CORTE di CASSAZIONE, sezione penale, sentenza n. 41547 depositata il 12 settembre 2017

RITENUTO IN FATTO

1. – Con ordinanza del 12 gennaio 2017, il Tribunale di Como ha confermato il decreto di sequestro preventivo emesso dal Giudice per le indagini preliminari del medesimo Tribunale (fino alla concorrenza di euro 151.536,00), avente ad oggetto due unità immobiliari nella disponibilità del ricorrente, nei confronti del quale si procede, in qualità di amministratore di U. s.a.s., per il reato di cui all’art. 2 del d.lgs. n. 74 del 2000, per aver utilizzato, nelle dichiarazioni dei redditi dal 2008 al 2011, fatture per operazioni inesistenti.

2. – Avverso l’ordinanza l’imputato ha proposto, tramite il difensore, ricorso per cassazione, chiedendone l’annullamento.

2.1. – Con un primo motivo di doglianza, si lamenta violazione di legge, in riferimento agli artt. 322 ter cod. pen. e 321 cod. proc. pen., insieme a vizi di contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione «in ordine all’aggressione del patrimonio personale dell’imputato». Si sostiene che il sequestro per equivalente potrebbe ritenersi legittimo solo quando il reperimento dei beni costituenti il profitto del reato risultasse impossibile. Secondo il ricorrente, non sarebbe sufficiente, a tale fine, la mera attribuzione ipotetica di un reato a taluno, ma risulterebbe necessaria una verifica approfondita della sussistenza delle condotte criminose legittimanti l’intervento cautelare, la quale non sarebbe stata compiuta nel caso di specie. L’ordinanza impugnata violerebbe, perciò, anche l’art. 321 cod. proc. pen., «che impone il riscontro in concreto del presupposto fattuale legittimante l’adozione del provvedimento cautelare». Si lamenta, in proposito, che la motivazione sulla sussistenza del periculum in mora è soltanto apparente, dal momento che non prenderebbe in considerazione il rapporto tra i beni sequestrati e i reati contestati, nonché l’acquisto dei beni in epoca precedente alla commissione del reato.

2.2. – In secondo luogo, si deducono l’erronea interpretazione delle disposizioni sopra richiamate, nonché vizi della motivazione, laddove si è ritenuto che sia onere della difesa indicare i beni della società che possono essere sottoposti a sequestro.

2.3. – Con un terzo motivo di ricorso, si deduce la mancanza di motivazione dell’ordinanza impugnata, laddove non avrebbe considerato che i beni sottoposti a sequestro preventivo hanno un valore eccedente rispetto all’entità del profitto del reato accertato. Si lamenta, inoltre, che al fine della determinazione del profitto, si sarebbero sommate l’Iva e l’Irpef evase.

2.4. – Con un quarto motivo di doglianza, si eccepisce, ancora, l’erronea interpretazione dell’art. 321 cod. pen.; si eccepiscono, inoltre, vizi della motivazione relativamente all’attualità della misura cautelare e all’insussistenza del periculum in mora, perché, secondo la prospettazione difensiva, l’evasione fiscale contestata si sarebbe /\), 2 consumata tra il 2008 e il 2011 e da allora l’imputato non avrebbe commesso né sarebbe stato indagato per altri reati. Gli immobili sequestrati, inoltre, sarebbero stati acquistati nel 2001, prima del verificarsi della condotta contestata, che non avrebbe potuto agevolare in alcun modo il loro acquisto. I medesimi immobili costituirebbero anche l’abitazione dell’imputato e della moglie, non rappresentando, conseguentemente, fonte di reddito. Precisazioni che farebbero, secondo il ricorrente, venir meno il requisito dell’attualità della misura cautelare, necessario perché si possa ritenere probabile che il bene sequestrato sia strumentale rispetto alla protrazione del reato contestato o all’agevolazione della commissione di altri reati.

2.5. – Con un quinto motivo di ricorso, si deduce l’erronea interpretazione dell’art.321 cod. proc. pen. insieme a vizi della motivazione in riferimento al sequestro per equivalente e alla sussistenza delle esigenze cautelari reali. Secondo l’argomentazione difensiva, in applicazione dell’art. 12-bis del d.lgs. 74/2000, nel caso dell’omesso versamento di una somma di denaro all’erario da parte dell’amministratore di una società nell’esercizio delle proprie funzioni – come nel caso di specie – il profitto del reato andrebbe ricercato dapprima nelle casse della società e soltanto se ciò fosse impossibile, potrebbero essere sottoposti a vincolo i beni dell’amministratore. Si sostiene che l’accertamento richiesto sarebbe stato integralmente omesso dal pubblico ministero, che ha richiesto direttamente il sequestro preventivo per equivalente di beni di proprietà dell’imputato, senza verificare la possibilità di procedere al sequestro diretto.

2.6. – In ultima istanza, si rileva l’erronea interpretazione della legge penale in riferimento, ancora, all’art. 321 cod. proc. pen., e vizi della motivazione relativamente all’errata quantificazione della somma sottoposta a sequestro preventivo, in quanto il Giudice per le indagini preliminari dopo, si sarebbe limitato a constatare l’ammontare delle fatture emesse dalle società, riconducibili in particolare ai signori D. e B., e su queste avrebbe calcolato ipoteticamente l’Iva e l’Irpef evase, senza verificare l’esistenza e l’ammontare dell’effettivo risparmio di imposta.

CONSIDERATO IN DIRITTO

3. – Il ricorso è infondato. Deve premettersi che tutti i motivi di doglianza del ricorrente sono anche sostanzialmente diretti a lamentare la contraddittorietà e la manifesta illogicità del provvedimento impugnato, il quale risulta ampiamente e coerentemente motivato. Essi, per questa parte, devono essere ritenuti inammissibili, perché non si riferiscono alla mancanza della motivazione su profili essenziali ai fini della decisione, ma a valutazioni del Tribunale circa il compendio istruttorio; valutazioni comunque insindacabili in questa sede, perché non riconducibili alla categoria della violazione di legge ai sensi e per gli effetti dell’art. 325, comma 1, cod. proc. pen. (ex plurimis, ribadiscono che il ricorso per Af\ cassazione in tema di misure cautelari reali può riguardare solo la motivazione assente o meramente apparente del provvedimento impugnato, sez. 3, 10 luglio 2015, n. 39833; sez. 6, 10 gennaio 2013, n. 6589, rv. 254893). L’esame dei singoli motivi di ricorso dovrà, dunque, essere condotto con esclusivo riferimento alle censure riferite a violazione di legge.

3.1. – Il primo motivo di doglianza – nella parte in cui con esso si afferma che il sequestro per equivalente dei beni del legale rappresentante potrebbe ritenersi legittimo solo quando il reperimento dei beni costituenti il profitto del reato presso la società risultasse impossibile – deve essere trattato congiuntamente con il secondo e il quinto, che si riferiscono a questioni analoghe. La difesa sostiene, in particolare, che l’accertamento richiesto sarebbe stato integralmente omesso dal pubblico ministero, che è ricorso direttamente al sequestro preventivo per equivalente di beni di proprietà dell’imputato, senza verificare la possibilità di procedere al sequestro diretto.

Deve richiamarsi, sul punto, il costante orientamento di legittimità, secondo cui, quando si procede per reati tributari commessi dal legale rappresentante di una persona giuridica, è legittimo il sequestro preventivo funzionale alla confisca per equivalente dei beni dell’imputato, sul presupposto dell’impossibilità di reperire il profitto del reato nei confronti dell’ente, nel caso in cui, successivamente alla imposizione del vincolo cautelare, dallo stesso soggetto non siano indicati i beni nella disponibilità della persona giuridica su cui disporre la confisca diretta (Sez. 3, n. 40362de1 06/07/2016, Rv. 268587; Sez. 3, n. 42966 del 10/06/2015, Rv. 265158). E deve precisarsi che la prova che ci si trovi di fronte al profitto del reato può dirsi raggiunta solo quando emerga dagli atti, o sia comunque altrimenti provato, che somme equivalenti a quelle sottratte al pagamento all’erario, siano nella disponibilità della società o nei casi, estremamente rari, in cui sia possibile dimostrare che un determinato bene costituisca il profitto diretto del reato. Perciò, nella fase successiva all’imposizione del vincolo cautelare, che presuppone, come si è detto, l’accertata impossibilità, quantunque transitoria, di reperire presso la persona giuridica il profitto cd. diretto, e prima cioè che sia disposta la confisca per equivalente (essendo il sequestro a ciò finalizzato) dei beni nella disponibilità dell’imputato, vi è un onere di allegazione e prova da parte di quest’ultimo di indicare i beni sui quali sia possibile disporre la confisca diretta nei confronti della società. In conclusione, in tema di reati tributari, il pubblico ministero è legittimato, sulla base del compendio indiziario emergente dagli atti processuali, a chiedere al giudice il sequestro preventivo nella forma per “equivalente”, invece che in quella “diretta”, all’esito di una valutazione allo stato degli atti in ordine alle risultanze relative al patrimonio dell’ente che ha tratto vantaggio dalla commissione del reato, non essendo invece necessario il compimento di specifici ed ulteriori accertamenti preliminari per rinvenire il prezzo o il profitto nelle casse della società o per ricercare in forma generalizzata i beni che ne costituiscono la trasformazione e, incombendo, invece, al soggetto destinatario del provvedimento cautelare l’onere di dimostrare la sussistenza dei presupposti per disporre il sequestro in forma diretta (Sez. 3, n. 30995 del 06/04/2016; Sez. 3, n. 1738 del 11/11/2014, dep. 2015, Rv. 261929; Sez. 3, n. 41073 del 30/09/2015, Rv. 26502).

Tali principi trovano applicazione anche nel caso di specie, in cui non emergeva, allo stato degli atti, la praticabilità di un sequestro finalizzato alla confisca diretta del profitto nei confronti della società; praticabilità sostanzialmente non dedotta dal ricorrente neanche con il ricorso per cassazione, nel quale non si sono indicati beni o denaro della società che avrebbero potuto essere sottoposti a sequestro, pur essendo l’imputato perfettamente a conoscenza dello stato patrimoniale della società stessa, della quale era amministratore.

Ne deriva l’infondatezza della doglianza del ricorrente.

Manifestamente infondata è l’ulteriore censura proposta nell’ambito del primo motivo di ricorso – e ripresa con il quarto motivo – con la quale si lamenta che la motivazione sulla sussistenza del periculum in mora è soltanto apparente, dal momento che non prende in considerazione l’inesistenza di un rapporto di pertinenzialità tra i beni sequestrati e i reati contestati, nonché l’acquisto dei beni in epoca precedente alla commissione del reato.

È sufficiente richiamare, sul punto, il costante orientamento di questa Corte, secondo cui, in caso di sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente, spetta al giudice il solo compito di verificare che i beni rientrino nelle categorie delle cose oggettivamente suscettibili di confisca, essendo, invece, irrilevante la valutazione del periculum in mora, che attiene ai requisiti del sequestro preventivo impeditivo di cui all’art. 321, comma 1, cod. proc. pen. (ex multis, Sez. 3, n. 20887 del 15/04/2015, Rv. 263408). Quanto al nesso di pertinenzialità delle cose sequestrate per equivalente con il profitto del reato, è sufficiente qui ricordare che lo stesso non è necessario, perché lo scopo della confisca per equivalente è proprio quello di apprendere somme o beni corrispondenti al profitto del reato qualora questo profitto non sia più rinvenibile (ex plurimis, Sez. 3, n. 34551 del 17/02/2017; Sez. 2, n. 21228 del 29/04/2014,. Rv. 259717).

Le epoche di commissione dei reati e di acquisto dei beni immobili sottoposti a sequestro non hanno, dunque, alcuna rilevanza.

3.2. – Il terzo e il sesto motivo di ricorso – che possono essere trattati congiuntamente, perché attengono alla determinazione dell’entità del profitto e alla proporzionalità tra il profitto e il valore dei beni sequestrati – sono inammissibili, perché non attinenti a violazioni di legge deducibili ai sensi dell’art. 325, comma 1, cod. proc. pen.

Anche a prescindere da tali assorbenti considerazioni, devi rilevarsi che il Tribunale si è correttamente riferito, per determinare il profitto, alla somma dell’Iva e dell’Irpef evase, evidenziando che il relativo ammontare potrà essere calcolato più esattamente solo nel giudizio di merito, sulla base degli ulteriori elementi di valutazione che l’imputato metterà a disposizione. Del resto, la difesa si è limitata ad affermare, in linea puramente teorica, che il profitto potrebbe non coincidere con il beneficio fiscale realizzato dall’utilizzatore, sostenendo una parte delle fatture oggetto del procedimento penale era stata portata in detrazione negli anni di riferimento, senza fornire alcun dato specifico che potesse essere preso in considerazione dal Tribunale sul punto. Quanto al valore del compendio sequestrato, lo stesso è stato determinato dal ricorrente in euro 450.000,00, sulla base di sue mere affermazioni, del tutto sfornite di prova.

4. – Ne consegue che il ricorso deve essere rigettato, con condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.