CORTE di CASSAZIONE, sezione penale, sentenza n. 42336 depositata il 6 ottobre 2016
LAVORO – RAPPORTO DI LAVORO SUBORDINATO – LICENZIAMENTO – ATTO INTIMIDATORIO – MINACCIA DI LICENZIAMENTO – RISARCIMENTO DEL DANNO
FATTO E DIRITTO
1. Con la sentenza di cui in epigrafe la corte di appello di Torino, in parziale riforma della sentenza con cui il tribunale di Torino, sezione distaccata di Susa, in data 14.6.2013, aveva condannato DF, alla pena ritenuta di giustizia ed al risarcimento dei danni derivanti da reato, in relazione ai delitti di cui agli artt. 61, n. 11, 582, 61, n, 11 e 612, co. 1, c.p., commessi in danno di PS, rideterminava in senso più favorevole al reo il trattamento sanzionatorio, esclusa, in relazione al reato di cui all’art. 582, c.p., la durata della malattia superiore a venti giorni, e l’importo liquidato a titolo di provvisionale, confermando nel resto la sentenza impugnata.
2. Avverso tale sentenza, di cui chiede l’annullamento, ha proposto tempestivo ricorso per cassazione l’imputato, a mezzo del suo difensore di fiducia, avv. A.V., del Foro di Bologna, lamentando violazione di legge e vizio di motivazione, con riferimento: 1) agli elementi costitutivi del reato di cui all’art. 612, c.p., che, ad avviso del ricorrente, non risultano sussistenti; 2) alla sussistenza di una malattia penalmente rilevante ex art. 582, c.p., ed alla ritenuta sussistenza del dolo eventuale nel delitto di lesioni volontarie personali; 3) all’impossibilità di configurare la circostanza aggravante di cui all’art. 61, n. 11, c.p., posto che la posizione di superiorità gerarchica dell’imputato, rispetto alla P., non può essere considerata al tempo stesso elemento della condotta penalmente rilevante di cui all’art. 612 c.p., e circostanza aggravante; 4) all’insussistenza del requisito dell’abuso della relazione d’ufficio, in relazione alla menzionata circostanza aggravante, nonché invocando l’applicazione della causa di non punibilità, prevista dall’art. 131 bis, c.p.
3. Il ricorso va dichiarato inammissibile, perché fondato su motivi manifestamente infondati.
4. Ed invero, quanto al rilievo sub n. 1), si osserva che correttamente il giudice di secondo grado ha ritenuto la sussistenza del delitto di cui all’art. 612, c.p., evidenziando, per l’appunto, con motivazione logicamente coerente, come “il tenore complessivo” della conversazione che il D. ebbe con la dipendente sottoposta al suo potere gerarchico, essendo la P. dipendente della “F.”, assegnata alla sede operativa di Rosta, al cui interno l’imputato rivestiva la qualifica di dirigente a lei gerarchicamente sovraordinato, sia stato di “evidente ritorsione (per le mancate scuse) e prevaricazione in quanto diretto alla prospettazione di uno scenario lavorativo fortemente penalizzante per la persona offesa, perché implicante un sensibile ridimensionamento del suo ruolo, una più accentuata subordinazione alle direttive ed al controllo del “capo”, una delimitazione della sua sfera di autonoma iniziativa nella gestione degli impegni e degli orari di lavoro e finanche una condizione di possibile precarietà, intesa come esposizione al rischio di licenziamento o di cassa integrazione”, sicché non appare revocabile in dubbio, come correttamente rilevato dalla corte territoriale, che “le parole pronunciate, ed ancor più il tono complessivo del discorso denotano acredine, ansia di punizione, volontà di allarmare e di impaurire l’interlocutrice, farla sentire debole e precaria, sacrificabile e sostituibile, pressoché irrilevante nel contesto aziendale”.
Assolutamente conforme ai principi da tempo affermati dalla giurisprudenza di legittimità appare, pertanto, la motivazione della corte territoriale in ordine alla ritenuta sussistenza del reato di minaccia, posto che, come affermato ripetutamente dalla Suprema Corte, nel delitto di minaccia l’atto intimidatorio è fine a se stesso e per la sussistenza del reato si richiede solo che l’agente ponga in essere la condotta minatoria in senso generico, trattandosi di reato formale con evento di pericolo, immanente nella stessa condotta, essendo sufficiente la sola attitudine della condotta stessa ad intimorire e irrilevante l’indeterminatezza del male minacciato purché questo sia ingiusto e possa essere dedotto dalla situazione contingente (cfr., ex plurimis, Cass., sez. V, 2.3.1989, n. 9082, rv. 181716; Cass., sez. I, 28.5.1987, n. 11525, rv. 176995; Cass. sez. V, 23.1.2012, n. 11621).
Orbene proprio la valutazione delle frasi proferite dall’imputato all’indirizzo della persona offesa, operata dal giudice di appello, tenendo nel dovuto conto il contesto in cui si svolse la richiamata conversazione (caratterizzato dal rapporto di subordinazione gerarchica che legava la persona offesa all’imputato e dal contrasto che in tale ambito era sorto tra i due), ne evidenzia l’idoneità minatoria, anche in considerazione del potere concreto che l’imputato aveva di incidere negativamente sulle condizioni lavorative della persona offesa.
Risultano, pertanto, integrati gli elementi costitutivi del delitto di cui all’art. 612, c.p., anche con riferimento all’elemento soggettivo del reato, la cui sussistenza risulta in re ipsa nelle modalità della condotta del D., che la sentenza di secondo grado ha puntualmente evidenziato, per cui, sul punto l’impugnata decisione, complessivamente considerata, può dirsi implicitamente motivata in maniera adeguata, (sulla motivazione implicita della sentenza di appello cfr. Cass., sez. II, 12/02/2009, n. 8619), posto che, come affermato da un condivisibile arresto del Supremo Collegio, in tema di dolo, la prova della volontà di commissione del reato è prevalentemente affidata, in mancanza di confessione, alla ricerca delle concrete circostanze che abbiano connotato l’azione e delle quali deve essere verificata la oggettiva idoneità a cagionare l’evento in base ad elementi di sicuro valore sintomatico, valutati sia singolarmente sia nella loro coordinazione (cfr. Cass., sez. VI, 6.4.2011, n. 16465, rv. 250007).
5. In relazione ai rilievi sub n. 2), appare sufficiente osservare, da un lato, come, in conformità al consolidato orientamento giurisprudenziale della Suprema Corte, in tema di lesioni personali, costituisce “malattia” qualsiasi alterazione anatomica o funzionale dell’organismo, ancorché localizzata, di lieve entità e non influente sulle condizioni organiche generali, onde lo stato di malattia perdura fino a quando sia in atto il suddetto processo di alterazione, rientrandovi, pertanto, anche le ecchimosi o le semplici escoriazioni, al cui genus appartengono le lesioni subite al polso dalla P. (cfr. Cass., sez. V, 29/09/2010, n. 43763, rv. 248778; Cass., sez. V, 19.1.2010, n. 6371, rv. 246158); dall’altro, che integra l’elemento psicologico del delitto di lesioni volontarie anche il dolo eventuale, ossia la mera accettazione del rischio che la propria azione derivino o possano derivare danni fisici alla vittima (cfr., ex plurimis, Cass., sez. VI, 24.1.2014, n. 7389, rv. 258803; Cass., sez. II, 30.9.20104, n. 43348, rv. 260858).
6. Quanto alle doglianze riguardanti la circostanza aggravante di cui all’art. 61, n. 11, c.p., correttamente ne è stata ritenuta la sussistenza dalla corte territoriale in relazione ad entrambi i reati, con motivazione incentrata sulla condizione di superiorità gerarchica, che caratterizzava la posizione del D. nei confronti della P., da quest’ultimo sfruttata al fine di “adottare una condotta di prevaricazione, sia verbale (minaccia) che fisica (lesioni) nei confronti dell’inferiore gerarchico venuto al suo cospetto per dare spiegazioni del rifiuto di scusarsi per le maldicenza che (a detta del D.) avrebbe messo in giro”.
Tale assunto risulta assolutamente conforme ai principi affermati in subiecta materia dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui la circostanza aggravante dell’abuso di ufficio o della prestazione d’opera, prevista all’art. 61, n. 11, c.p., non si riferisce soltanto ai rapporti derivanti dalla comune appartenenza dell’autore del fatto e del soggetto passivo ad un medesimo ufficio o dall’esistenza tra gli stessi di un rapporto di prestazione d’opera, ma si configura anche quando l’agente, come nel caso si avvale di tali situazioni per commettere il reato, strumentalizzando l’ufficio ricoperto o la prestazione svolta (cfr. Cass., II, 24,10.2003, n. 42790, rv. 227614)
Pertanto nel caso in esame il ruolo professionale rivestito dall’imputato, non rileva ai fini della commissione dei reati per cui si procede, se non nel senso di rendere particolarmente concreto il male minacciato, in quanto i suddetti reati, ai fini della loro consumazione, non richiedono il possesso di specifiche qualità o l’assunzione di determinati ruoli da parte del soggetto attivo.
Se ne deduce che la qualifica professionale rivestita dal D. rileva solo ai fini della configurabilità della menzionata circostanza aggravante, sicché appare del tutto infondata la censura difensiva riguardante la dedotta violazione del ne bis in idem sostanziale.
7. Manifestamente infondato appare anche l’ultimo motivo di ricorso.
A tale proposito va preliminarmente osservato che, come affermato da un recente e condivisibile arresto della Suprema Corte nella sua composizione più autorevole, in tema di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto, di cui all’art. 131 bis, c.p., quando la sentenza impugnata è, come nel caso in esame, anteriore alla entrata in vigore del d.lgs. 16 marzo 2015, n. 28, l’applicazione dell’istituto nel giudizio di legittimità va ritenuta o esclusa senza rinvio del processo nella sede di merito e se la Corte di cassazione, sulla base del fatto accertato e valutato nella decisione, riconosce la sussistenza della causa di non punibilità, la dichiara d’ufficio, ex art. 129 cod. proc. pen., annullando senza rinvio la sentenza impugnata, a norma dell’art. 620, comma primo lett. l), c.p.p.
Si è altresì precisato che il giudizio sulla tenuità richiede una valutazione complessa e congiunta di tutte le peculiarità della fattispecie concreta, che tenga conto, ai sensi dell’art. 133, co. 1, c.p., delle modalità della condotta, del grado di colpevolezza da esse desumibile e dell’entità del danno o del pericolo (cfr. Cass., sez. U., 25.2.2016, n. 13681, rv. 266590-266594).
Orbene, applicando tali principi alla fattispecie concreta in esame, non può riconoscersi la particolare tenuità del fatto commesso dal D., in considerazione delle modalità della condotta, avendo l’imputato agito con notevole prevaricazione e secondo una progressione criminosa di notevole intensità, in danno di una lavoratrice collocata in una posizione di inferiorità nei suoi confronti, dimostrando una non comune pervicacia nel suo intento di intimorire ed aggredire la persona offesa.
8. Alla dichiarazione di inammissibilità del ricorso consegue la condanna del ricorrente, ai sensi dell’art. 616, c.p.p., al pagamento delle spese del procedimento e della somma di euro 1.000,00 a favore della cassa delle ammende, tenuto conto della circostanza che l’evidente inammissibilità dei motivi di impugnazione, non consente di ritenere il ricorrente medesimo immune da colpa nella determinazione delle evidenziate ragioni di inammissibilità (cfr. Corte Costituzionale, n. 186 del 13.6.2000), nonché alla rifusione delle spese sostenute in questo grado di giudizio dalla parte civile, che si liquidano in complessivi euro 1.800,00, oltre accessori di legge.
P.Q.M.
dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 1.000,00 in favore della cassa delle ammende ed alla rifusione delle spese in favore della parte civile, che si liquida in complessivi euro 1.800,00, oltre accessori di legge.
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