CORTE di CASSAZIONE, sezione penale, sentenza n. 36052 depositata il 21 luglio 2017
Violazioni e sanzioni – sanzioni penali- distruzione e occultamento di documenti contabili – vincolatività della ricostruzione effettuata dal giudice tributario in sede penale – esclusione.
Massima:
Il giudice penale deve accertare e determinare l’ammontare dell’imposta evasa attraverso una valutazione che consideri le regole di legislazione fiscale di quantificazione dell’imponibile con un correttivo che tenga conto dei costi non contabilizzati- in presenza di allegazioni fattuali – da cui desumere la certezza o comunque il ragionevole dubbio della loro esistenza. Nel caso di specie dal complesso argomentativo delle sentenze di primo e secondo grado (quest’ultima sul profilo motivazionale si salda con quella precedente -) emerge che il reato è stato il frutto di una scelta pienamente consapevole, dell’imputato, desumibile dalle risultanze oggettive e dalla stessa dichiarazione del contribuente – in ordine al manifesto disordine nella tenuta della documentazione contabile.
Testo:
Ritenuto in fatto
1. Con sentenza del 22 aprile 2016 la Corte di Appello di Palermo ha confermato l’impugnata sentenza del 21 novembre 2014 del Tribunale di Palermo, che aveva dichiarato A.F. colpevole dei reati di cui al D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, art. 5, limitatamente all’evasione dell’imposta sul valore aggiunto, e D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 10, infliggendogli la pena di anni uno mesi uno di reclusione, concesse le attenuanti generiche con giudizio di equivalenza rispetto alla contestata recidiva.
2. Avverso il predetto provvedimento l’imputato ha proposto ricorso per cassazione con tre motivi di impugnazione.
2.1. Col primo motivo il ricorrente ha rilevato che il giudizio si era fondato su mere presunzioni tributarie, frutto dell’accertamento induttivo posto in essere dagli agenti della Guardia di Finanza, che avrebbero dovuto essere considerate invero come meri elementi indiziari. Al contrario, molte entrate esistenti sui conti bancari derivavano da premi riscossi per gare ippiche. Oltre a ciò, i movimenti bancari in entrata traevano altresì origine da contestazioni formulate nei confronti delle ditte fornitrici riguardanti merce mai consegnata ovvero difettata.
In definitiva sussisteva violazione del D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 1, lett. f), atteso che il giudice non aveva ricostruito l’effettivo ammontare dell’imposta evasa.
2.2. Col secondo motivo il ricorrente ha lamentato che, ai fini della ricostruzione induttiva del reddito, erano state prese in considerazione anche operazioni extra-conto, che non potevano invece essere ritenute quali “prelevamenti o importi riscossi”. Oltretutto, quanto all’anno 2008, era indicata una soglia di punibilità diversa da quella prevista ratione temporis. Nè era stata giustificata la mancata esclusione di documenti contabili, che avrebbe invece generato un ulteriore ribasso dell’imposta evasa.
2.3. Col terzo motivo infine è stata contestata la condanna inflitta a norma dell’art. 10 cit., in quanto l’occultamento è stato ritenuto integrato dal fatto che nulla il ricorrente aveva prodotto agli agenti operanti, mentre non vi era prova dell’effettivo occultamento ovvero della distruzione di scritture contabili.
3. Il Procuratore generale ha concluso nel senso del rigetto del ricorso.
Considerato in diritto
4. Il ricorso è infondato.
4.1. Va in primo luogo comunque ricordato che qualora il giudice d’appello abbia accertato e valutato, come in specie, il materiale probatorio con criteri omogenei a quelli usati dal giudice di primo grado, le motivazioni delle sentenze dei due gradi di merito costituiscono una sola entità logico-giuridica, alla quale occorre far riferimento per giudicare della congruità della motivazione, integrando e completando quella adottata dal primo giudice le eventuali carenze di quella d’appello (Sez. 1, n. 1309 del 22/11/1993, dep. 1994, Scardaccione, Rv. 197250). Invero, allorchè le sentenze di primo e secondo grado concordino nell’analisi e nella valutazione degli elementi di prova posti a fondamento delle rispettive decisioni, la struttura motivazionale della sentenza di appello si salda con quella precedente per formare un unico complesso corpo argomentativo (ex plurimis, Sez. 1, n. 8868 del 26/06/2000, Sangiorgi, Rv. 216906).
Va da sè che la Corte intende coltivare siffatti principi anche nel presente giudizio.
4.2. Ciò doverosamente posto, e fermo restando (circostanza pacifica) che l’odierno ricorrente non ha presentato la dichiarazione reddituale quanto all’anno 2008, è stato ripetutamente osservato che, in tema di reati tributari, ai fini del superamento della soglia di punibilità di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 5, il giudice può legittimamente avvalersi dell’accertamento induttivo dell’imponibile compiuto dagli uffici finanziari (Sez. 3, n. 24811 del 28/04/2011, Rocco, Rv. 250647; nonchè mediante gli studi di settore, Sez. 3, n. 40992 del 14/05/2013, Ottaiano, Rv. 257619).
In proposito, vero è altresì che ai fini della configurabilità del reato di omessa dichiarazione ai fini di evasione dell’imposta sui redditi, spetta esclusivamente al giudice penale il compito di accertare e determinare l’ammontare dell’imposta evasa, attraverso una verifica che può venire a sovrapporsi o anche entrare in contraddizione con quella eventualmente effettuata dinanzi al giudice tributario (Sez. 3, n. 37335 del 15/07/2014, Buonocore, Rv. 260188).
Se questo è vero, e contrariamente ai rilievi dell’odierno ricorrente, il provvedimento impugnato è esente da censura.
Alla stregua infatti dei richiamati principi, si osserva che già il Tribunale di Palermo, con valutazione all’evidenza pienamente condivisa dalla Corte territoriale (che ha sviluppato e giustificato il ragionamento introdotto dal perito e fatto proprio dal primo Giudice, in particolare cfr. pagg. 7-8 del provvedimento impugnato), ha compiutamente dato atto degli autonomi accertamenti compiuti dal perito incaricato, che aveva proceduto ad analitica ricostruzione prendendo spunto dalle fatture intestate alla ditta dell’ A. (a dimostrazione dell’effettivo compimento di attività di impresa, che infine non è stata negata neppure dal ricorrente), dal possesso di partita Iva per il commercio all’ingrosso di parti ed accessori di autoveicoli, dalla gestione di conti correnti con rilevanti movimentazioni bancarie, palesemente estranee di per sè ad una gestione meramente “personale”, e non invece imprenditoriale, dei rapporti.
D’altro canto l’unico elemento concreto al riguardo addotto dal ricorrente, circa l’estraneità al reddito dei premi derivanti dalle gare ippiche, era stato debitamente tenuto presente, con la conseguente precisa rideterminazione dell’ammontare imponibile.
D’altronde, quanto al lamentato vizio di violazione di legge circa la mancata autonoma valutazione in sede penale del reddito dello stesso ricorrente, è quest’ultimo che infine (cfr. pag. 5 ricorso) ha dato atto che il perito aveva operato anche in modo difforme dalla ricostruzione induttiva compiuta dagli agenti della Finanza, ricostruzione che invece in precedenza (cfr. pag. 3) sarebbe stata posta, secondo il medesimo ricorrente, ad esclusivo fondamento del costrutto accusatorio.
4.3. In relazione al secondo motivo di impugnazione, va ricordato che il giudice deve accertare e determinare l’ammontare dell’imposta evasa attraverso una verifica che, pur non potendo prescindere dalle specifiche regole stabilite dalla legislazione fiscale per quantificare l’imponibile, subisce le limitazioni che derivano dalla diversa finalità dell’accertamento penale; con la conseguenza che occorre tenere conto dei costi non contabilizzati solo in presenza (quanto meno) di allegazioni fattuali, da cui desumere la certezza o comunque il ragionevole dubbio della loro esistenza (cfr. Sez. 3, n. 37094 del 29/05/2015, Granata, Rv. 265160). Oltre a ciò, e sempre sotto il profilo del vizio di motivazione denunciato, il provvedimento impugnato non presenta affatto una motivazione mancante, contraddittoria o manifestamente illogica.
Se infatti in sede di gravame l’odierno ricorrente si era, in realtà, in qualche modo professato debitore Iva per un importo pressochè corrispondente alla soglia di Euro 77.468,53, la stessa Corte territoriale ha osservato, con percorso motivazionale che non offre censura nell’ambito del vizio siccome denunciato, che in assenza di alcuna seria e verificabile giustificazione addotta (proprio in ragione del difetto di annotazioni in scritture contabili) i prelevamenti non risultanti da scritture contabili o privi dell’indicazione del beneficiario rappresentavano del tutto logicamente l’indizio del tutto convincente circa l’esistenza di operazioni in nero riferibili all’attività imprenditoriale. Nè, appunto (v. supra), vi è stata alcuna indicazione dettagliata dei costi da portare in detrazione alle somme imponibili. Tanto più che in primo grado l’unica somma che l’odierno ricorrente aveva evidenziato in detrazione era connesso alle vincite ippiche, importo effettivamente riconosciuto in suo favore.
Nè infine rileva l’eventuale errore, compiuto dalla Corte di Appello siciliana, nell’indicazione della soglia di punibilità, dal momento che in ogni caso i convergenti accertamenti induttivi della polizia giudiziaria e del perito hanno infine attinto l’importo di oltre 86.000 Euro, certamente e comunque superiore ai limiti fissati nel tempo dall’art. 5 cit..
4.4. In relazione infine al terzo motivo di ricorso, è appena il caso di ricordare che il delitto di cui al D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, art. 10, tutelando il bene giuridico della trasparenza fiscale, è integrato in tutti i casi in cui la distruzione o l’occultamento della documentazione contabile dell’impresa non consenta o renda difficoltosa la ricostruzione delle operazioni, rimanendo escluso solo quando il risultato economico delle stesse possa essere accertato in base ad altra documentazione conservata dall’imprenditore e senza necessità di reperire aliunde elementi di prova (ex plurimis, Sez. 3, n. 20748 del 16/03/2016, Capobianco, Rv. 267028). In specie, emerge invero in re ipsa la difficile opera ricostruttiva del volume d’affari e del reddito del ricorrente, cui si sono dedicati da un lato la polizia giudiziaria e dall’altra il perito nominato dal Tribunale, mentre il ricorrente (nella cui disponibilità non era stato “trovato niente, cioè pochissima roba, c’erano delle cartelline sparse, qualche documento di trasporto”) ha semmai addotto, quale giustificazione, che la situazione di difficoltà economica lo avrebbe distolto dalla diligente e regolare tenuta delle scritture contabili.
In tal modo, tanto le risultanze oggettive quanto le stesse dichiarazioni del ricorrente hanno dato conto che documentazione contabile certamente ci fosse, e che il manifesto disordine nella sua tenuta fosse dovuto a scelta pienamente consapevole. Tant’è che proprio il tenore delle contestazioni operate semmai rappresenta indice che, da qualche parte e con modalità sconosciute, l’odierno ricorrente mantenesse una rappresentazione della propria condizione economica, del giro d’affari, della propria movimentazione contabile e, in definitiva, del proprio reddito che, con le ricordate modalità, ha inteso sottrarre all’imposizione fiscale.
5. In definitiva, tutti i motivi di impugnazione devono ritenersi infondati, col conseguente rigetto del ricorso.
Ne consegue altresì la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, il 24 febbraio 2017.
Depositato in Cancelleria il 21 luglio 2017
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