato il seguente principio: «L’errore sulla norma fiscale – anche alla luce di quanto affermato dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 37424/2013 – non integra un errore di fatto ai sensi dell’art. 47, co. 3, c.p., ma costituisce un errore sul precetto penale che deve essere valutato in base al principio fissato dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 364 del 1988; ne consegue che, in assenza di obiettive condizioni di incertezza sulla portata e sull’ambito di applicazione della norma tributaria, la relativa violazione da parte dell’agente professionale dovuta alla mancata conoscenza della norma fiscale non determina una “ignoranza inevitabile”».
9. Anche il secondo motivo si appalesa manifestamente infondato. Ed infatti, la Corte d’appello motiva il diniego del beneficio della sospensione condizionale nei termini indicati dalla difesa del ricorrente, escludendo la positiva prognosi in ordine alla futura astensione del medesimo dal reiterare reati. Trattasi di motivazione immune da vizi, essendo già stato affermato da questa Corte che è incensurabile in Cassazione il giudizio negativo espresso dal giudice di merito ai fini della concessione del beneficio della sospensione condizionale della pena, sulla presunzione di un possibile ravvedimento dell’imputato (Sez. 3, n. 3471 del 26/02/1985 – dep. 13/04/1985, CARACAUSI, Rv. 168687).
10. Alla dichiarazione di inammissibilità del ricorso segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonché, in mancanza di elementi atti ad escludere la colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, al versamento della somma, ritenuta adeguata, di Euro 2.000,00 in favore della Cassa delle ammende.
P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento della somma di duemila euro alla Cassa delle ammende
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