CORTE di CASSAZIONE, sezione penale, sentenza n. 31265 depositata il 22 giugno 2017
RITENUTO IN FATTO
1. Il Procuratore Generale presso la Corte di appello di Venezia ricorre per cassazione avverso la sentenza in epigrafe, con la quale il Tribunale di Padova dichiarava non doversi procedere nei confronti di S. C. per il reato di cui all’art. 2 del D. Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, commesso nella qualità di legale rappresentante della società “S.B. Plastics Machinery S.n.c.”, perché estinto per intervenuta prescrizione.
2. Con un primo motivo di ricorso, il PG deduce la mancanza di motivazione della sentenza impugnata. Il Tribunale padovano ha dichiarato estinto il reato sul presupposto che il termine massimo di prescrizione per la fattispecie contestata sia quello di anni sette e mesi sei, decorrenti dalla data di consumazione del fatto: termine, che in relazione ad illecito consumato il 23 settembre 2008, il Tribunale patavino ha dunque ritenuto spirato in data 23 marzo 2016.
Nell’effettuare tale giudizio, ad avviso del PG ricorrente la sentenza non si sarebbe in alcun modo confrontata con l’indirizzo giurisprudenziale espresso nella sentenza di questa Corte n. 2210 del 17.9.2015, Pennacchini, secondo cui, in materia di reati tributari, nelle ipotesi consistenti in condotte fraudolente che comportino, in concreto, l’evasione in misura “grave” di tributi IVA devono essere disapplicate – in quanto in contrasto con gli obblighi comunitari imposti agli Stati membri dall’art. 325, paragrafi 1 e 2, del TFUE, in considerazione di quanto affermato nella sentenza della Corte di giustizia, Grande Sezione, 8 settembre 2015, C-105/14, Taricco – le disposizioni in materia di prescrizione di cui agli artt. 160, terzo comma, ultima parte, e 161, comma secondo, cod. pen., trovando invece applicazione, in tali casi, la più rigorosa disciplina già prevista nell’ordinamento per i delitti di cui all’art. 51, comma 3-bis e 3-quater, cod. proc. pen., secondo cui il termine ordinario di prescrizione ricomincia a decorrere dopo ogni atto interruttivo.
Pur nella consapevolezza che si tratta di un approdo interpretativo non incontroverso, prospettandosi soluzioni alternative contrapposte alla disapplicazione, il PG ricorrente lamenta che il Tribunale abbia sostanzialmente omesso di prendere in considerazione la problematica, limitandosi ad applicare l’istituto della prescrizione prolungata, con aumento solo di un quarto del termine ordinario, in una ipotesi di violazione fiscale – quale quella contestata allo S. – certamente lesiva degli interessi finanziari dell’Unione Europea; con ciò denotando la sentenza un evidente carenza dei requisiti minimi di esistenza, completezza e logicità del discorso argomentativo.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è ammissibile ma infondato.
2. Quanto ai profili di ammissibilità, la Corte rileva che, al di là della formale qualificazione del motivo, non v’è alcun dubbio che la questione devoluta riguarda la erronea applicazione degli artt. 160 e 161, cod. pen. al reato di cui all’art.2, d.lgs. n. 74 del 2000. Il ricorso, pertanto, è ammissibile ai sensi dell’art. 569, cod. proc. pen. (sul fatto che la Corte di cassazione, in caso di ricorso cd. “per saltum”, possa e debba interpretare la volontà della parte, cfr. Sez. 4, n. 4264 del 05/04/1996, Lucifora, Rv. 204447; Sez. 2, n. 5786 del 26/11/2002, Lombardi, Rv. 223164; Sez. 2, n. 1848 del 17/12/2013, Di Rubba, Rv. 258193).
3. Il PG si duole che il Tribunale padovano, nel dichiarare l’estinzione del reato di frode fiscale di cui all’art. 2 d. Igs n. 74 del 2000, abbia totalmente omesso di prendere in considerazione l’approdo raggiunto dalla Corte di Cassazione con la sentenza resa da questa sezione con n. 2210 del 17/09/2015, imp. Pennacchini (Rv. 266121), secondo la quale, in materia di reati tributari, nelle ipotesi consistenti in condotte fraudolente che comportino, in concreto, l’evasione in misura “grave” di tributi IVA devono essere disapplicate – in quanto in contrasto con gli obblighi comunitari imposti agli Stati membri dall’art. 325, paragrafi 1 e 2, del TFUE, in considerazione di quanto affermato nella sentenza della Corte di giustizia, Grande Sezione, 8 settembre 2015, C-105/14, Taricco – le disposizioni in materia di prescrizione di cui agli artt. 160, terzo comma, ultima parte, e 161, comma secondo, cod. pen., trovando invece applicazione, in tali casi, la più rigorosa disciplina già prevista nell’ordinamento per i delitti di cui all’art. 51, comma 3-bis e 3- quater, cod. proc. pen., secondo cui il termine ordinario di prescrizione ricomincia a decorrere dopo ogni atto interruttivo.
Come è noto, infatti, con la sentenza Taricco la Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha dichiarato che la normativa Italiana in materia di prescrizione, come risultante dal combinato disposto degli articoli 160, ultimo comma e 161 c.p. (ossia nella parte in cui determina, anche per frodi gravi in materia di IVA, un’interruzione del termine di prescrizione non superiore ad un quarto della sua durata iniziale), è idonea a pregiudicare gli obblighi imposti agli Stati membri dall’art. 325, paragrafi 1 e 2 TFUE, dal momento che impedisce di infliggere sanzioni effettive e dissuasive in un numero considerevole di casi di frode grave che ledono gli interessi finanziari dell’Unione Europea.
Per l’effetto, in ossequio al principio del primato del diritto dell’Unione, ha ordinato che il giudice nazionale dia piena efficacia alle norme del Trattato, se necessario disapplicando le disposizioni nazionali che con queste si pongano in contrasto, ordine di disapplicazione cui la Corte di Cassazione ha, con la sentenza Pennacchini, sostanzialmente aderito.
La questione può dirsi peraltro tutt’altro che consolidata, attesa anche la decisione della Corte d’Appello di Milano (App. Milano, Sez. II, 18 settembre 2015, De Bortoli + altri) che – ravvisando un contrasto tra l’art. 2 della legge 123/2008 (esecutiva del TFUE in Italia) e l’art. 25, comma 2 Cost., proprio nella parte in cui si risolve nell’imporre la prevalenza dei Trattati su una norma penale interna anche qualora da ciò derivi (come nel caso di specie) l’applicazione retroattiva all’imputato di una disciplina penale sostanziale sfavorevole – ha pronunciato ordinanza di rimessione alla Corte costituzionale affinché giudichi della legittimità della descritta disciplina; decisione cui ha fatto seguito un’ulteriore ordinanza di rimessione alla Corte costituzionale resa da questa Corte – Sez. 3, Ordinanza n. 28346 del 30/03/2016, Cestari, Rv. 267259 – che ha reputato non manifestatamente infondata la questione di legittimità costituzionale – in relazione agli artt. 3, 11, 25 comma secondo, 27, comma terzo, 101, comma secondo, Cost. – dell’art. 2 della legge 2 agosto 2008, n.130, che ordina l’esecuzione del trattato sul funzionamento dell’Unione Europea, come modificato dall’art. 2 del trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007 ( (TFUE), nella parte che impone di applicare l’art. 325, par.1 e 2 TFUE, come interpretato dalla Corte di Giustizia, Grande Sezione con la sentenza dell’8 settembre 2015, Taricco, da cui discende l’obbligo per il giudice nazionale – in presenza delle circostanze indicate nella sentenza, allorquando ne derivi la sistematica impunità delle gravi frodi in materia di IVA – di disapplicare le disposizioni in materia di prescrizione di cui agli artt. 160, comma terzo e 16, comma secondo cod.pen. “anche quando dalla disapplicazione e dal conseguente prolungamento della prescrizione, discendano effetti sfavorevoli per l’imputato”.
Nelle more, la Corte di Cassazione – Sez. 4, n. 7914 del 25/01/2016, Tormenti, Rv. 266078 – è intervenuta per delimitare l’ambito della eventuale disapplicazione, affermando che i principi affermati dalla sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, Grande sezione, Taricco e altri del 8 settembre 2015, C-105/14, in ordine alla possibilità di disapplicazione della disciplina della prescrizione prevista dagli artt. 160 e 161 cod. pen. se ritenuta idonea a pregiudicare gli obblighi imposti a tutela degli interessi finanziari dell’Unione europea, non si applicano ai fatti già prescritti alla data di pubblicazione di tale pronuncia, avvenuta il 3 settembre 2015.
Ancora, in attesa di verificare l’esito del sindacato di legittimità costituzionale, con successiva pronuncia – Sez. 3, n. 44584 del 07/06/2016, Puteo e altro, Rv. 269281 – questa Corte ha precisato che l’applicazione dei principi affermati dalla sentenza Taricco presuppone, da un lato, l’esistenza di un procedimento penale riguardante “frodi gravi”, da intendersi con riferimento sia alle fattispecie espressamente connotate da fraudolenza, sia a quelle che, pur non richiamando espressamente tale requisito della condotta, siano dirette all’evasione dell’Iva (ma, in senso contrario, Sez. 3, n. 16458 del 16/12/2016, dep. 31./03/2017, Damian, in attesa di massimazione, secondo cui l’art. 325, TFUE, come interpretato nella sentenza Taricco, non si applica alle fattispecie di reato strutturalmente non caratterizzate da frode, come quella di cui all’art. 10-ter, d.lgs. n. 74 del 2000), la cui gravità va desunta da tutti i criteri previsti dall’art. 133, primo comma, cod. pen.; dall’altro, l’ineffettività delle complessiva disciplina sanzionatoria in un “numero considerevole di casi di frode grave”, da valutarsi in relazione alle fattispecie concrete oggetto del singolo giudizio, considerando il numero e la gravità dei diversi episodi di frode per i quali si procede, nonché il contesto complessivo e le ragioni di connessione fra gli stessi.
3. Tanto premesso, risulta evidente come – indipendentemente da ogni valutazione sulla compatibilità costituzionale di una eventuale disapplicazione di norme suscettibile di ripercuotersi in senso sfavorevole per l’imputato e sulla conseguente necessità di attendere il pronunciamento del giudice delle leggi (motivo per il quale si ritiene non necessario accedere alla richiesta di sospensione avanzata dal PG di udienza) – nella fattispecie difettino i presupposti stessi per una eventuale applicazione dei principi indicati dalla sentenza Taricco e fatti propri dalla sentenza Pennacchini, in ragione della lampante mancanza del carattere di “grave frode”.
Già nell’ordinanza Cestari (n. 28346/2016) di rimessione alla Consulta questa Corte di cassazione richiamava quale parametro di valutazione per la “gravità” della frode l’art. 2, par. 1, della Convenzione PIF, che prevede: «Ogni Stato membro prende le misure necessarie affinché le condotte di cui all’articolo 1 nonché la complicità, l’istigazione o il tentativo relativi alle condotte descritte all’articolo 1, paragrafo 1, siano passibili di sanzioni penali effettive, proporzionate e dissuasive che comprendano, almeno, nei casi di frode grave, pene privative della libertà che possono comportare l’estradizione, rimanendo inteso che dev’essere considerata frode grave qualsiasi frode riguardante un importo minimo da determinare in ciascuno Stato membro.
Tale importo minimo non può essere superiore a euro 50 000 […j».
Nella successiva e anch’essa citata sentenza Putéo, questa sezione terza ha osservato che, proprio per il particolare contesto dell’ordinanza Cestari – pronunciata da questa sezione nell’ambito di un procedimento per una frode che aveva determinato «evasioni fiscali per milioni di euro» – il superamento dell’importo di euro 50.000,00 non può, però, essere ritenuto di per sé sufficiente, in mancanza di una precisa determinazione in tal senso da parte del giudice comunitario, a connotare la gravità della frode; affermando che dunque “il più sicuro ancoraggio oggettivo per la determinazione della gravità della frode nell’ordinamento italiano è, invece, rappresentato dal complesso dei criteri per la determinazione della gravità del reato contenuti nel primo comma dell’art. 133 cod, pen., il quale fa riferimento, non solo alla gravità del danno o del pericolo cagionato alla persona offesa (n. 2), ma anche alla natura, alla specie, ai mezzi, all’oggetto, al tempo, al luogo e, più in generale, alle modalità dell’azione (n. 1), nonché all’elemento soggettivo (n. 3)”; con la conseguenza che, ove non si sia in presenza di un danno di rilevantissima gravità, per milioni di euro, la gravità della frode può e deve essere desunta anche da ulteriori elementi, quali: l’organizzazione posta in essere, la partecipazione di più soggetti al fatto, l’utilizzazione di “cartiere” o società-schermo, l’interposizione di una pluralità di soggetti, la sistematicità delle operazioni fraudolente, la loro reiterazione nel tempo, la connessione con altri gravi reati, l’esistenza di un contesto associativo criminale; dovendo il giudice valutare caso per caso la concreta valenza di tali elementi nella fattispecie al suo esame, essendo comunque sufficiente l’indicazione in motivazione di quelli ritenuti rilevanti.
Orbene, nella fattispecie in esame, nessuno degli elementi corrisponde agli indicatori elencati dalla sentenza Pubo.
Non vi corrisponde, in primo luogo, l’entità dell’Iva evasa, pari ad euro 12.200, e dunque ampiamente al di sotto della soglia di punibilità prevista normativamente per la fattispecie delittuosa (art. 10-ter d. lgs. n. 74 del 2000) di mero inadempimento: dato, questo, già sufficiente ad escludere l’integrazione del requisito della gravità della frode secondo la più recente giurisprudenza di questa Corte (Sez. 3, n. 12160 del 15/12/2016, Scanu, Rv. 269323) per la quale, “in tema di reati tributari caratterizzati dalla previsione di una soglia di punibilità rapportata all’entità dell’imposta evasa, il requisito della gravità della frode, che – in ossequio alla sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, Grande sezione, Taricco e altri, dell’8 settembre 2015, C-105/14 – impone la disapplicazione della disciplina della prescrizione ex artt.160 e 161 cod. pen., se insorge pregiudizio per la tutela degli interessi finanziari dell’Unione europea, non può assumere rilievo qualora l’evasione si contenga sotto la soglia predetta, giacché questa è da considerarsi quale indice legislativo di ritenuta assenza di offensività”. Non vi corrisponde, per altro aspetto, il tenore complessivo della vicenda (caratterizzata da un unico episodio di utilizzo, in dichiarazione, di una fattura per operazione inesistente), in alcun modo classificabile come “grave” in relazione al danno o al pericolo cagionato, alla natura, alla specie, ai mezzi, all’oggetto, al tempo, al luogo e, più in generale, alle modalità dell’azione, nonché all’elemento soggettivo.
4. Deve pertanto escludersi, in conclusione, che ricorressero in alcun modo i presupposti per i quali il giudice di merito avrebbe dovuto affrontare la problematica derivante dalla applicazione dei principi affermati dalla sentenza Taricco ed eventualmente applicare il più sfavorevole regime prescrizionale.
Ne consegue, come detto, il rigetto del ricorso del PG.
P. Q. M.
Rigetta il ricorso del PG.
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