CORTE di CASSAZIONE, sezione penale, sentenza n. 15234 del 20 giugno 2017
RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza del 2/7/2012, la Corte di appello di Genova, in parziale riforma della pronuncia emessa l’8/3/2011 dal Tribunale di Massa, riduceva ad otto mesi di reclusione la pena inflitta a N. A. C. , confermandola nel resto; allo stesso – quale legale rappresentante della “T. Scavi s.r.l.” – era contestato il delitto di cui all’art. 10-ter, d. lgs. 10 marzo 2000, n. 74, per aver omesso il versamento dell’i.v.a., alle scadenze dovute, per gli anni di imposta 2005 e 2006.
2. Propone ricorso per cassazione il C. , a mezzo del proprio difensore, deducendo i seguenti motivi:
– violazione dell’art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen.. La sentenza avrebbe errato nel ritenere sussistente il dolo del delitto, invero escluso dallo stato di decozione in cui versava da tempo la società, tale da rendere impossibile il pagamento delle somme dovute; al riguardo, peraltro, non avrebbe rilievo la data della dichiarazione di fallimento, richiamata dalla Corte di appello, atteso che questa pronuncia costituirebbe soltanto la conclusione di un “iter degenerativo” sviluppatosi per lungo tempo;
– erronea applicazione dell’art. 10-ter in esame in relazione agli artt. 3, 25 e 27 Cost.. Ammettere l’operatività della norma anche con riguardo al versamento i.v.a. per l’anno 2005 risulterebbe in palese contrasto con i citati precetti costituzionali, atteso che la stessa previsione normativa è stata introdotta soltanto a metà del 2006; con evidenti ricadute in punto di elemento soggettivo del reato, invero da escludere;
– erronea applicazione dell’art. 10-ter in oggetto anche in ordine agli artt. 5 e 47 cod. pen.. Proprio in ragione di quanto appena dedotto, emergerebbe un’obiettiva condizione di incertezza circa la portata e l’ambito di applicazione delle violazioni contestate; specie con riguardo ad un contesto nel quale il precetto delittuoso sarebbe entrato in vigore quando la condotta materiale, divenuta in itinere passibile di sanzione penale, era già stata posta in essere.
Con memoria pervenuta il 1°/2/2017, il difensore ha chiesto anche applicarsi la causa di non punibilità di cui all’art. 131-bis cod. pen., ricorrendone i presupposti.
CONSIDERATO IN DIRITTO
3. Il ricorso risulta fondato quanto all’ultima doglianza; la sentenza, peraltro, come si vedrà oltre, deve esser annullata senza rinvio quanto al capo b) della rubrica perché il fatto non sussiste. Con riguardo, innanzitutto, alla seconda censura, da trattare per logica in via prioritaria, osserva il Collegio che, successivamente alla pronuncia della sentenza impugnata (ma ben prima della proposizione del presente ricorso), la medesima questione è stata decisa dalle Sezioni Unite di questa Corte (n. 37424 del 28/3/2013, Romano, Rv. 255758), che hanno affermato il principio di diritto per cui il delitto di cui all’art. 10-ter in esame, entrato in vigore il 4 luglio 2006, è applicabile anche alle omissioni dei versamenti relativi all’anno 2005, senza che ciò comporti violazione del principio di irretroattività della norma penale.
In particolare – e rinviando al testo integrale della sentenza, che si evidenzia per il carattere estremamente analitico ed argomentato – il Supremo Collegio ha rilevato che «se è vero che, al momento della scadenza del “termine fiscale” per il versamento periodico dei debiti IVA relativi all’anno 2005, il reato in discussione non era ancora stato introdotto – essendo l’entrata in vigore dell’art. 10-ter d.lgs 10 marzo 2000, n. 74, posteriore a detta scadenza -, è altrettanto vero, però, che la condotta penalmente rilevante non è l’omissione del versamento periodico nel termine previsto dalla normativa tributaria, ma il mancato versamento dell’IVA dovuta in base alla dichiarazione annuale nel maggiore termine stabilito per il versamento dell’acconto IVA relativo al periodo d’imposta dell’anno successivo.
Pertanto, il soggetto che aveva omesso i versamenti periodici per il 2005 nel termine previsto dalla normativa tributaria (e che vi aveva persistito nel primo semestre 2006) avrebbe avuto ancora, fino al 27 dicembre 2006, la possibilità di assumere le proprie determinazioni in ordine all’effettuazione di un versamento dei debiti che, in relazione al quantum risultante dalla dichiarazione annuale da lui stesso presentata, mantenesse l’omissione non oltre la soglia dei cinquantamila euro. La risoluzione di non provvedere a tanto, che dà luogo alla commissione del reato, si colloca, dunque, in un’epoca ampiamente successiva alla introduzione della nuova fattispecie incriminatrice, alla quale non può, pertanto, attribuirsi un effetto retroattivo. Consegue da tanto la manifesta infondatezza della questione (prospettata nel ricorso) di legittimità costituzionale dell’art. 10-bis in riferimento all’art. 25, comma secondo, della Costituzione.
Una conferma implicita di tale assunto sembra potersi trarre dalla ordinanza n. 25 del 2012, con cui la Corte costituzionale (reiterando in sostanza quanto già affermato con ordinanza n. 224 del 2011) ha dichiarato manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale, sollevata in riferimento all’art. 3 della Costituzione, dell’art. 10-ter del decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74, limitatamente alle omissioni relative all’anno 2005, rilevando che la circostanza che il debitore di IVA per l’anno 2005 venga a disporre, al fine di eseguire il versamento – o, meglio, per decidere se effettuarlo o meno con la consapevolezza che la sua omissione avrà conseguenze penali (essendo il pagamento doveroso, in base alla normativa tributaria, già prima e indipendentemente dall’introduzione della nuova incriminazione) -, di un termine minore di quello accordato ai contribuenti per gli anni successivi, non può ritenersi, di per sé, lesiva del parametro costituzionale evocato, in quanto il termine di oltre cinque mesi e mezzo riconosciuto al soggetto in questione non può ritenersi intrinsecamente incongruo, ossia talmente breve da pregiudicare o da rappresentare, di per sé, un serio ostacolo all’adempimento.
L’orientamento qui confutato richiama a proprio favore anche il principio di colpevolezza di cui all’art. 27 della Costituzione, in forza del quale, com’è noto, tutte le volte in cui entra in gioco il dovere d’osservare le leggi penali, la sua violazione, implicita nella commissione del fatto di reato, non può certamente divenire rilevante, e dar luogo alla pena, in caso di impossibilità di conoscenza del precetto (e, pertanto, dell’illiceità del fatto) non ascrivibile alla volontà dell’interessato (Corte cost., sent. n. 364 del 1988). Quanto detto in ordine allo spazio di condotta virtuosa consentito al soggetto dall’entrata in vigore dell’art. 10-ter fino alla scadenza del termine per il versamento dell’acconto relativo al periodo d’imposta dell’anno successivo porta 24 senz’altro a escludere che dal principio di colpevolezza possa discendere un rilievo ostativo assoluto all’applicabilità della nuova norma penale alle omissioni di versamento relative ai debiti IVA del 2005.
Piuttosto, in relazione alle singole fattispecie concrete, possono venire in rilievo elementi tali da condurre, anche per questioni collegate al divario temporale fra la maturazione del debito IVA e l’introduzione della norma penale, all’esclusione dell’elemento soggettivo del reato. Ciò in particolare potrebbe verificarsi nel caso in cui l’omissione del versamento nella misura prevista al momento della scadenza del termine allungato rinviene la sua ragione esclusiva e non più ovviabile in un comportamento colpevole interamente posto in essere “prima” dell’introduzione della norma penale, quando le conoscibili e prevedibili conseguenze di esso consistevano solo in una sanzione amministrativa».
4. Ipotesi – quest’ultima – non ravvisabile nel caso di specie, nel quale l’elemento soggettivo del reato (di cui al primo motivo di gravame) è stato invero riconosciuto con una motivazione congrua e non manifestamente illogica; come tale, dunque, non censurabile in questa sede. In particolare, la Corte di appello ha affermato che la denunciata impossibilità di adempiere non risultava invero provata, «posto che a sostegno del motivo si deduce il fallimento dichiarato nel 2010, vale a dire molti anni dopo la violazione qui sanzionata».
5. E senza che, peraltro, possano esser esaminate le ulteriori considerazioni di cui al ricorso, in punto di cronologia del dissesto della “T. Scavi”, poiché attinenti a profili meramente fattuali e concreti della vicenda, già approfonditi in sede di merito e la cui verifica è preclusa a questa Corte. Al riguardo, infatti, occorre innanzitutto ribadire che il controllo del Giudice di legittimità sui vizi della motivazione attiene alla coerenza strutturale della decisione di cui si saggia l’oggettiva tenuta sotto il profilo logico-argomentativo, restando preclusa la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione e l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti (tra le varie, Sez. 6, n. 47204 del 7/10/2015, Musso, Rv. 265482; Sez. 3, n. 12110 del 19/3/2009, Campanella, n. 12110, Rv. 243247). Si richiama, sul punto, il costante indirizzo di questa Corte in forza del quale l’illogicità della motivazione, censurabile a norma dell’art. 606, comma 1, lett e), cod. proc. pen., è soltanto quella evidente, cioè di spessore tale da risultare percepibile ictu ocu/i; ciò in quanto l’indagine di legittimità sul discorso giustificativo della decisione ha un orizzonte circoscritto, dovendo il sindacato demandato alla Corte di cassazione limitarsi, per espressa volontà del legislatore, a riscontrare l’esistenza di un logico apparato argomentativo (Sez. U., n. 47289 del 24/9/2003, Petrella, Rv. 226074). Le doglianze in punto di responsabilità, pertanto, debbono esser rigettate.
6. Fondata, per contro, risulta poi l’ultima questione, con la quale si invoca l’applicazione della causa di non punibilità di cui all’art. 131-bis cod. pen. (Esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto); questione che il ricorrente ha potuto proporre soltanto in questa sede, atteso che il gravame era stato depositato prima che entrasse in vigore la I. 16 marzo 2015, n. 28, che ha introdotto l’istituto (a mente del quale, “nei reati per i quali è prevista la pena detentiva non superiore nel massimo a cinque anni, ovvero la pena pecuniaria, sola o congiunta alla predetta pena, la punibilità è esclusa quando, per le modalità della condotta e per l’esiguità del danno o del pericolo, valutate ai sensi dell’articolo 133, primo comma, l’offesa è di particolare tenuità e il comportamento risulta non abituale”; ai sensi del comma 2, poi, “l’offesa non può essere ritenuta di particolare tenuità, ai sensi del primo comma, quando l’autore ha agito per motivi abietti o futili, o con crudeltà, anche in danno di animali, o ha adoperato sevizie o, ancora, ha profittato delle condizioni di minorata difesa della vittima, anche in riferimento all’età della stessa ovvero quando la condotta ha cagionato o da essa sono derivate, quali conseguenze non volute, la morte o le lesioni gravissime di una persona”.
A mente del comma 3, invece, “il comportamento è abituale nel caso in cui l’autore sia stato dichiarato delinquente abituale, professionale o per tendenza ovvero abbia commesso più reati della stessa indole, anche se ciascun fatto, isolatamente considerato, sia di particolare tenuità, nonché nel caso in cui si tratti di reati che abbiano ad oggetto condotte plurime, abituali e reiterate”). Al riguardo, occorre premettere che, nelle more della discussione del gravame, è stato emanato anche il d. lgs. 24 settembre 2015, n. 158 (Revisione del sistema sanzionatorio, in attuazione dell’articolo 8, comma 1, l. 11 marzo 2014, n. 23), in vigore dal 22 ottobre 2015, che – all’art. 8 – ha modificato l’art. 10-ter in contestazione sostituendolo con il seguente: “E’ punito con la reclusione da sei mesi a due anni chiunque non versa, entro il termine per il versamento dell’acconto relativo al periodo d’imposta successivo, l’imposta sul valore 5 ft aggiunto dovuta in base alla dichiarazione annuale, per un ammontare superiore a euro duecentocinquantamila per ciascun periodo d’imposta”.
Ne consegue che l’omissione contestata al C. nel capo a) – pari a 258.531,00 euro – risulta superiore alla soglia di punibilità oggi vigente, nella misura di 8.531,00 euro.
Orbene, tutto ciò premesso, ritiene la Corte che la medesima condotta debba esser nuovamente sottoposta all’esame del Collegio di merito, sia pur nella esclusiva e limitata ottica dell’applicabilità dell’art. 131-bis in esame; al riguardo, infatti, costituisce condiviso indirizzo quello per cui, in tema di omesso versamento dell’IVA, la causa di non punibilità della particolare tenuità del fatto, prevista dall’art. 131-bis cod. pen., è applicabile soltanto alla omissione per un ammontare vicinissimo alla soglia di punibilità, fissata a 250.000 euro dall’art. 10-ter d. lgs. n. 74 del 2000, in considerazione del fatto che il grado di offensività che dà luogo a reato è già stato valutato dal legislatore nella determinazione della soglia di rilevanza penale (Sez. 3, n. 13218 del 20/11/2015, Reggiani Viani, Rv.266570; Sez. 3, n. 40774 del 5/5/2015, Falconieri, Rv. 265079).
Verifica, questa in esame, che costituisce accertamento di puro merito, sottratto al giudizio di questa Corte, come peraltro evidenziato dall’esplicito richiamato all’art. 133, comma 1, cod. pen. in punto di valutazione delle modalità della condotta o dell’esiguità del danno o del pericolo; verifica, pertanto, che dovrà esser compiuta dal Collegio di appello in sede di rinvio.
7. Diversamente, invece, si conclude quanto alla medesima contestazione di cui al capo b) della rubrica, il cui ammontare – pari a 118.443,00 euro – risulta inferiore alla soglia di punibilità oggi vigente; sì da imporsi l’annullamento della sentenza senza rinvio, per insussistenza del fatto, con eliminazione della relativa pena di quaranta giorni di reclusione. Formula, peraltro, da preferirsi a quella “perché il fatto non è previsto dalla legge come reato”.
Ed invero, quest’ultima va adottata là dove il fatto non corrisponda ad una fattispecie incriminatrice in ragione o di un’assenza di previsione normativa o di una successiva abrogazione della norma o di un’intervenuta dichiarazione d’incostituzionalità (integrale e non parziale, come nel caso di specie), permanendo in tutti tali casi la possibile rilevanza del fatto in sede civile; la formula “il fatto non sussiste”, che esclude ogni possibile rilevanza anche in sede diversa da quella penale, va invece adottata quando difetti un elemento costitutivo del reato, come nel caso in esame (v., sul punto: Sez. 3, n. 13810 del 12/02/2008, Diop, Rv. 239949).
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata senza rinvio relativamente al reato di cui al capo b) della rubrica perché il fatto non sussiste, ed elimina la relativa pena di quaranta giorni di reclusione e con rinvio ad altra sezione della Corte di appello
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