CORTE di CASSAZIONE, sezione penale, sentenza n. 36050 depositata il 21 luglio 2017
Violazioni e sanzioni – sanzione penale – Art. 10 bis e 10 ter d.lgs. n. 74 del 2000 – Omesso versamento IVA e ritenute fiscali operate sulle retribuzioni dei lavoratori dipendenti – Situazione di difficoltà finanziaria dell’imprenditore – Forza maggiore – Esclusione.
Massima:
Nel reato di omesso versamento IVA e ritenute certificate, la situazione di difficoltà finanziaria dell’imprenditore non costituisce causa di forza maggiore che esclude la responsabilità penale anche laddove provata.
Svolgimento del processo
1. Con sentenza emessa in data 02/07/2015 la Corte d’appello di Ancona, ha confermato per quanto qui rileva, la sentenza del Tribunale di Pesaro del 22/01/2014, che aveva condannato il ricorrente alla pena di tre anni di reclusione, oltre pene accessorie, per i reati di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, artt. 10 bis e 10 ter e, segnatamente per aver omesso il versamento, entro i termini di legge, dell’Imposta sul Valore Aggiunto, riferita all’anno 2009, per un ammontare di Euro 778.114,00, nonchè delle ritenute alla fonte relative ad emolumenti erogati nell’anno di imposta 2010, per l’ammontare complessivo di Euro 163.244,00 e dell’Imposta sul Valore Aggiunto, riferita all’anno 2010, per un ammontare di Euro 76.533,00.
2. Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per Cassazione l’imputato, per il tramite del proprio difensore, chiedendone l’annullamento, per erronea applicazione della legge penale e mancanza e contraddittorietà della motivazione in relazione agli artt. 45 e 54 c.p. (art. 606, comma 1, lett. b) ed e).
Specificamente lamenta l’imputato che la Corte di appello di Ancona, conformemente all’orientamento di legittimità, avrebbe dovuto assolverlo per mancanza del dolo del reato in esame, giacchè l’imprenditore avrebbe fornito tutti gli elementi per dimostrare di essersi adoperato per superare la crisi economica che aveva determinato gli omessi pagamenti, in particolare ipotecando i suoi beni personali per ottenere un mutuo di Euro 1800.000 in favore della società, cosi da poter adempiere alle obbligazioni tributarie.
La corte di appello avrebbe altresì omesso di valutare, allega il ricorrente, altri elementi utili ai fini dell’esclusione del dolo, quali la circostanza che la genesi della crisi non era certamente ascrivibile a sue scelte imprenditoriali, e altri comportamenti dai quali si doveva desumere la buona fede nei tentativi di superare il disavanzo (la richiesta di rateizzazione, la rinuncia al compenso quale amministratore, il piano di ristrutturazione, la domanda di concordato preventivo etc).
Tali comportamenti, si duole il ricorrente, sarebbero stati illogicamente valutati negativamente ritenendo la corte che il “debito tributario” fosse una costante nel bilancio della società, nonostante dai documenti offerti si rilevasse che, in realtà, solo due erano gli anni di imposta per i quali risultavano omessi i versamenti.
Si duole, ancora, il ricorrente che avrebbe errato la Corte nel ritenere che tra le voci della domanda originaria di concordato preventivo non fossero ricomprese le somme di cui ai capi di imputazione “b” e “c”.
Inoltre, quanto al Capo b, relativo all’omesso versamento delle ritenute alla fonte, relative agli emolumenti retributivi erogati ai dipendenti nell’anno 2010, deduce il ricorrente che erroneamente i giudici di merito avrebbero ravvisato la sussistenza del reato, che invece si doveva escludere giacchè non ne ricorreva il presupposto (pagamento delle retribuzioni) come si evinceva dall’omessa emissione da parte dell’imprenditore del modello 770.
Infine avrebbe errato la corte non ritenendo di concedere le circostanze attenuanti generiche, escluse con motivazione apparente e contraddittoria.
Motivi della decisione
3. Il ricorso è infondato per quanto riguarda i capi a) e b) dell’imputazione.
Occorre preliminarmente osservare che la giurisprudenza di questa Corte ha, in più occasioni, evidenziato l’infondatezza del ricorso per Cassazione fondato su motivi che ripropongono le stesse ragioni già discusse e ritenute, anche implicitamente, infondate dal giudice del gravame, dovendosi gli stessi considerare non specifici (cfr.Cass. Pen., sez. 4, Sent. n. 18826 del 09/02/2012; Sez. 4, n. 256 del 18/09/1997; Sez. 4, n. 44139 del 27/10/2015).
Il ricorrente ripropone, nel caso di specie, doglianze già evidenziate nel ricorso in appello, e che, peraltro, attengono prevalentemente al fatto, già compiutamente prese in esame dalla Corte territoriale.
L’impugnata sentenza – unitamente a quella originaria (la cui motivazione si integra con quella del Giudice dell’appello, versandosi in ipotesi di sostanziale “doppia conforme”) -, infatti, ha reso una esaustiva motivazione, come tale non meritevole di alcuna censura, in ordine ai rilievi critici (Ndr: testo originale non comprensibile) con l’atto di appello.
Nè possono essere oggetto di diversa valutazione le emergenze probatorie, giacchè la Corte di cassazione ha il compito di controllare il ragionamento probatorio e la giustificazione della decisione del giudice di merito, non il contenuto della medesima, essendo essa giudice non del risultato probatorio, ma del relativo procedimento e della logicità del discorso argomentativo e rimanendo preclusa al giudice di legittimità la pura e semplice rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti. (cfr. Cass. Pen., sez. 4, Sent. 27.10.2015, n. 44139).
Nel caso di specie la sentenza impugnata, con logica motivazione, ha respinto le doglianze sollevate da parte ricorrente, ravvisando nei fatti gli elementi dei reati contestati, sorretti, come è noto, dal dolo generico, inteso come coscienza e volontà di non versare all’Erario le ritenute effettuate o i tributi dovuti per l’anno di imposta di riferimento anche solo accettando il rischio di non poter adempiere insito nell’utilizzo della disponibilità economica per altri fini (cfr. Cass. Pen., Sez. 3, Sent. 27.11.2013, n.3124).
In particolare i giudici di merito hanno considerato le condotte allegate dal ricorrente, escludendone tuttavia la portata esimente ciò argomentando dal fatto che la liquidità ottenuta tramite i finanziamenti, non è stata poi utilizzata dal ricorrente per fronteggiare la propria situazione debitoria con il Fisco, elemento questo sufficiente ad integrare, fuor di dubbio, l’elemento psicologico dei reati ascritti (avendo il ricorrente solo in parte adempiuto l’obbligazione tributaria provvedendo invece a disporre delle somme a fini diversi, sia pure connessi con l’esercizio dell’impresa come liquidare le paghe ai dipendenti, saldare i fornitori etc.).
E, d’altra parte, la corte ha correttamente ravvisato gli elementi del reato di cui al capo B), per avere l’imprenditore inserito la somma indicata in tale capo, tra le altre, nella domanda di ammissione alla procedura di concordato preventivo.
Ha poi correttamente escluso, la sentenza impugnata, conformemente all’insegnamento di questa Corte, la natura esimente della situazione di difficoltà finanziaria dell’imprenditore che, anche laddove provata, non costituisce causa di forza maggiore che esclude la responsabilità penale, (cfr. Cass. Pen., Sez. 3, Sent-12.06.2013, n. 37528 del 12.6.2013).
4.- La sentenza impugnata deve invece essere annullata relativamente al capo C) riguardante omessi versamenti IVA per Euro 76.533,00. Ed infatti la Corte costituzionale, con sentenza 7-8 aprile 2014, n. 80 (Gazz. Uff. 16 aprile 2014, n. 17 Prima serie speciale), aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale del D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 10-ter, nella parte in cui, con riferimento ai fatti commessi sino al 17 settembre 2011, puniva l’omesso versamento dell’imposta sul valore aggiunto, dovuta in base alla relativa dichiarazione annuale, per importi non superiori, per ciascun periodo di imposta, ad Euro 103.291,38. Successivamente lo stesso art. 10-ter è stato sostituito, ad opera del D.Lgs. 24 settembre 2015, n. 158, art. 8, comma 1, (entrato in vigore il 22 ottobre 2015), con il seguente testo: “E’ punito con la reclusione da sei mesi a due anni chiunque non versa, entro il termine per il versamento dell’acconto relativo al periodo d’imposta successivo, l’imposta sul valore aggiunto dovuta in base alla dichiarazione annuale, per un ammontare superiore a Euro duecentocinquantamila per ciascun periodo d’imposta”. Tale ultima, più favorevole, formulazione trova applicazione, per il principio del favor rei di cui all’art. 2 c.p. , comma 4, anche ai fatti commessi prima della sua entrata in vigore (come, nel caso di specie, l’imputazione sub c).
L’annullamento della sentenza impugnata deve essere pronunciato, relativamente tale capo, per insussistenza del reato, posto che la soglia di rilevanza penale suddetta deve ritenersi elemento costitutivo del reato, contribuendo la stessa a definirne il disvalore (in tal senso, tra le altre, oltre a sez. un., 25 maggio 2011, n. 37954, Orlando, rv. 250975, nonchè, più recentemente, sez. 3, 5 novembre 2015, n. 3098/16, Vanni).
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente al capo c), perchè il fatto non sussiste ed elimina la relativa pena di mesi 10 di reclusione.
Rigetta nel resto il ricorso.
Così deciso in Roma, il 24 febbraio 2017.
Depositato in Cancelleria il 21 luglio 2017
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