CORTE DI CASSAZIONE, sezione penale, Sentenza 22 novembre 2017, n. 53146

Sanzioni – Reato tributario commesso dal legale rappresentante – Legittimità del sequestro preventivo finalizzato alla confisca diretta del profitto rimasto nella disponibilità di una persona giuridica -Estraneità dell’ente al reato – Non sussiste

Ritenuto in fatto

1. Con ordinanza del 28 febbraio 2017 il Tribunale di Brescia, in funzione di Giudice del riesame, accoglieva parzialmente la richiesta di riesame proposta nei confronti del decreto di sequestro preventivo, anche per equivalente, emesso il 30 gennaio 2017 dal Giudice per le indagini preliminari del medesimo Tribunale.

Il provvedimento riesaminato era stato formulato in odio tra l’altro a D.B. anche quale legale rappresentante della s.r.l. B. R.E., per il reato di cui all’art. 2 d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74 e fino a concorrenza della somma di euro 387.382,23.

In proposito la misura cautelare era infatti annullata limitatamente alla parte in cui aveva posto il vincolo sui beni immobili registrati intestati alla società; era stato rigettato invece il ricorso del B., nei cui confronti era già stato disposto il sequestro per equivalente in caso di incapienza patrimoniale della società, ed invece era stato accolto integralmente il riesame di G.B., socio della stessa società ed indicato come amministratore di fatto della medesima.

2. Avverso il predetto provvedimento i soggetti ancora interessati hanno proposto ricorso per cassazione con tre articolati motivi d’impugnazione.

2.1. Col primo motivo è stato rilevato che, contrariamente a quanto indicato nel testo dell’ordinanza impugnata, era stato eseguito sequestro anche nei riguardi dei conti personali riferibili allo stesso B., nonché dell’autovettura del medesimo.

2.2. Col secondo motivo è stato dedotto che il valore dei beni immobili della società era tale da soddisfare le esigenze addotte, per cui semmai il vincolo avrebbe dovuto essere mantenuto su detti cespiti, come da richiesta formulata in via subordinata, attesa la necessità della società di operare tramite i rapporti bancari esistenti, tanto più che in ogni caso faceva difetto la prova di un nesso di diretta derivazione dei beni dal profitto illecito.

2.3. Col terzo motivo è stata invece rivendicata la buona fede della società circa l’esecuzione di pagamenti in favore della T.G. Costruzioni, invece definita “scatola vuota” dal Tribunale bresciano, tant’è che addirittura alcuni pagamenti furono eseguiti in favore della curatela fallimentare di quest’ultima su accordo autorizzato dal Giudice delegato, mentre l’avvenuta costruzione degli immobili dava conto dell’avvenuta effettiva fornitura dei materiali.

3. Il Procuratore generale ha concluso nel senso dell’inammissibilità del ricorso, assumendo da un lato il difetto di specifica nomina ovvero di procura speciale da parte della società al proprio difensore e, dall’altro, l’assenza di rilievo ictu oculi della pretesa buona fede del B. circa l’inesistenza soggettiva delle fatture emesse dalla società T..

Considerato in diritto

4. I ricorsi, i cui motivi possono essere esaminati congiuntamente, sono inammissibili.

4.1. Va invero osservato che il Procuratore generale ha altresì evocato il principio per il quale il difensore dell’indagato, che sia anche legale rappresentante della società titolare dei beni sottoposti a sequestro preventivo, non è legittimato a proporre richiesta di riesame avverso il provvedimento applicativo della misura cautelare per conto della persona giuridica, qualora il proprio assistito non gli abbia all’uopo preventivamente conferito apposita procura speciale (Sez. 5, n. 9435 del 10/11/2011, dep. 2012, Pambianchi, Rv. 251997).

4.2. In ogni caso, anche a prescindere dal rilievo formale, la Corte territoriale ha operato corretto riferimento ai principi fissati da questa Corte, secondo cui, in tema di reati tributari commessi dal legale rappresentante di una persona giuridica, il sequestro preventivo funzionale alla confisca per equivalente prevista dagli artt. 1, comma 143, della I. n. 244 del 2007, ora art. 12-bis legge 74/00, e 322-ter cod. pen. non può essere disposto sui beni dell’ente, ad eccezione del caso in cui questo sia privo di autonomia e rappresenti solo uno schermo attraverso il quale il reo agisca come effettivo titolare dei beni (Sez. U, n. 10561 del 30/01/2014, Gubert, Rv. 258646; Sez. 3, n. 18311 del 06/03/2014, danni, Rv. 259102).

Allo stesso tempo, questa Corte di legittimità ha già ritenuto che è legittimo il sequestro preventivo finalizzato alla confisca diretta del profitto rimasto nella disponibilità di una persona giuridica, derivante dal reato tributario commesso dal suo legale rappresentante, non potendo considerarsi l’ente una persona estranea al detto reato (Sez. U, n. 10561 del 30/01/2014, Gubert, Rv. 258647).

4.3. Ciò posto, la confisca diretta (o confisca di proprietà), prevista dall’art. 240 cod. pen. come misura facoltativa e resa obbligatoria per alcuni reati dall’art. 322-ter cod. pen., ha per oggetto il profitto del reato, vale a dire l’utilità economica direttamente o indirettamente conseguita con la commissione del reato. La confisca per equivalente (o confisca di valore), invece, ha per oggetto somme di denaro, beni o altre utilità di cui il reo ha la disponibilità per un valore corrispondente al profitto del reato ed è destinata ad operare nei casi in cui la confisca diretta non sia possibile. Nella nozione di profitto che consente la confisca diretta non rientrano solo i beni appresi per effetto diretto e immediato dell’illecito, ma anche ogni altra utilità comunque ottenuta dal reato, anche in via indiretta o mediata (ad esempio i beni acquistati con il denaro ricavato dall’attività illecita oppure l’utile derivante dall’investimento del denaro di provenienza criminosa).

Ne consegue che la confisca diretta del profitto di reato è possibile anche nei confronti di una persona giuridica per le violazioni fiscali commesse dal legale rappresentante o da altro organo della persona giuridica nell’interesse della società, quando il profitto o i beni direttamente riconducibili a tale profitto siano rimasti nella disponibilità della persona giuridica medesima. Si deve, invece, escludere la possibilità di procedere a confisca per equivalente di beni della persona giuridica per reati tributari commessi dal legale rappresentante, salva l’ipotesi in cui la persona giuridica stessa sia in concreto priva di autonomia e rappresenti solo uno schermo attraverso cui l’amministratore agisce come effettivo titolare.

Al riguardo, è stato così osservato che, qualora il prezzo o il profitto derivante dal reato sia costituito da denaro, la confisca delle somme di cui il soggetto abbia comunque la disponibilità deve essere qualificata come confisca diretta; in tal caso, tenuto conto della particolare natura del bene, non occorre la prova del nesso di derivazione diretta tra la somma materialmente oggetto della confisca e il reato (Sez. U, n. 31617 del 26/06/2015, Lucci, Rv. 264437). Ove il profitto o il prezzo del reato sia rappresentato da una somma di denaro, questa non soltanto si confonde automaticamente con le altre disponibilità economiche dell’autore del fatto, ma perde – per il fatto stesso di essere ormai divenuta una appartenenza del reo – qualsiasi connotato di autonomia quanto alla relativa identificabilità fisica.

Sul piano del diritto positivo, invero, non vi è alcuna disposizione che consenta di disporre la confisca per equivalente di beni appartenenti a una persona giuridica nel caso di violazioni tributarie commesse dal legale rappresentante e, stante il «carattere eminentemente sanzionatorio della confisca per equivalente, le norme che la prevedono non possono essere applicate oltre ai casi espressamente considerati, a ciò ostando il divieto di applicazione analogica in malam partem vigente nella materia penale.

Quanto al profitto, confiscabile anche nella forma per equivalente, esso è costituito da qualsivoglia vantaggio patrimoniale direttamente conseguito alla consumazione del reato e può, dunque, consistere anche in un risparmio di spesa, come quello derivante dal mancato pagamento del tributo, interessi, sanzioni dovuti a seguito dell’accertamento del debito tributario (Sez. U, n. 18374 del 31/01/2013, Adami, Rv. 255036; Sez. 3, n. 11836 del 04/07/2012, Bardazzi, Rv. 254737; Sez. 5, n. 1843 del 10/11/2011, Mazzieri, Rv. 253480; più in generale, sulla riconducibilità al profitto del “risparmio di spesa”, cfr. altresì, Sez. U, n. 38343, n. 24/04/2014, Espenhahn, Rv. 261117). Anche il bene acquisito in modo diretto con il reinvestimento delle somme non versate all’Erario va ascritto alla categoria del “profitto” del reato (su tutti gli aspetti che precedono, cfr. Sez. 3, n. 20763 del 22/03/2016, Ciatti, non mass.).

4.4. In specie comunque, quanto al fumus, il provvedimento impugnato dà correttamente conto che dalla stessa difesa viene in qualche modo ammesso che l’annotazione nella contabilità di B. R.E. delle fatture provenienti da T.G. Costruzioni, definita “scatola vuota”, rappresenti quantomeno sotto il profilo oggettivo (v. anche infra) il reato di cui all’art. 2 cit., atteso che era pacifico che gli accordi commerciali erano invece intervenuti con altra società, invece operativa, del medesimo gruppo societario (tale s.r.l. G. P.K.).

Al riguardo, in tema di reati tributari, ai fini della prova del reato di dichiarazione infedele (e, a maggiore ragione, nei casi di dichiarazioni fraudolente), il giudice può fare legittimamente ricorso agli accertamenti condotti dalla Guardia di Finanza o dall’ufficio finanziario, anche ai fini della determinazione dell’ammontare dell’imposta evasa, pur dovendo il proprio esame estendersi a valutare ogni altro eventuale indizio acquisito (così, in motivazione, Sez. 3, n. 2006 del 02/10/2014, dep. 2015, Scatena, Rv. 261928).

Per completezza, va infine ricordato che mentre, con riguardo alle imposte dirette, l’effettiva esistenza dell’operazione e del conseguente esborso economico, corrispondente a quanto dichiarato, esclude il carattere fittizio degli elementi passivi indicati nella dichiarazione, a nulla rilevando in linea di massima che il destinatario degli stessi sia un soggetto diverso da quello reale, con riguardo invece all’Iva la detrazione è ammessa solo in presenza di fatture provenienti dal soggetto che ha effettuato la prestazione, giacché tutto il sistema del pagamento e del recupero della imposta (artt. 17 e 18 del d.P.R. n. 633 del 1972) si basa sul presupposto che la stessa sia versata a chi ha effettuato prestazioni imponibili mentre il versamento dell’imposta ad un soggetto non operativo o diverso da quello effettivo consentirebbe un recupero indebito dell’Iva stessa (cfr. Sez. 3, n. 37562 del 04/07/2013, Paregiani e altri, non massimata). Di qui, dunque, la conseguenza che l’evasione Iva può essere configurata anche in presenza di costi effettivamente sostenuti.

Nel caso di specie, pertanto, la soglia del quadro indiziario richiesta per l’adozione della misura cautelare reale, visti i richiami altresì operati alla comunicazione di notizia di reato ed in considerazione delle sostanziali ammissioni ricordate, risulta essere stata ampiamente conseguita.

4.5. Alla stregua dei complessivi rilievi che precedono, quindi, ed anche al di là del profilo formale sollevato dalla Procura generale, il sequestro preventivo non poteva non essere comunque contenuto nell’ambito dei valori mobiliari di immediata disponibilità, non potendo attribuirsi rilievo alla dichiarate richieste della difesa circa la disponibilità a sottoporre a vincolo i cespiti immobiliari sociali.

Del pari, come è stato in parte ricordato anche dal provvedimento impugnato circa il rilievo delle evidenze oggettive, in sede di riesame dei provvedimenti che dispongono misure cautelari reali il giudice, benché gli sia precluso l’accertamento del merito dell’azione penale ed il sindacato sulla concreta fondatezza dell’accusa, deve operare il controllo, non meramente cartolare, sulla base fattuale nel singolo caso concreto, secondo il parametro del fumus del reato ipotizzato, con riferimento anche all’eventuale difetto dell’elemento soggettivo, purché di immediato rilievo (Sez. 6, n. 16153 del 06/02/2014, Di Salvo, Rv. 259337).

In specie siffatto immediato rilievo, proprio alla luce delle sostanziali ammissioni cui si è fatto riferimento, è all’evidenza assente. Ne consegue l’irrilevanza dei profili di censura direttamente riferibili alla persona fisica del soggetto indagato, anche a prescindere da ogni questione circa l’esecuzione del sequestro preventivo, disposto nel caso dell’eventuale accertata incapienza nei termini che precedono ed in ragione, tra l’altro, della mancata formale conoscenza dell’entità dei valori mobiliari sequestrati in odio alla società.

5. Alla stregua delle osservazioni che precedono, quindi, i motivi di censura complessivamente formulati non superano il vaglio di ammissibilità, stante la loro manifesta infondatezza.

Tenuto infine conto della sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che «la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità», alla declaratoria dell’inammissibilità medesima consegue, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen. ed a carico di ciascun ricorrente, l’onere delle spese del procedimento nonché quello del versamento della somma, in favore della Cassa delle ammende, equitativamente fissata in € 2.000,00.

P.Q.M.

Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna ciascun ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di € 2.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.