CORTE di CASSAZIONE, sezione penale, sentenza n. 42046 depositata il 15 settembre 2017
RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza del 5.10.2015 la Corte d’Appello di Napoli, in accoglimento dell’appello del P.M., in riforma della sentenza del G.u.p. del locale Tribunale in data 27.6.2013, con la quale CM, GQ, DLA, erano stati assolti per non aver commesso il fatto, ha ritenuto, invece, questi ultimi, componenti del collegio sindacale della D.A. s.r.I., dichiarata fallita dal Tribunale di Napoli con sentenza del 4.12.2004, responsabili del reato di cui agli artt. 110, 40/2 c.p., 216/1 n. 1 e 223 del R.D. n. 267/1942 – per aver omesso dolosamente di esercitare la dovuta vigilanza (da intendersi non solo come controllo contabile, ma anche come controllo della gestione, quale riscontro tra realtà effettiva e la sua rappresentazione contabile) e di adottare i necessari consequenziali comportamenti ( azione ex art. 2409 c.c. con denuncia all’ ufficio di Procura), cagionando così il fatto di bancarotta fraudolenta patrimoniale prefallimentare, riguardante l’ operazione di “restituzione dei finanziamenti ai soci”, del 19-20 luglio del 2001- ed esclusa la contestazione di cui all’ art. 219/2 n. 1 l. fall., concesse a tutti gli imputati le circostanze attenuanti generiche, condannava ciascuno alla pena di anni uno mesi quattro di reclusione, oltre alle pene accessorie.
1.1. L’episodio per il quale è intervenuta la condanna degli imputati in appello, con ribaltamento della sentenza di primo grado, attiene all’effettuazione delle operazioni di prelievo dai conti della società poi fallita dell’importo complessivo di £ 800 milioni, quale corrispettivo della alienazione di quote che la D.A. s.r.l. possedeva nella AD UK, appreso in data 19.7.2001, per £ 400 milioni, dal conto corrente acceso presso la filiale del San Paolo Imi di Frattamaggiore, con assegno intestato a AD, e in data 20.7.2001 per ulteriori £ 400 milioni, dal conto della fallita acceso presso il Monte dei Paschi di Siena di Frattamaggiore, prelievi questi giustificati in contabilità, secondo la prospettazione difensiva, quali restituzioni di finanziamento ai soci, mentre in alcuna delibera della D.A. s.r.l. risultava che fosse stato chiesto un finanziamento ai soci e che fosse stata deliberata la restituzione di detto finanziamento, precedentemente concesso; l’addebito mosso agli imputati, nella qualità di sindaci, riguarda specificamente il verbale di verifica del 4.8.2001 da essi redatto, nel quale non risulta essere stata effettuata alcuna menzione della relativa restituzione, mentre risulta riportato che il controllo operato dall’organo non aveva riscontrato problemi, avendo la società ottemperato alle disposizioni riguardanti le registrazioni contabili esaminate a campione.
2. Avverso tale sentenza hanno proposto ricorso gli imputati, a mezzo dei difensori di fiducia, lamentando:
2.1. DLA, con un unico motivo, la ricorrenza del vizio di cui all’art. 606, primo comma, lett.c) c.p.p. in relazione all’art. 179 c.p.p., atteso che la Corte territoriale ha omesso la sua citazione al domicilio eletto presso l’avv.to Domenico Di Donato, che, come risulta dal fascicolo processuale, è stato tale sin dall’inizio del procedimento; dall’allegata documentazione, risulta, invece, che la notifica a lui relativa è stata effettuata presso altro omonimo difensore con relativa diversa pec (XXXXXXXX.legalmail.it ) e diverso codice fiscale (xxxxxxxxxxx), con evidente ipotesi di nullità assoluta ed insanabile.
2.2. GQ, con tre motivi di ricorso:
– con il primo motivo, la inammissibilità dell’appello proposto dal P.M., sia per genericità dell’atto, che per carenza di interesse, ribadendo l’eccezione già proposta in appello, circa l’assenza di una vera censura alla sentenza assolutoria, limitandosi l’appellante ad una mera critica della ricostruzione offerta dal G.u.p.; anzi il P.M. si duole, non tanto dell’assoluzione degli imputati, quanto del fatto che gli stessi siano stati giudicati non colpevoli addirittura con la formula più ampia;
-con il secondo motivo, la ricorrenza del vizio di cui all’art. 606, primo comma, lett. c) c.p.p., per nullità della sentenza impugnata, stante il difetto di contestazione ex art. 522 c.p.p., ovvero per violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza; invero, la Corte territoriale contrariamente a quanto evidenziato in imputazione attribuisce un fatto nuovo all’imputato, ossia che avrebbe dovuto, quale componente del collegio sindacale specificare, o sollecitare l’amministratore a chiarire nel verbale di verifica dell’agosto del 2001 e nella relazione di accompagnamento al bilancio, l’effettiva natura del conferimento operato dai soci alla società, onde inferirne la legittimazione all’operata restituzione indicata nel libro giornale alla data del 31.3.2001; in tale contesto, l’impostazione accusatoria su cui si fonda il giudizio di condanna, è palesemente nuova e diversa da quella prospettata nel capo di imputazione, mai modificato, con la conseguente configurabilità del vizio di cui all’art. 522 c.p.p.;
-con il terzo motivo, la ricorrenza dei vizi di cui all’art. 606, primo comma, lett. b) ed e) c.p.p., atteso che il ricorrente è stato membro del collegio sindacale per un solo anno dal 20.2.2001 al 15.2.2002 e non era membro dello studio CM- Di Lorenzo, ove era ubicata la sede della società fallita; inoltre, contrariamente a quanto evidenziato dalla Corte territoriale l’imputato non è mai stato membro del Collegio sindacale della B.B., in quanto tale società non si è dotata di un collegio sindacale; sul punto vi è un evidente travisamento della prova documentale raccolta, che finisce per immettere nella motivazione un’informazione rilevante non presente nel processo; inoltre, la Corte territoriale avrebbe dovuto approfondire la sussistenza di un fatto di bancarotta ascrivibile agli amministratori della D.A., il cui procedimento penale si trova ancora in fase di giudizio e non risulta concluso neanche in primo grado; peraltro, manca nella sentenza impugnata qualsivoglia indagine, ex art. 43 c.p., circa la sussistenza in capo al ricorrente dell’elemento psicologico del reato contestato, laddove la Corte ritiene di ricavarlo dalla situazione della società fallita al 31.12.2001, mentre la condotta contestata risale al 4.8.2001; in ogni caso la D.A. s.r.l. aveva maturato avanzi di utili non distribuiti a favore dei soci dal 1989 (anno della costituzione) fino al 31.12.2000 per il consistente ammontare di £ 984.696.859;
2.3, CM,
-con il primo motivo, la nullità della sentenza ex art. 606, primo comma, lett. c) ed e) c.p.p. e segnatamente degli artt. 569, 581 e 591 c.p.p., quanto alla mancata dichiarazione di inammissibilità dell’appello proposto dal P.M.; invero, la sentenza impugnata affronta la questione dell’inammissibilità dell’appello del P.M. in via generale, limitandosi genericamente ad affermare che la verificherà punto per punto, ma non contiene, alcuna risposta all’eccezione di assoluta e totale genericità dell’appello del P.M.; l’appello del P.M. ictu ocull non contiene alcuna censura vera alla sentenza di primo grado, limitandosi, infatti, ad una generica critica avverso le affermazioni in essa contenute, senza fornire una chiave interpretativa alternativa dei fatti così come ricostruiti;
-con il secondo motivo, la nullità della sentenza per inosservanza di norme processuali, ex art. 606, primo comma, lett. c) c.p.p., specificamente degli arti 521, 522, 597 e 604 c.p.p., in merito alla violazione del principio di correlazione tra imputazione e sentenza; invero, secondo l’ipotesi accusatoria, il comportamento dell’organo di controllo sarebbe da censurare, perché nel verbale del collegio non si sarebbe dato atto, né della fuoriuscita di denaro, né soprattutto del carattere puramente fittizio della causale “restituzione finanziamento dei soci”, pur essendo stata dimostrata, attraverso i bilanci depositati presso il registro delle imprese, l’esistenza di una voce di finanziamento terzi, scomparsa proprio con il bilancio del 2001; la Corte di appello ricostruisce in termini completamente diversi la vicenda, senza contestare l’affermazione del G.u.p., secondo cui non vi era prova alcuna che il finanziamento non era stato erogato, ammettendo che poteva esserci stato, e individua tutta la responsabilità omissiva del collegio, non sul presupposto di una fuoriuscita sine titulo della somma, ma sulla sua natura, comunque, distrattiva, atteso che nel momento in cui quella fuoriuscita si sarebbe verificata la società era in difficoltà economiche; ai componenti del collegio sindacale non si contesta più l’omesso rilievo di una restituzione, ma l’omesso rilievo delle conseguenze economiche di una elargizione che potrebbe avere una natura, comunque, distrattiva rispetto al depauperamento del patrimonio sociale, con evidente violazione delle norme invocate;
-con il terzo motivo, la nullità della sentenza per mancanza di motivazione, ex art. 606, primo comma, lett. b) ed e) c.p.p., in ordine al nesso di causalità tra la condotta omissiva contestata e l’evento di bancarotta, nonchè in ordine al dolo del reato omissivo contestato; invero, la sentenza impugnata merita ampia censura, sia per avere omesso la motivazione in ordine alle ragioni per cui è stata riformata la sentenza assolutoria di primo grado, sia per erronea applicazione delle disposizioni di cui all’art. 40 cpv. c.p., 43 c.p. e 216 1. fall, con omessa motivazione sugli aspetti, nella ricostruzione della fattispecie contestata, di concorso omissivo in un’altrui bancarotta fraudolenta prefallimentare; in particolare, per poter riformare in peius una sentenza assolutoria occorre argomentare circa la configurabilità del diverso apprezzamento, al di là di ogni ragionevole dubbio, laddove la sentenza impugnata presenta:
-mancanza di motivazione sulla sussistenza della bancarotta fraudolenta, non contenendo un minimo approfondimento circa la sussistenza di un fatto di bancarotta ascrivibile agli amministratori della D.A.;
-mancanza di motivazione in ordine alle prospettazioni difensive, essendo state pretermesse le indicazioni che provenivano dall’imputato circa il fatto che venivano dati per scontati fatti non veri, quali le condizioni non floride della società;
-mancanza di motivazione sul nesso di causalità tra l’omissione e la bancarotta, tenuto conto della particolare natura del reato contestato; sul punto la sentenza impugnata si limita ad affermare che il collegio sindacale avrebbe dovuto informare il P.M. per l’attivazione dei poteri ex art. 2409 c.c. e a segnalare l’irregolarità all’assemblea, ma non si comprende in che modo lo stimolo di poteri ex art. 2409 c.c. – che come è noto venivano esercitati dai P.M. con particolare “parsimonia” – avrebbe potuto impedire un evento già verificatosi e cioè la presunta appropriazione degli 800 milioni;
-mancanza ed illogicità della motivazione in ordine alla sussistenza del dolo, atteso che se i segnali di allarme erano agevolmente percepibili dal bilancio del 31 dicembre 2001, tale bilancio è successivo ai fatti oggetto di causa; inoltre, non risulta valutata la circostanza che nel fallimento D.A. non sono mai state depositate le scritture contabili e tale fatto è ascrivibile (secondo il capo di imputazione) agli amministratori della società, mentre l’operazione degli 800 milioni è stata ricostruita soltanto perché il ricorrente ha depositato stralcio del libro giornale che faceva riferimento della cosa al curatore fallimentare.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso DLA è fondato.
Ed invero, come si rileva dalla documentazione allegata al ricorso, la notifica all’imputato del decreto di citazione in appello risulta effettuata a mezzo “PEC” presso l’avv.to Domenico Di Donato (xxxxxxxxxxx), invece che presso l’omonimo avv.to Domenico Di Donato (DDNDNC66B02F839Z) eff ettivo domiciliatario del DLA. Tale omessa notifica non risulta rilevata dalla Corte territoriale che, anzi, nelle varie udienze tenute in appello, a partire dalla prima del 6.5.2015, neppure ha provveduto a nominare un sostituto ex art. 97 c.p.p..
1.1. Sul punto, è sufficiente richiamare il principio affermato da questa Corte, secondo cui in tema di notificazione della citazione dell’imputato, la nullità assoluta e insanabile prevista dall’art. 179 cod. proc. pen. ricorre nel caso in cui la notificazione della citazione sia stata omessa (come nella fattispecie) o quando, essendo stata eseguita in forme diverse da quelle prescritte, risulti inidonea a determinare la conoscenza effettiva dell’atto da parte dell’imputato, mentre non ricorre nei casi in cui vi sia stata esclusivamente la violazione delle regole sulle modalità di esecuzione, alla quale consegue la applicabilità della sanatoria di cui all’art. 184 cod. proc. pen. (Sez. U, n. 7697 del 24/11/2016).
2. I ricorsi di CM e GQ sono fondati per quanto di ragione, in relazione al terzo motivo di ricorso, ma vanno respinti quanto alle eccezioni processuali, oggetto dei primi due motivi dei ricorsi.
2.1. Il primo motivo dei ricorsi, relativo alla nullità della sentenza impugnata per essere inammissibile l’appello proposto dal P.M. siccome generico, è infondato. Invero, la sentenza impugnata ha dato esauriente risposta ad analoga eccezione proposta in appello dagli imputati e sul punto, contrariamente a quanto dedotto dai ricorrenti, la Corte territoriale ha esaminato l’appello del P.M. considerando i singoli punti delle varie censure sviluppate, ma anche nel suo complesso, giungendo alla conclusione che l’appello in questione fosse rispettoso dell’indicazione dei motivi di cui al combinato disposto degli artt. 591 lett. c) c.p.p. e 581 lett. c) c.p.p., non limitandosi a richieste prive di specificità, o al rinvio generico a fonti di prova non valutate, bensì articolando doglianze pertinenti rispetto allo snodo argomentativo sviluppato nella sentenza impugnata.
2.1.1. Tale valutazione, non illogica, supportata da motivazione sufficiente e congrua, va letta in relazione ai principi recentemente espressi dalle S.U. di questa Corte, con sentenza n. 8825 del 27/10/2016, secondo cui l’appello, al pari del ricorso per cassazione, è inammissibile per difetto di specificità dei motivi, quando non risultano esplicitamente enunciati e argomentati i rilievi critici rispetto alle ragioni di fatto o di diritto poste a fondamento della decisione impugnata, fermo restando che tale onere di specificità, a carico dell’impugnante, è direttamente proporzionale alla specificità con cui le predette ragioni sono state esposte nel provvedimento impugnato.
2.1.2. Alla stregua di siffatti principi, non si ritiene che l’appello del P.M. sia generico, in relazione a quanto evidenziato dalla Corte territoriale, ed, in particolare, per quanto concerne specificamente l’episodio relativo alla restituzione dei finanziamenti ai soci (par. 5 della sentenza del G.u.p. del 27.6.2013), il P.M. ha compiutamente indicato i rilievi critici avverso la sentenza di primo grado, mettendo in risalto come il Tribunale non abbia in alcun modo considerato il dato di fatto che il Collegio sindacale, pur essendovi tenuto, non aveva speso alcuna parola in merito alla fuoriuscita dalle casse della società dell’importo di 800 milioni di lire nei giorni 19 e 20.7.2001, laddove il ragionamento del Tribunale -che ha avanzato l’ipotesi per la quale l’operazione in questione fu effettivamente scrutinata dal Collegio sindacale, non emergendo discrasie sintomatiche di una volontà degli amministratori di depauperare la società- si presenta, invece, meramente ipotetico. Dunque, il nodo fondamentale delle censure mosse agli amministratori- sul quale è stato fondato il ribaltamento della decisione da parte dei giudici d’appello- risulta ben enucleato, a prescindere dalla fondatezza, o meno di esso – a dispetto della censura di genericità addotta dagli imputati.
2.1.3. La circostanza, poi, che il P.M. si sia lamentato della pronuncia assolutoria del G.u.p., ai sensi del primo comma dell’art. 530 c.p.p., certo non lascia intendere- come dedotto dai ricorrenti- che lo stesso abbia inteso censurare solo l’aspetto della formula assolutoria (formula piena e non piuttosto quella di cui all’art. 530 /2 c.p.p.), essendo, invece, il ricorso volto a criticare l’impianto della sentenza, che non avrebbe considerato proprio il dolo caratterizzante la condotta degli imputati.
2.2. Infondato si presenta, altresì, il secondo motivo dei ricorsi degli imputati GQe CM, circa la violazione del disposto di cui all’art. 522 c.p.p..
2.2.1. In proposito, giova premettere che, secondo i principi più volte affermati da questa Corte, per “fatto nuovo” si intende un fatto ulteriore ed autonomo rispetto a quello contestato, ossia un episodio storico che non si sostituisce ad esso, ma che eventualmente vi si aggiunge, affiancandolo quale autonomo “thema decidendum”, trattandosi di un accadimento naturalisticamente e giuridicamente autonomo; per “fatto diverso”, invece, deve intendersi non solo un fatto che integri una imputazione diversa, restando esso invariato, ma anche un fatto che presenti connotati materiali difformi da quelli descritti nella contestazione originaria, rendendo necessaria una puntualizzazione nella ricostruzione degli elementi essenziali del reato (Sez. 6, n. 26284 del 26/03/2013;Sez. 5, n. 2295 del 03/07/2015). Inoltre, in tema di correlazione tra l’imputazione contestata e la sentenza, il fatto di cui agli artt. 521 e 522 cod. proc. pen. va definito come l’accadimento di ordine naturale dalle cui connotazioni e circostanze soggettive ed oggettive, geografiche e temporali, poste in correlazione fra loro, vengono tratti gli elementi caratterizzanti la sua qualificazione giuridica, sicchè la violazione del principio postula una modificazione – nei suoi elementi essenziali – del fatto, inteso come episodio della vita umana, originariamente contestato (Sez. 1, n. 35574 del 18/06/2013); in particolare, l’obbligo di correlazione tra accusa e sentenza è violato non da qualsiasi modificazione rispetto all’accusa originaria, ma soltanto nel caso in cui la modificazione dell’imputazione pregiudichi la possibilità di difesa dell’imputato: la nozione strutturale di “fatto” va coniugata con quella funzionale, fondata sull’esigenza di reprimere solo le effettive lesioni del diritto di difesa, posto che il principio di necessaria correlazione tra accusa contestata (oggetto di un potere del pubblico ministero) e decisione giurisdizionale (oggetto del potere del giudice) risponde all’esigenza di evitare che l’imputato sia condannato per un fatto, inteso come episodio della vita umana, rispetto al quale non abbia potuto difendersi.
2.2.2. Alla stregua dei riportati principi, nella fattispecie in esame, non è dato ravvisare, né un fatto nuovo, né tantomeno un fatto diverso rispetto a quello oggetto di contestazione, in relazione al quale il diritto di difesa dell’imputato sarebbe stato pregiudicato.
2.2.2.1. Ed invero, la deduzione del Ganzerli, secondo la quale integrerebbe un fatto nuovo, con conseguente violazione del disposto di cui all’art. 522 c.p.p., la contestazione della Corte territoriale di aver il deducente omesso, quale componente del collegio sindacale, di specificare o sollecitare l’amministratore a chiarire nel verbale di verifica dell’agosto del 2001 e nella relazione di accompagnamento al bilancio, l’effettiva natura del conferimento operato dai soci alla società, non si confronta compiutamente con l’imputazione nei confronti degli imputati – di non aver, all’esito del controllo loro demandato in qualità di sindaci, riscontrato problemi, pur a fronte della fuoriuscita di un ingente importo dalle casse sociali, in mancanza di documentazione giustificativa dell’operazione (restituzione ai soci di un precedente – in realtà inesistente -finanziamento)- imputazione in relazione alla quale gli imputati sono stati appunto condannati (cfr. pg . 26 e 27 della sentenza nella quale la Corte territoriale, dopo aver ricostruito i fatti, ha evidenziato come il Collegio sindacale non abbia fatto alcuna segnalazione in relazione all’ingente entità dei prelievi effettuati e che la documentazione prodotta dalla difesa “contrasti con la produzione documentale in atti e con una schiacciante prova logica … g.
2.2.2.2. Le considerazioni sviluppate dalla Corte territoriale, estrapolate dal GQ da un contesto argomentativo molto più ampio, si limitano a confutare le argomentazioni difensive- considerando che ove anche esse fossero fondate nella premessa fattuale (esistenza di una delibera di restituzione dei finanziamenti) ciò non sarebbe sufficiente ai fini voluti dagli imputati, perché occorreva chiarire l’effettiva natura del finanziamento- con tale valutazione effettuando all’evidenza considerazioni che non intendevano superare il dato saliente dell’assenza/mancato rinvenimento della delibera ben definita in imputazione.
2.2.2.3. Peraltro, il ragionamento in questione, costituendo logico sviluppo della premessa, sulla quale hanno insistito gli stessi imputati, circa la presenza delle delibera di finanziamento e di restituzione dei finanziamenti, non può ritenersi effettuato in violazione del diritto di difesa degli imputati risultando, all’evidenza, ben diverso il regime della restituzione a seconda del titolo delle “erogazioni” eventualmente operato dai soci. Lo stesso consulente del P.M., nel contraddittorio tra le parti, aveva messo in risalto tale aspetto, distinguendo i conferimenti dai finanziamenti in senso stretto per il diverso regime che governa la deliberazione e la restituzione dei diversi tipi di finanziamento, sicchè gli imputati erano perfettamente a conoscenza del possibile snodo argomentativo derivante dalla sussistenza della delibera di restituzione.
2.2.3 Neppure può condividersi l’assunto dell’imputato CM- secondo cui sussisterebbe la violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza, laddove la Corte territoriale ha ritenuto la responsabilità omissiva del collegio, non sul presupposto di una fuoriuscita sine titulo della somma, ma sulla base della sua natura, comunque, distrattiva, essendo la società, nel momento in cui quella fuoriuscita si sarebbe verificata, in difficoltà economiche- emergendo chiaramente la natura distrattiva dell’operazione posta in essere dall’amministratore della D.A. s.r.l. con il prelievo dai c/c della società di £ 800 milioni per finalità non sociali, dalla stessa imputazione, essendo stato con essa contestato il reato di cui agli art. 223- e 216/1 n. 1 L.Fall. e 40/2 c.p. per avere omesso i sindaci di esercitare la dovuta vigilanza e quindi cagionando i fatti di bancarotta fraudolenta patrimoniale connessi alle operazioni del 19 e 20 luglio del 2001.
2.3. Il terzo motivo dei ricorsi di CM e GQ va in gran parte condiviso.
2.3.1.Prima di analizzare le doglianze degli imputati relative all’insussistenza dei presupposti per l’intervenuta condanna di essi nella qualità di sindaci della D.A. s.r.l., per le operazioni distrattive del 19 e 20 luglio, appare opportuno premettere che in tema di motivazione della sentenza, il giudice di appello che riformi totalmente la decisione di primo grado ha l’obbligo di delineare le linee portanti del proprio, alternativo, ragionamento probatorio e di confutare specificamente i più rilevanti argomenti della motivazione della prima sentenza, dando conto delle ragioni della relativa incompletezza o incoerenza, tali da giustificare la riforma del provvedimento impugnato (Sez. U, n. 33748 del 12/07/2005) non potendo, invece, limitarsi ad imporre la propria valutazione del compendio probatorio perché preferibile a quella coltivata nel provvedimento impugnato (Sez. 5, n.8361 del 17/01/2013).
2.3.2. In particolare, la sentenza di appello di riforma totale del giudizio assolutorio di primo grado deve confutare specificamente, pena altrimenti il vizio di motivazione, le ragioni poste dal primo giudice a sostegno della decisione assolutoria, dimostrando puntualmente l’insostenibilità sul piano logico e giuridico degli argomenti più rilevanti della sentenza di primo grado, anche avuto riguardo ai contributi eventualmente offerti dalla difesa nel giudizio di appello, e deve quindi corredarsi di una motivazione che, sovrapponendosi pienamente a quella della decisione riformata, dia ragione delle scelte operate e della maggiore considerazione accordata ad elementi di prova diversi o diversamente valutati (Sez. 6, n. 6221 del 20/04/2005; Sez. 5, n. 42033 del 17/10/2008; Sez. 6, n. 10130 del 20/01/2015).
2.3.3. Ciò premesso, si osserva che la sentenza impugnata non pare abbia adeguatamente rispettato i principi innanzi enunciati, atteso che -a fronte di una argomentata illustrazione da parte del giudice di primo grado quanto delle ragioni dell’assoluzione degli imputati per l’episodio per il quale, invece, è avvenuto il ribaltamento della decisione in appello, la Corte territoriale risulta essersi limitata, quanto al profilo argomentativo, a sovrapporre la propria valutazione a quella del primo giudice, senza tener conto di alcune specifiche circostanze addotte dalla difesa.
2.3.4. Ed invero, come già accennato, è stato contestato agli imputati componenti del Collegio sindacale della D.A. s.r.I., di aver dato atto nel verbale del 4.8.2001, della “mancanza di problemi” all’esito della verifica trimestrale e del controllo demandato appunto ai sindaci, om ettendo di soffermarsi (non spendendo dunque alcuna parola in proposito) sulle operazioni contabili dei giorni 19 e 20 luglio, a mezzo delle quali la somma complessiva di 800 milioni di lire, era uscita dal patrimonio della società e per la quale era stata indicata la causale della restituzione di un finanziamento ai soci. Le predette operazioni, in particolare, riguardavano il corrispettivo della alienazione di quote che la fallita D.A. possedeva nella AD UK, prelevato in data 19.7.2001 per £. 400 milioni dal conto corrente acceso presso la filiale del San Paolo Imi di Frattamaggiore, con assegno intestato ad AD, nonché in data 20.7.2001 per ulteriori £. 400 milioni, prelevati dal conto della fallita presso il Monte dei Paschi di Siena di Frattamaggiore. I prelievi risultavano giustificati in contabilità, secondo la prospettazione difensiva, quali restituzioni di finanziamento ai soci, mentre in nessuna delibera della DA s.r.I., secondo la tesi di accusa, risultava chiesto un finanziamento ai soci, né la restituzione di detto finanziamento precedentemente concesso; in particolare, la quota detenuta dalla DA s.r.l. fallita nella AD UK di £ 801.157.000 era stata venduta al valore nominale a Nicola, Domenico e AD, con corrispettivo pagato presso l’Istituto San Paolo in data 19.7.2001 per £. 401.157.000 e presso la MPS per 400 milioni in pari data; tali importi erano affluiti sui c/c della fallita ed essi erano stati prelevati appunto il 19.7 e il 20.7.2001 a mezzo assegni intestati a Salvatore e AD sottoscritti dal legale rappresentante della società.
2.3.5. Nel contesto descritto il G.u.p., pur dando atto che la difesa degli imputati è risultata generica, omettendo di precisare in che cosa siano consistite le verifiche relative all’esposizione debitoria della D.A. ha, tuttavia, evidenziato, tra l’altro, che il Pubblico Ministero non aveva spiegato in qual modo l’omissione del controllo delle posizioni debitorie aveva avuto ripercussione sulla bancarotta patrimoniale come il delitto che gli imputati avrebbero omesso di impedire, né chiariva le circostanze per le quali detta omissione, quantunque ritenuta causalmente rilevante, avrebbe dovuto essere ritenuta dolosa, anziché ascrivibile a negligenza od imprudenza, e non risultando nel contempo provato che i sindaci avessero avuto conoscenza effettiva o nella misura indicata nell’imputazione dell’esposizione debitoria della D.A. s.r.l.
2.3.6. La Corte territoriale, ha ribaltato, invece, il giudizio assolutorio, con riguardo all’operazione distrattiva del 19 e 20 luglio 2001, sulla base del seguente snodo argomentativo: -la difesa del CM(in merito al fatto che delle operazioni in questione non sarebbe stata fatta menzione nel verbale del collegio sindacale del 4.8.2001, trattandosi di operazioni giustificate nelle scritture contabili a titolo di restituzione di finanziamenti ai soci e che la situazione della società al momento dell’operata restituzione era florida), risulta smentita dai dati del bilancio al 31.12.2000, dal quale se è pur vero che in esso risulta indicata la voce finanziamento conto soci infruttifero per un minore importo di £ 710 milioni, tuttavia, tale voce va letta in uno agli altri dati di bilancio dai quali emerge il notevole dislivello di debiti da pagare entro 12 mesi, rispetto ai crediti da riscuotere, dando conto nel loro complesso della situazione “in perdita” in cui già dal 2000 versava la società; -anche a voler reputare provato l’assunto difensivo- comunque, non documentato (stante la mancata produzione dei verbali di assemblea)- circa una delibera assembleare che disponeva il finanziamento e poi la sua restituzione ai soci, in ogni caso il collegio sindacale avrebbe dovuto specificare o sollecitare l’amministratore a chiarire nel verbale del 2001 e nella relazione di accompagnamento al bilancio, l’effettiva natura del conferimento operato dai soci alla società, onde inferirne la legittimazione all’operata restituzione indicata nel libro giornale alla data del 31.3.2001, anche perché il diritto alla restituzione di somme versate dal socio alla società di capitali non può fondarsi esclusivamente sulla denominazione con la quale il versamento è stato registrato nelle scritture contabili della società; -sussistono ulteriori risultanze probatorie, non valutate dal primo giudice, e segnatamente che l’operazione si colloca in un momento in cui era avvenuta anche la vendita dell’immobile di proprietà della D.A. s.r.l. alla B.B. s.r.l. della quale gli imputati erano componenti del collegio sindacale, sicchè i predetti all’agosto del 2001 erano senz’altro a conoscenza delle ulteriori contestuali operazioni poste in essere dall’amministratore della DA s.r.I., comunque, incidenti sulla consistenza dell’attivo; inoltre, dell’ importo della vendita dell’immobile alla B.B., il CT del PM ha esposto che non era stato reperito riscontro del pagamento in favore della fallita di parte del prezzo al netto dell’accollo di mutuo e tale immobile con contratto di locazione era stato affittato alla AD spa, ente facente comunque capo alla famiglia AD, con sede legale sempre presso studio Di Lorenzo-CMe con collegio sindacale composto dagli stessi professionisti imputati; -la condotta in contestazione deve ritenersi senz’altro connessa, dal punto di vista causale al successivo fallimento della società, tenuto conto dell’entità dell’ammontare del passivo accertato in sede fallimentare, di poco inferiore a £ 800 milioni, tenuto conto, peraltro, del dovere di denuncia al P.M. da parte del Collegio sindacale, che già nel 2001, secondo vigente prima delle modifiche introdotte nel 2004 doveva ritenersi sussistente in relazione all’art.2409 c.c.; -tale condotta appare specificamente ascrivibile anche al Ganzerli, anch’egli componente del collegio sindacale all’epoca della verifica in contestazione e, comunque, fino al mese di febbraio del 2002, essendo titolare di analoga carica assunta contestualmente anche in altre società facenti capo alla famiglia AD (cfr. visura della B.B. s.r.l. e bilancio al 31.12.2002 della AD), anche in epoca successiva al febbraio 2002, momento in cui lo stesso imputato usciva dall’organo di controllo della fallita.
2.3.7. Tali argomentazioni non si presentano sufficienti al fine di dar compiutamente conto degli elementi di responsabilità a carico degli imputati a fronte dell’onere di motivazione “rafforzata” cui era tenuta la sentenza impugnata, in relazione all’operato ribaltamento del giudizio assolutorio. In primo luogo, infatti, sebbene il descritto snodo argonnentativo della sentenza impugnata dia conto con motivazione congrua delle ragioni per le quali i sindaci avrebbero dovuto ragionevolmente rendersi conto della situazione critica nella quale versava la società, già nel 2000-2001, non spiega, innanzitutto, come i predetti sindaci avrebbero potuto impedire l’evento, posto che al momento del controllo loro demandato (il verbale è del 4.8.2001) le operazioni “distrattive” erano state già compiute. Non convincente in proposito si presenta il riferimento alla mera mancata attivazione dell’azione ex art. 2409 c.c. da parte del Collegio sindacale, tenuto conto che uno specifico obbligo in tal senso risulta introdotto solo nel 2004, mentre all’epoca dei fatti non era neppure univoca la giurisprudenza civile invocata nella sentenza impugnata, delineatasi peraltro come maggiore puntualità dopo i fatti, che ha ritenuto che al fine dell’affermazione della responsabilità dei sindaci, non occorre l’individuazione di specifici comportamenti dei medesimi, ma è sufficiente il non avere rilevato macroscopiche violazioni, o comunque il non avere in alcun modo reagito ponendo in essere ogni atto necessario all’assolvimento dell’incarico con diligenza, correttezza e buona fede, anche segnalando all’assemblea le irregolarità di gestione riscontrate o denunziando i fatti al P.M., ove ne fossero ricorsi gli estremi, per consentire all’ufficio di provvedere ai sensi dell’art.2409 cod. civ., potendo ragionevolmente presumersi che il ricorso a siffatti rimedi, o anche solo la minaccia di farlo per l’ipotesi di mancato ravvedimento operoso degli amministratori, avrebbe potuto essere idoneo ad evitare (o, quanto meno, a ridurre) le conseguenze dannose della condotta gestoria.
2.3.8. In ogni caso risulta essere passaggio fondamentale, non sufficientemente chiarito nella sentenza impugnata, quello relativo all’elemento psicologico del reato configurabile a carico degli imputati. Questa Corte ha più volte affermato il principio, secondo cui i componenti del collegio sindacale concorrono nel delitto di bancarotta commesso dall’amministratore della società anche per omesso esercizio dei poteri-doveri di controllo loro attribuiti dagli artt. 2403 cod. civ. e ss., che non si esauriscono nella mera verifica contabile della documentazione messa a disposizione dagli amministratori ma, pur non investendo in forma diretta le scelte imprenditoriali, si estendono al contenuto della gestione sociale, a tutela non solo dell’interesse dei soci ma anche di quello concorrente dei creditori sociali (Sez. 5, n. 18985 del 14/01/2016) e comprendono il riscontro tra la realtà e la sua rappresentazione (Sez. 5, n. 14045 del 22/03/2016).
2.3.9. Nel caso di specie, in particolare, la Corte territoriale non risulta aver adeguatamente argomentato in merito al profilo segnalato dal primo giudice, secondo cui, ove si volesse ritenere causalmente rilevante la condotta dei sindaci non è chiaro perché essa dovrebbe essere ritenuta dolosa, anziché ascrivibile a negligenza od imprudenza. In proposito, come segnalato dagli imputati alcuna seria indagine risulta compiuta al fine di dimostrare la natura distrattiva delle operazioni di prelevamento compiute il 19 e 20 luglio 2001, né risulta che l’amministratore della D.A. sia stato appunto condannato perche tali operazioni erano distrattive. In ogni caso la presenza di un’operazione distrattiva è stata ritenuta, in sostanza, sulla base del dato che, nonostante la giustificazione di essa in contabilità come restituzione di finanziamento anticipato ai soci nell’anno 2001, pari a circa 706 milioni di lire al netto del finanziamento ad AD, non essendo stata rinvenuta la delibera che ha disposto il finanziamento, né quella della restituzione di esso, tale dato deve ritenersi non veritiero e da qui, dunque, il comportamento doloso degli imputati, che volutamente avrebbero taciuto della notevole fuoriuscita di denaro dalle casse pubbliche. Tuttavia, tale assioma non si confronta con il dato che la documentazione contabile della società non è stata rinvenuta dal curatore e non pare che tale “occultamento” sia ascrivibile al Collegio sindacale, laddove “stralci” della documentazione sociale risultano prodotti proprio dagli imputati, produzione questa che ad avviso della difesa denoterebbe la buona fede degli stessi.
2.3.10 Questa Corte ha evidenziato come sussista la responsabilità, a titolo di concorso nel reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale, dei sindaci qualora ricorrano puntuali elementi sintomatici, dotati del necessario spessore indiziario, in forza dei quali l’omissione del potere di controllo – e, pertanto l’inadempimento dei poteri doveri di vigilanza il cui esercizio sarebbe valso ad impedire le condotte distrattive degli amministratori – esorbiti dalla dimensione meramente colposa per assurgere al rango di elemento dimostrativo di dolosa partecipazione, sia pure nella forma del dolo eventuale, per consapevole accettazione del rischio che l’omesso controllo avrebbe potuto consentire la commissione di illiceità da parte degli amministratori. (Sez. 5,n. 26399 del 05/03/2014). Nel caso in esame manca una compiuta indagine sul punto, laddove la valutazione, secondo la quale i sindaci erano ben consapevoli della volontà dismissiva/distrattiva degli organi amministrativi della D.A., posto che facevano parte anche del Collegio sindacale di altre società della famiglia AD in favore delle quali in quel periodo sarebbero state alienati i beni della società fallita non si confronta con il dato messo in risalto dal GQ che egli, contrariamente a quanto sostenuto nella sentenza impugnata non è mai stato membro del Collegio sindacale della B.B..
4. In definitiva, la sentenza impugnata va annullata con rinvio per nuovo esame, dovendo altra Sezione della Corte territoriale, tenuto conto degli elementi segnalati, delle emergenze in atti e dell’onere della “motivazione rafforzata”, compiere una nuova valutazione in merito alla vicenda in questione.
P.Q.M.
annulla la sentenza impugnata con rinvio ad altra Sezione della Corte d’appello di Napoli per nuovo esame.
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