CORTE di CASSAZIONE, sezione penale, sentenza n. 44399 depositata il 26 settembre 2017
RITENUTO IN FATTO
1. PV, PC, CS e PCs, sono stati condannati, all’esito del giudizio di primo grado celebrato nelle forme del giudizio abbreviato, per il delitto di associazione per delinquere finalizzato alla commissione di delitti di dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici relativi agli anni di imposta 2005 e 2006 (essendo stati prosciolti dagli analoghi delitti riferentesi agli anni di imposta 2004 e 2007), e per il delitto di bancarotta fraudolenta patrimoniale e documentale, in relazione al fallimento della UT S.r.l., dichiarato dal Tribunale di Ancona in data 8 ottobre 2008. Secondo l’ipotesi accusatoria, integralmente recepita dal Giudice dell’udienza preliminare, gli odierni ricorrenti avevano costituito un sodalizio criminale, che si era avvalso delle attitudini professionali di ciascuno dei partecipi e della struttura operativa della UT S.r.l., posta sotto la direzione formale di PCs, per realizzare, nel corso di almeno un triennio, azioni fraudolente in danno dell’Erario compiute attraverso l’utilizzo di due società aventi sede nel Delaware, la GC LDT e la WT LDT, di fatto controllate dal sodalizio soprattutto per mano di PC, gestore della società fiduciaria di diritto inglese CC LIMITED – titolare del 94% delle quote della società fallita -, che venivano fittiziamente interposte tra i venditori all’ingrosso di traffico telefonico e l’effettivo acquirente, la UT S.r.l., la quale, in tal modo, aveva la disponibilità di traffico telefonico a buon mercato, essendo questo, giacché ‘cartolarmente’ ceduto alle società americane, non assoggettato ad IVA in ragione della residenza extracomunitaria dei cessionari. CS, quale responsabile commerciale della UT, ma, di fatto, amministratore della stessa, riusciva così a proporre ai clienti della società marchigiana – i cd. ‘reselleri -, che fungevano da anello di collegamento rispetto agli utilizzatori finali, traffico telefonico a prezzi vantaggiosi, ottenendo da questi che il loro acquisto non fosse fatturato affatto o lo fosse in minima percentuale (nella misura del 20%). Concordava, altresì, con i ridetti acquirenti che il pagamento del traffico telefonico avvenisse in contanti o mediante la ricarica di carte ‘postpay’, così da raggiungere il duplice scopo di non rendere tracciabili i ricavi conseguiti dalle transazioni avvenute in frode al fisco e di monetizzare i ridetti illeciti profitti i quali, per il tramite di PV, depositario delle scritture contabili della UT nonché socio occulto della stessa, venivano trasferiti dapprima in Svizzera e da qui sui conti correnti delle due società statunitensi accesi presso la Barclays Bank di Londra, sui quali PC aveva il potere di operare. In ragione della mancata ) contabilizzazione degli elementi attivi del reddito conseguiti dalla UT per effetto di questo meccanismo di frode e per il sinergico distacco delle corrispondenti provviste monetarie che venivano fatte confluire sui conti esteri della GC e della WT, la società dorica esponeva costantemente nei bilanci e nelle altre scritture contabili una fittizia situazione di perdita che la conduceva al fallimento: ‘default’ che, secondo il ragionamento decisorio, rappresentava il logico e preordinato risultato di un programma criminoso ben congegnato che aveva utilizzato la UT non per conseguire gli utili derivanti dall’esercizio di un’attività imprenditoriale, ma esclusivamente quale strumento operativo per accumulare consistenti profitti in frode al fisco, dirottati all’estero per porli al riparo, oltretutto, da azioni di recupero coattivo.
La Corte di appello di Ancona, con la sentenza impugnata, ha dichiarato non doversi procedere nei confronti degli odierni ricorrenti in ordine ai reati loro ascritti concernenti l’evasione IVA anche per l’anno 2005 e 2006, perché estinti per prescrizione, rideterminando la pena loro inflitta e confermando nel resto la sentenza di primo grado.
– Avverso l’anzidetta sentenza hanno proposto ricorso tutti gli imputati presentando distinti atti di impugnazione.
2. Con il ricorso proposto nell’interesse di PV, la difesa, nelle persone dell’Avv. Giancarlo Giulianelli e dell’Avv. Prof. Roberto Zannotti, deduce quattro ragioni di censura.
2.1. Con il primo motivo lamenta l’inosservanza o l’erronea applicazione degli artt. 110, 81 cpv. e 416 cod.pen., nonché l’omissione o la palese contraddittorietà della motivazione, per avere la Corte territoriale, dapprima, enunciato gli elementi costitutivi del delitto di associazione per delinquere (struttura organizzata, sostenuta da uno stabile vincolo associativo, diretto a commettere una serie indeterminata di delitti, la cui esistenza prescinde dalla commissione dei reati scopo, con la consapevolezza da parte di ciascuno degli aderenti di fornire il proprio contributo per assicurare la permanenza della stessa) per poi smentirne la necessità (sufficienza di una vincolo associativo costituito anche per un breve periodo di tempo, tenuto insieme dalla mera affectio societatis scelerum, la prova della cui esistenza è desumibile da facta concludentia) così da ritenere sussistente l’associazione per delinquere pur ricorrendo, rispetto a ciascun elemento di fattispecie, le situazioni di eccezione. Rileva, altresì, l’inconsistenza degli argomenti posti a sostegno dell’attribuzione di responsabilità per il delitto di cui all’art. 416 cod. pen. all’imputato osservando come dalla lettura del provvedimento impugnato non emerga un preordinato disegno criminoso diretto alla realizzazione di un numero indeterminato di reati, sebbene della stessa specie, quanto piuttosto un preordinato e limitato accordo diretto alla commissione di ben specificati reati diretti alla elusione delle imposte sulle transazioni commerciali e alla distrazione dei beni della società poi dichiarata fallita: donde la possibilità di ricondurre, piuttosto, la fattispecie concreta alla fenomenologia del concorso di persone nel reato continuato.
2.2. Con il secondo motivo denuncia la violazione degli artt. 521 e 522 cod. proc. pen., deducendo che sebbene al PV fosse stato contestato nei capi B) e C) della rubrica, che si riferiscono ai reati propri di dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici e di bancarotta fraudolenta patrimoniale e documentale, di avervi partecipato quale titolare dello studio di dottore commercialista depositario delle scritture contabili della UT S.r.l., per effetto del richiamo alla qualifica indicata nel capo A) della rubrica, i giudici di merito ne avrebbero affermato la responsabilità, in relazione agli indicati delitti, quale amministratore di fatto della società fallita in primo grado, e quale ‘concorrente extraneus’ in grado di appello. Ne sarebbe derivata la sostanziale immutazione della condotta attribuita all’imputato, con conseguente modifica sostanziale del fatto per cui è intervenuta condanna.
2.3. Con il terzo motivo si duole dell’inosservanza o dell’erronea applicazione degli artt. 133 e 62-bis cod.pen. e del corrispondente vizio di motivazione, avendo la Corte territoriale omesso di rendere effettiva applicazione dei criteri di determinazione della pena sì da renderla proporzionale alla gravità in concreto del fatto ascritto all’imputato e per avere immotivatamente escluso la concessione in favore di questi delle attenuanti generiche, elidendo in tal modo la funzione di individualizzazione della pena ad esse riconosciuta.
2.4. Con il quarto motivo eccepisce il vizio di violazione di legge processuale, in relazione all’art. 407, comma 3, cod. proc. pen., sotto il profilo del mancato riscontro da parte della Corte di appello della denunciata inutilizzabilità della C.N.R. del 24 febbraio 2011 proveniente dalla Guardia di Finanza di Ancona, depositata ben oltre la scadenza dei termini di durata delle indagini preliminari, dei cui risultati l’Ufficio del Pubblico Ministero si è avvalso per formulare la contestazione per il delitto di bancarotta fraudolenta patrimoniale e documentale.
2.5. Con memoria depositata in data 3 giugno 2017, la difesa di PV ha proposto due motivi aggiunti.
2.5.1. Con il primo motivo denuncia il vizio di violazione di legge, in relazione all’art. 416 cod. pen., ed il vizio di motivazione, perché, sebbene nella contestazione di addebito di cui al capo A) della rubrica al PV fosse stato attribuito un ruolo meramente esecutivo delle scelte decisionali da altri operate, essendo stato indicato come il depositario delle scritture contabili della UNIVERSAL I TEL S.r.l. e l’incaricato di effettuare i trasferimenti di denaro all’estero, così da ricondurne la funzione a quella della figura del partecipe dell’associazione medesima prevista dall’art. 416, comma 2, cod.pen., questi era stato riconosciuto apoditticamente come capo o promotore dell’organizzazione criminale e, pertanto, condannato per il delitto di cui all’art. 416, comma 1, cod. pen..
2.5.2. Con il secondo motivo deduce il vizio di violazione di legge, in riferimento all’art. 216, comma 4, L.F., norma, quest’ultima, della quale è denunciato il contrasto con gli artt. 3 e 27, comma 3, della Costituzione. Ad avviso della difesa, la condanna del ricorrente alla pena accessoria della inabilitazione all’esercizio di una impresa commerciale per la durata di dieci anni e l’incapacità per la stessa durata ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa determina uno iatus insanabile nella tenuta complessiva del sistema delle pene criminali, poiché, in ragione della sua misura fissa, non solo si pone in contrasto con il principio di ragionevolezza di cui all’art. 3 della Costituzione, in considerazione della differente previsione di variabilità tra un minimo ed un massimo della pena principale, ma anche con il principio di rieducatività della sanzione criminale di cui all’art. 27, comma 3, cod. pen., la detta misura fissa della pena accessoria, con il non consentire di adeguarne il contenuto e la durata all’effettivo disvalore del fatto ed alla personalità del colpevole, conculcando la possibilità di perseguirne la finalità risocializzante. Insiste, pertanto, perché questa Corte sollevi la relativa eccezione di illegittimità costituzionale.
3. Con il ricorso di PC, a firma dell’Avvocato Franco Argentati, vengono articolati cinque motivi di impugnazione.
3.1. Con il primo motivo si deduce l’inosservanza dell’art. 63 cod. proc. pen. quale norma stabilita., a pena di inutilizzabilità delle dichiarazioni assunte in violazione di essa, poiché i cosiddetti “reseller”, vale a dire Boccia, Balage e Phalash, quali clienti della UT S.r.l. acquirenti ‘in nero’ del traffico telefonico commercializzato dalla detta società, avrebbero dovuto essere sentiti ab origine in qualità di coindagati, quantomeno nel delitto di cui all’art. 3 d.lgs. 74/2000 ascritto al PC, con la conseguenza che, a tanto non essendosi provveduto, le loro dichiarazioni dovevano considerarsi inutilizzabili tanto contra sé quanto contra alios.
3.2. Con il secondo motivo si lamenta il vizio di violazione di legge ed il vizio di motivazione, declinato nei termini del travisamento della prova. Invero, la sentenza impugnata aveva acriticamente avallato le conclusioni raggiunte dal primo giudice in ordine alla ‘fittizietà’ delle società statunitensi ed alla ‘territorialità’ delle prestazioni fornite dalle società di commercializzazione di traffico telefonico in favore della UT S.r.l., con la conseguente assoggettabilità al I regime IVA, senza per nulla esaminare le specifiche prove — in particolare le dichiarazioni rese dai fornitori italiani delle società statunitensi; le dichiarazioni dei dipendenti della UT S.r.l.; la decisione del Tribunale di Ancona in ordine al tentativo di insinuazione nel passivo della fallita di un fornitore delle società statunitensi — che il postulato accusatorio accolto nella decisione di primo grado sarebbero state in grado di screditare ove al loro contenuto fosse stato attribuito il significato oggettivamente spettante.
3.3. Con il terzo motivo si denuncia la violazione della legge penale nella parte in cui la sentenza impugnata ha riconosciuto l’esistenza del reato associativo, pur in difetto dei presupposti richiesti dalla norma penale incriminatrice, nonché mancanza di motivazione in ordine agli elementi idonei ad escludere la sussistenza dell’ipotesi delittuosa contestata. In particolare la Corte territoriale non avrebbe tenuto conto che il PC si sarebbe limitato ad un contributo tecnico professionale diretto alla definizione del contratto di mandato fiduciario ed alla connessa attività di consulenza fiscale e che, anzi, avrebbe contestato l’operato del CS allorché con questi sarebbero insorte insanabili divergenze circa la prosecuzione del rapporto contrattuale. Le descritte condotte, tutte pienamente conformi allo statuto di un’attività professionale riconosciuta, non erano, dunque, tali da evidenziare quel quid pluris richiesto per colorare di illiceità l’esplicazione delle prestazioni erogate in favore della UT S.r.l..
3.4. Con il quarto motivo ci si duole dell’erronea applicazione della legge penale in relazione all’art. 216 L.F. e del correlato vizio argomentativo. Tanto perché, la Corte territoriale, senza prendere in alcuna considerazione gli argomenti tecnico difensivi sviluppati nella consulenza di parte a firma del Prof. Ripa, ha apoditticamente accolto il costrutto decisorio del Tribunale, secondo il quale i delitti di bancarotta fraudolenta documentale e patrimoniale sarebbero venuti in essere ad effetto della mancata contabilizzazione dei ricavi conseguiti ‘in nero’ dalla UT S.r.l. e, per tale via, del distoglimento di questi profitti dal patrimonio della fallita. Invero, secondo una ricostruzione più aderente alle risultanze di causa, si sarebbe dovuto prendere atto che le somme addebitate come distratte non avrebbero potuto essere oggetto di alcuna manovra depauperativa del patrimonio sociale perché in esso mai entrate per essere di esclusiva pertinenza delle società statunitensi.
3.5. Con il quinto motivo si denuncia l’inosservanza o l’erronea applicazione degli artt. 133 e 62-bis cod.pen. e il vizio di motivazione. Avendo riguardo alla determinazione del trattamento sanzionatorio, rileva il riferimento di mero stile ai criteri di governo della discrezionalità del giudice, dei quali, invece, si sarebbe dovuta più che mai rendere sostanziale applicazione nel caso di specie onde calibrare la pena al ruolo effettivamente svolto dal PC, che aveva agito nell’esercizio di un mandato fiduciario conferitogli dagli organi gestori della UT. Lamenta, inoltre, la mancata concessione delle attenuanti generiche, essendosi attribuito all’unico elemento del ‘danno patrimoniale arrecato di rilevante gravità’ un immotivato peso decisivo ai fini del loro diniego. Ha concluso chiedendo l’annullamento dell’impugnata sentenza con ogni conseguente statuizione.
4. Con il ricorso di CS, a firma del difensore, Avv. Roberta Pizzarulli, si sviluppano tre profili di censura.
4.1. Con il primo motivo si eccepisce la violazione della legge processuale, in relazione agli artt. 438, 441 e 421 cod. proc. pen., per essere stato negato all’imputato di essere sottoposto ad interrogatorio, quale strumento di difesa del tutto diverso dalle dichiarazioni spontanee, e che, in conformità alle pronunzie di questa Suprema Corte avrebbe dovuto trovare spazio applicandosi, nel rito abbreviato, le regole dell’udienza preliminare: donde, in difetto di espressa esclusione, il diritto all’interrogatorio deve essere sempre assicurato anche se non richiesto prima della scelta del rito.
4.2. Con il secondo motivo ci si duole dell’inosservanza dell’art. 63 cod. proc.pen., poiché Boccia, Balage e Phalsh, quali acquirenti ‘in nero’ di volumi di traffico telefonico dalla UT S.r.l. avrebbero dovuto essere sentiti ab origine con le garanzie difensive, in quanto coindagati del CS quantomeno nel delitto di cui all’art. 3 d.lgs. 74/2000, con la conseguente inutilizzabilità, in difetto dei detti presidi, delle loro dichiarazioni.
4.3. Con il terzo motivo si denuncia il vizio di violazione di legge ed il vizio argomentativo, sotto il profilo del travisamento della prova, in relazione ai reati di cui all’art. 3 d.l.gs. 74/2000, conservando, gli stessi, pur se prescritti, una valenza probatoria in relazione all’intero impianto accusatorio. Si osserva, in particolare, che i giudici del merito avevano fondato l’affermazione di responsabilità richiamando un’ipotetica interposizione fittizia di società, senza, peraltro, neppure chiarire se le due società statunitensi fossero effettivamente esistenti e operanti ma utilizzate come mero schermo giuridico in relazione alle transazioni triangolari nelle quali era coinvolta la UT S.r.l. ovvero se le stesse fossero un vuoto simulacro creato ad hoc per consentire il meccanismo in frode alle pretese erariali. Invero l’ordito congetturale del quale era intessuto il ragionamento decisorio sarebbe stato agevolmente smantellato se solo nel giudizio di merito fosse stato accertato il traffico telefonico in uscita dalle piattaforme server in uso alle due società statunitensi e alla UT.. Ciò tanto più che a sostegno della effettiva esistenza della GC e della WT deponevano le dichiarazioni dei fornitori italiani del traffico telefonico, il cui contenuto era stato appunto travisato dalla Corte territoriale, la quale, peraltro, aveva assegnato una indebita valenza probatoria ad un documento, quello relativo ai cd. ‘patti parasociali’, neppure sottoscritto dagli imputati. Si conclude, dunque, nel senso che solo una parziale o distorta lettura degli atti d’indagine aveva consentito di attribuire al CS il ruolo di amministratore di fatto di una società – la UT – utilizzata quale centro di imputazione di ricavi realizzati eludendo il versamento dell’IVA, risultando le società americane alla stregua di meri schermi giuridici, perché, invero, da questi stessi atti sarebbe stato possibile desumere la prova che il ricorrente era un mero direttore commerciale di una società incaricata dalle due società americane della vendita del loro traffico telefonico. Questi, peraltro, vuoi per il ruolo di agenzia dispiegato dalla società italiana rispetto alle società americane, vuoi per le mansioni svolte, cui non si associavano poteri direttivi dell’organismo commerciale, non poteva avere neppure cooperato a svuotare il patrimonio di quest’ultima: e ciò per la ragione fondamentale che nessuna somma era transitata nelle casse della UT essendo le somme corrispondenti al pagamento da parte dei clienti del traffico telefonico venduto destinate alla GC ed alla WT.
5. Con il ricorso di PCs, a firma del difensore Avvocato Giancarlo Giulianelli, presentato in data 9 giugno 2016, si prospettano cinque ragioni di censura.
5.1. Con il primo motivo si deduce l’inosservanza dell’art. 63 cod. proc. poiché Boccia, Balage e Phalash, quali acquirenti ‘in nero’ di volumi di traffico telefonico dalla UT S.r.l. avrebbero dovuto essere sentiti ab origine con le garanzie difensive, in quanto concorrenti nel delitto di cui all’art. 3 d.lgs. 74/2000, con la conseguente inutilizzabilità, in difetto dei detti presidi, delle loro dichiarazioni: tanto perché se l’attività d’indagine verteva su di un’associazione per delinquere che aveva come scopo la commissione di una serie indeterminata di reati tributari era inevitabile che i detti dichiaranti assumessero, sin dall’inizio, una posizione di particolare importanza, essendo i consumatori finali attraverso i quali venivano a realizzarsi i reati tributari costituenti i reati scopo dell’associazione per delinquere.
5.2. Con il secondo motivo si lamenta il vizio di violazione di legge ed il vizio di motivazione, palesatosi anche nelle forme del travisamento della prova. Invero, con peculiare riguardo ai delitti di cui al capo B) della rubrica – i quali pur se dichiarati prescritti continuano a dispiegare, come detto, una decisiva valenza probatoria – la sentenza impugnata aveva acriticamente avallato le conclusioni raggiunte dal primo giudice in ordine alla ‘fittizietà/ delle società statunitensi ed alla territorialità delle prestazioni fornite dalle società di commercializzazione di traffico telefonico in favore della UT S.r.l., con la conseguente assoggettabilità al regime IVA, senza per nulla esaminare le specifiche prove – in particolare le dichiarazioni rese dai fornitori italiani delle società statunitensi; le dichiarazioni dei dipendenti della UT S.r.l.; la decisione del Tribunale di Ancona in ordine al tentativo di insinuazione nel passivo della fallita di un fornitore delle società statunitensi – che il postulato accusatorio accolto nella decisione di primo grado sarebbero state in grado di screditare ove al loro contenuto fosse stato attribuito il significato oggettivamente spettante. Infatti, sulla base di queste evidenze probatorie, si sarebbe dovuto riconoscere che la GC Ltd. e la WT Ltd. erano organismi imprenditoriali effettivamente esistenti ed operanti nello stato americano del Delaware e che la UNIVERSALTEL S.r.l., proprietaria della piattaforma telefonica attraverso la quale veniva convogliato il traffico telefonico, si occupava del ‘controllo’ del traffico medesimo e della fatturazione effettuata nei confronti delle società statunitensi dai fornitori nazionali.
5.3. Con il terzo motivo si prospetta la violazione di legge ed il vizio di motivazione, con riguardo alla ritenuta esistenza del delitto di associazione per delinquere di cui all’art. 416 cod. pen.. La Corte dorica, con motivazione, peraltro, per nulla pertinente, avrebbe fondato l’affermazione di responsabilità gei riguardi del ricorrente, quale partecipe del sodalizio, confondendo la predisposizione di accorgimenti organizzativi pur complessi finalizzati allo scopo di realizzare i reati fiscali preventivamente individuati, suscettibile di integrare il delitto continuato di dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici in concorso, con la realizzazione di una struttura stabile funzionalmente destinata alla commissione di una serie indeterminata di delitti; ipotesi questa smentita dai dati processuali, poiché il programma dell’associazione criminale contestata era sin dall’inizio destinato ad esaurirsi attraverso la distrazione dei fondi ricavati dal meccanismo fraudolento che ha portato la UT S.r.l. al fallimento.
5.4. Con il quarto motivo ci si duole dell’erronea applicazione della legge penale in relazione all’art. 216 L.F. e del correlato vizio argomentativo, evidenziandosi come la Corte territoriale, omettendo di considerare le deduzioni tecniche sviluppate nella consulenza di parte a firma del Prof. Ripa, abbia apoditticamente accolto le illazioni formulate dagli organi investigativi in virtù del loro integrale travaso nella motivazione della sentenza di primo grado e, perciò, abbia confermato la condanna pronunciata a carico degli imputati per il delitto di bancarotta fraudolenta patrimoniale sovrapponendo la prova richiesta per il delitto di dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici con quella necessaria per il delitto di bancarotta fraudolenta patrimoniale. Invero l’affermazione secondo la quale i ricavi derivanti dalla vendita del traffico telefonico dovessero essere ‘fiscalmente’ considerati come realizzati in Italia non esaurisce la dimostrazione che i predetti ricavi fossero effettivamente entrati nel patrimonio della fallita UT e da questo fossero stati distolti mediante il loro trasferimento sui conti delle due società statunitensi.
5.5. Con il quinto motivo denuncia, infine, l’inosservanza o l’erronea applicazione degli artt. 133 e 62-bis cod.pen. ed il vizio di motivazione, avendo la Corte territoriale omesso di rendere effettiva applicazione dei criteri di determinazione della pena sì da renderla proporzionale alla gravità in concreto del fatto ascritto all’imputato e per avere immotivatamente escluso la concessione in favore di questi delle attenuanti generiche, elidendo in tal modo la funzione di individualizzazione della pena ad esse riconosciuta.
5.6. Con il ricorso depositato in data 10 giugno 2016, la difesa di PCs ha articolato un ulteriore motivo. In particolare, sviluppando i già denunciati vizi di violazione di legge e di motivazione in relazione alla tesi accolta nelle conformi sentenze di merito, per le quali i ricavi derivanti dalla vendita del traffico telefonico non contabilizzati tra gli elementi attivi della UT S.r.l. erano di pertinenza di quest’ultima, quale polo effettivo delle transazioni commerciali poste in essere attraverso il meccanismo fraudolento di evasione dell’IVA, sicchè il loro distoglimento dal patrimonio sociale mediante la loro destinazione ai conti delle società statunitensi era tale da integrare il delitto di bancarotta, ha rilevato come l’erroneità di questa impostazione emergesse sia dalle modalità prepagate del traffico telefonico venduto dalle società fornitrici – in virtù delle quali l’impresa cliente (nel caso di specie la GC e la WT) effettuava un pagamento preliminare in forza del quale l’azienda erogatrice forniva il traffico richiesto in relazione alle tariffe applicate a seconda dei vari Waesi verso i quali le telefonate erano indirizzate fino ad esaurimento del credito -, sia dalle dichiarazioni rese dai responsabili di queste ultime e dalla documentazione bancaria acquisita agli atti, che erano lì ad attestare che gli organismi economici di riferimento della vendita del traffico telefonico erano effettivamente le due società statunitensi.
CONSIDERATO IN DIRITTO
I ricorsi sono solo in parte fondati.
1. Devono essere preliminarmente esaminate le eccezioni di natura processuale sollevate da tutti i ricorrenti.
1.1. Inutilizzabilità delle dichiarazioni assunte in presunta violazione dell’art.63 cod. proc. pen. – Quanto a tale profilo, eccepito nei ricorsi di PC (secondo motivo), di CS (secondo motivo) e di PCs (primo motivo), concernente le dichiarazioni rese dai clienti della UT S.r.l. – Boccia, Balage e Palash -, le quali sarebbero state illegittimamente assunte perché non rispettate le garanzie, previste dall’art. 63, comma 2, cod. proc. pen. in favore di coloro cui, sin dall’inizio delle indagini, deve essere riconosciuta la qualità di indagati – qualità che, ad avviso degli impugnanti, sarebbe stata da riconoscere alle dette persone in virtù del ruolo fondamentale da loro dispiegato nel complesso meccanismo elusivo dell’imposizione tributaria -, va rilevato come la sanzione di inutilizzabilità erga omnes stabilita dalla norma evocata postuli che, a carico del soggetto sentito senza le garanzie previste per l’indagato o per l’imputato, risultino acquisiti prima dell’escussione indizi non equivoci di reità, non rilevando, al riguardo, eventuali sospetti od intuizioni personali dell’interrogante. Si è, infatti, ripetutamente affermato da parte di questa Corte, anche a Sezioni Unite (sent. n. 23868 del 23/4/2009, Fruci, Rv. 243416; sent. n. 21832 del 22/2/2007, Morea, Rv. 236370) che la condizione di soggetti che sin dall’inizio avrebbero dovuto essere sentiti in qualità di imputati o di persone sottoposte ad indagine non può automaticamente farsi derivare dal solo fatto che i dichiaranti risultino essere stati in qualche modo coinvolti in vicende potenzialmente suscettibili di dar luogo alla formulazione di addebiti penali a loro carico, occorrendo, invece, che tali vicende, per come percepite dall’autorità inquirente, presentino connotazioni tali da non poter formare oggetto di ulteriori indagini se non postulando necessariamente l’esistenza di responsabilità penali a carico di tutti i soggetti coinvolti o di taluni di essi: donde la conclusione per la quale gli elementi a carico dei dichiaranti devono assumere la consistenza degli indizi, non potendo la loro posizione di persone informate dei fatti essere mutata per effetto della sola esistenza di sospetti o ipotesi investigative, tanto in aderenza ai principi generali della presunzione di non colpevolezza e dell’incombere dell’onere della prova sull’accusa. Nondimeno, la lettura congiunta delle disposizioni contenute nei due commi dell’art. 63 cod. pen. orienta l’interpretazione della norma nel senso che ove gli elementi indiziari emergano soltanto nel corso dell’audizione, le dichiarazioni rese dal soggetto escusso, ai sensi dell’alt 63, comma 1, cod. proc. pen., non sono utilizzabili contro quest’ultimo ma lo sono appieno nei confronti dei terzi, mentre allorché a carico dell’escusso sussistano sin dall’origine precisi, anche se non gravi, indizi di reità le sue dichiarazioni sono assolutamente inutilizzabili, ai sensi dell’art. 63, comma 2, cod. proc. pen.. Spetta al giudice di merito il potere di verificare in termini sostanziali – e quindi al di là del riscontro di indici formali, come l’eventuale iscrizione nominativa nel registro delle notizie di reato – l’attribuibilità al soggetto escusso della qualità di indagato, nel momento in cui le dichiarazioni sono state rese e il relativo accertamento si sottrae, se congruamente motivato, al sindacato di legittimità (Sez U. n. 15208 del 25 febbraio 2010, Mills, rv. 246581). Alla strega dei richiamati parametri ermeneutici, rileva il Collegio che, in presenza di una sufficiente motivazione sul punto resa dal giudice censurato (pag. 24 della sentenza impugnata), i ricorrenti avrebbero dovuto specificare quali elementi fossero stati acquisiti a carico dei dichiaranti Boccia, Balage e Palasch prima della loro audizione ed argomentare circa lo spessore del quadro indiziario esistente nei loro confronti nel momento in cui questi resero le sommarie informazioni testimoniali: se cioè esso fosse tale da indurre ad attribuire loro, già prima dell’audizione, la qualità di indagati. In mancanza di tali indicazioni, i motivi sono da considerarsi generici.
1.2. Mancato interrogatorio in sede di abbreviato – Non può trovare accoglimento neppure la censura, sollevata dalla difesa del CS con il primo motivo di ricorso, con la quale è stata eccepita la nullità della sentenza di primo grado, discendente dagli artt. 178, lett. c), e 180 cod. proc. pen. per la mancata ammissione, in sede di giudizio abbreviato, dell’interrogatorio dell’imputato richiesto tramite il difensore. Invero, la questione del diritto dell’imputato ad essere interrogato anche nell’ambito del giudizio abbreviato è stata oggetto di dibattito giurisprudenziale, che ha visto fronteggiarsi un più risalente orientamento incline a ritenere che la natura atipica del rito, mirato alla deflazione della pendenza giudiziaria attraverso la definizione del giudizio allo stato degli atti, imponesse di ritenere inammissibile la richiesta di interrogatorio avanzata dall’imputato al Giudice dell’udienza preliminare, ai sensi dell’art. 421, comma 2, cod. proc. pen., (Sez. 6, n. 6821 del 19/05/2000, Pandolfo, Rv. 216539; Sez. 2, n. 168 del 03/11/1993 – dep. 12/01/1994, Rizzi e altro, Rv. 197030) ed un filone interpretativo più recente, che ha raccolto le maggiori adesioni (Sez. 3, n. 15444 del 26/11/2014 – dep. 15/04/2015, F., Rv. 263660; Sez. 3, n. 47108 del 02/10/2013, Calarese, Rv. 257859; Sez. 6, n. 8363 del 22/01/2007, Pedatella, Rv. 235731; Sez. 5, n. 19103 del 10/03/2004, Pirro, Rv. 227755; Sez. 6, n. 937 del 07/11/2001 – 10/01/2002, Agosta, Rv. 220383), per il quale, dovendosi fare applicazione, ai sensi dell’art. 441, comma 1, cod. proc. pen., delle disposizioni previste per l’udienza preliminare, ivi comprese, in difetto di espressa esclusione, quelle di cui all’art. 421 cod.proc.pen., sussiste il diritto dell’imputato ad essere sottoposto ad interrogatorio: tanto perché l’accettazione del giudizio “allo stato degli atti”, se implica una rinuncia a difendersi provando, non impone anche la compressione del diritto di autodifesa di cui l’interrogatorio è espressione principale (Sez. 6, n. 8442 del 05/05/1998, Cutolo e altri, Rv. 212222; Sez. 6, n. 6188 del 03/05/1996, Mineo, Rv. 205094). V’è, comunque, da evidenziare che le decisioni citate, che danno per pacifico il diritto dell’imputato ad essere interrogato, sottolineano come il mancato rispetto di esso dia luogo ad una nullità di ordine generale a regime intermedio che, non solo deve essere, immediatamente, eccepita, ex art. 182, comma 2, cod.proc.pen., ma che, se non coltivata in appello non può essere dedotta in questa sede. Da qui l’inammissibilità del motivo prospettato dal CS, il quale non solo non ha indicato con la necessaria precisazione – in ossequio al principio di ‘autosufficienza’ del ricorso – quando, nel corso del giudizio abbreviato, avesse fatto richiesta di essere sottoposto ad interrogatorio, in che termini il giudice l’avesse rigettata, e in quale data la sua difesa avesse eccepito la conseguente nullità, ma non ha neppure dedotto con i motivi di gravame la detta invalidità processuale.
1.3. Inutilizzabilità dell’informativa di reato depositata dopo la scadenza del termine per il compimento delle indagini preliminari per violazione dell’art. 407, comma 3, cod. proc. pen. – Il motivo di ricorso (il quarto) proposto nell’interesse di PV, relativo alla pretesa inutilizzabilità dell’attività investigativa compendiata nella C.N.R. del 24 febbraio 2011 proveniente dalla Guardia di Finanza di Ancona, depositata dopo la scadenza del termine di durata delle indagini, è destituito di fondamento. Deve essere richiamata sul punto la lezione ermeneutica impartita da questa Corte regolatrice, secondo la quale l’eventuale violazione dell’art. 407 cod. proc. pen. non preclude l’utilizzabilità degli atti tardivi nel giudizio abbreviato (Sez. 6, n. 12085 del 19/12/2011 – dep. 30/03/2012, Inzitari, Rv. 252580; Sez. 6, n. 21265 del 15/12/2011 – dep. 01/06/2012, Bianco e altri, Rv. 252853; Sez. 5, n. 38420 del 12/07/2010, La Rosa e altri, Rv. 24850601; Sez. 6, n. 16986 del 24/02/2009, Abis, Rv. 243257). L’inutilizzabilità degli atti d’indagine prevista per il caso in cui tali atti siano stati effettuati dopo la scadenza dei termini prescritti, non essendo, infatti, equiparabile alla inutilizzabilità delle prove vietate dalla legge, di cui all’art. 191 cod. proc. pen., non è rilevabile d’ufficio ma solo su eccezione di parte, con l’effetto che essa non opera nel giudizio abbreviato, nel quale l’imputato accetta di essere giudicato allo stato degli atti, in cambio di un più favorevole trattamento sanzionatorio in caso di condanna (Sez. 6, n. 16986 del 24/2/2009, cit.). A tale rilievo va aggiunta la considerazione che il deposito dell’informativa di polizia giudiziaria dopo la scadenza del termine stabilito per il compimento delle indagini preliminari non esclude che l’attività investigativa in essa trasfusa possa essere stata compiuta prima della scadenza del termine di legge; né una siffatta eventualità è stata, specificamente, contestata dal ricorrente.
1.4. Violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza ai sensi degli artt. 521 e 522 cod. proc. pen.. Non ha pregio neppure il motivo di ricorso (il secondo) prospettato dalla difesa di PV, con il quale si assume una mancata correlazione tra l’imputazione contestata e la sentenza (con riferimento all’imputazione come dottore commercialista depositario delle scritture contabili della UT S.r.l. e consulente fiscale di questa, alla condanna, con la sentenza di primo grado, come amministratore di fatto della società poi fallita, e, con la sentenza di appello, come ‘concorrente extraneus’). In realtà, i fatti che connotano la posizione dell’imputato all’interno della società sono rimasti immutati, figurando egli, dal punto di vista formale, come il depositario delle scritture contabili ed il consulente fiscale della UT S.r.l. e, dal punto di vista sostanziale, come uno dei referenti delle decisioni strategiche della società – di cui era anche socio occulto per una quota pari al 26,40 °A) del capitale – e della concreta operatività delle manovre elusive delle pretese erariali, perché investito del compito di trasferire all’estero i proventi della vendita del traffico telefonico, essendo variata soltanto la qualificazione che di essi hanno dato i giudicanti e senza che da ciò sia venuto alcun pregiudizio all’imputato, che sui medesimi fatti ha avuto ampia possibilità di difendersi. In tema di correlazione tra accusa e sentenza, vale il principio costantemente affermato dalla giurisprudenza di legittimità (Sez. U, n. 31617 del 26/06/2015, Lucci, Rv. 264438; Sez. U, n. 36551 del 15/07/2010, Carelli, Rv. 248051; Sez. U, n. 16 del 19/06/1996, Di Francesco, Rv. 205617; Sez. 4, n. 4497 del 16/12/2015- dep. 3/02/2016, Addio e altri, Rv. 265946; Sez. 1, n. 35574 del 18/06/2013, Crescioli, Rv. 257015; Sez. 4, n. 41663 del 25/10/2005, Cannizzo ed altro, Rv. 232423014; Sez. 5, n. 1842 del 25/11/1998 – dep. 12/02/1999, Pagani, Rv. 212351), secondo il quale le norme che disciplinano le nuove contestazioni, la modifica dell’imputazione e la correlazione tra l’imputazione contestata e la sentenza (artt. 516 e 522 cod.proc.pen.), avendo lo scopo di assicurare il contraddittorio sul contenuto dell’accusa e, quindi, il pieno esercizio del diritto di difesa dell’imputato, vanno interpretate con riferimento alle finalità alle quali sono dirette, cosicché non possono ritenersi violate da qualsiasi modificazione rispetto all’accusa originaria, ma soltanto nel caso in cui la modificazione dell’imputazione pregiudichi la possibilità di difesa dell’imputato. In altri termini, poiché la nozione strutturale di fatto, contenuta nelle disposizioni in questione, va coniugata con quella funzionale, fondata sull’esigenza di reprimere solo le effettive lesioni del diritto di difesa, il principio di necessaria correlazione tra accusa contestata (oggetto di un potere del pubblico ministero) e decisione giurisdizionale (oggetto del potere del giudice) risponde all’esigenza di evitare che l’imputato sia condannato per un fatto, inteso come episodio della vita umana, rispetto al quale non abbia potuto difendersi. Tale evenienza non può, però, dirsi verificata nel caso di specie nel quale, come si legge nella sentenza impugnata (pag. 25), il reato è stato attribuito al ricorrente a titolo di concorso personale con l’amministratore di diritto, essendo stato ritenuto eziologicamente idoneo e sufficiente a realizzare la fattispecie contestata — di bancarotta fraudolenta impropria – il contributo consapevolmente offerto da un soggetto pur non dotato della qualifica soggettiva richiesta dalla norma incriminatrice. Deve, anzi, essere sottolineato che nel caso scrutinato non si apprezza, invero, alcuna trasformazione tra la fattispecie contestata in imputazione e quella ritenuta in sentenza, essendo la qualità di consulente contabile e fiscale della società fallita del tutto compatibile con il ruolo di concorrente ‘extraneus’ dispiegato da PV; rapporto di compatibilità sostanziale che, del resto, non potrebbe essere escluso neppure ove fosse stato riconosciuto al ricorrente il ruolo di amministratore di fatto della società avuto riguardo all’attività in concreto svolta dal professionista a beneficio del sodalizio criminale, il quale per portare a termine il proprio programma delittuoso aveva necessità di avvalersi delle prestazioni di un soggetto che fosse in grado di gestire una società che doveva fungere da mero strumento operativo di una complessa manovra elusiva in danno del fisco. Con riferimento alla materia dei reati fallimentari, d’altra parte, questa Corte si è già espressa nel senso di ritenere che non solo non integra la violazione del principio di correlazione tra fatto contestato e fatto ritenuto in sentenza, previsto dall’art. 521 cod. proc. pen., la decisione con la quale un soggetto sia condannato quale concorrente esterno in un reato di bancarotta fraudolenta, anziché quale amministratore di fatto, qualora rimanga immutata l’azione distrattiva ascrittagli, non vedendosi mutata, in tal caso, il soggetto, la sostanza della accusa mossagli (Sez. 5, n. 18770 del 22/12/2014 – dep. 06/05/2015, Runca, Rv. 264073; Sez. 5, n. 4117 del 09/12/2009 – dep. 01/02/2010, Prosperi e altro, Rv. 246100; Sez. 5, n. 13595 del 19/02/2003, Leoni), ma anche la pronuncia con la quale un soggetto venga condannato quale amministratore di fatto pur essendogli stato contestato, in concorso, il reato nella sua qualità di addetto alla sede operativa della società fallita o di direttore generale della stessa, sempre che, in concreto, ciò non abbia determinato una trasformazione radicale dei contenuti essenziali dell’addebito (Sez. 1, n. 2275 del 25/11/2009 – dep. 19/01/2010, Ascanio, Rv. 245957; Sez. 5, n. 1842 del 25/11/1998 – dep. 12/02/1999, Pagani e altri, Rv. 212351, cit.). Deve, dunque, concludersi osservando che il reato di bancarotta in concorso è stato attribuito all’imputato senza violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza.
2. Le questioni sollevate con riguardo al merito dei capi della decisione impugnata sono solo in parte meritevoli di accoglimento.
2.1. Travisamento della prova e doppia conforme – I ricorrenti PC (con il secondo motivo di ricorso), CS (con il terzo motivo di ricorso) e PCs (con il secondo motivo di ricorso) si dolgono, con censure tra loro sostanzialmente sovrapponibili nei contenuti, del fatto che la Corte territoriale, nell’esaminare i motivi di appello diretti a contrastare la valutazione che degli elementi di prova era stata effettuata dal primo giudice – il quale aveva ritenuto che le due società statunitensi, la GC Ldt e la WT, fossero state utilizzate dagli imputati come meri schermi giuridici per eludere il versamento dell’IVA sugli acquisti di traffico telefonico, poiché le ridette cessioni di fatto avevano avuto luogo nel territorio nazionale tra le società fornitrici e l’effettiva cessionaria UIVERSAL TEL S.r.l. -, avesse omesso di considerare nel loro oggettivo significato le prove decisive costituite, in particolare, dalle dichiarazioni rese dai fornitori italiani delle società statunitensi; dalle dichiarazioni dei dipendenti della UT S.r.l.; dalla decisione del Tribunale di Ancona che aveva rigettato la domanda di insinuazione al passivo della fallita UT Sr.l. di un fornitore delle società statunitensi L’esame della questione al vaglio esige un preliminare richiamo ai principi che governano il sindacato di legittimità sul discorso giustificativo del provvedimento impugnato. Secondo gli approdi ermeneutici ormai pacifici di questa Corte, esso deve mirare, infatti, a verificare che la relativa motivazione sia: a) effettiva, ovvero realmente idonea a rappresentare le ragioni che il giudicante ha posto a base della decisione adottata; b) non manifestamente illogica, ovvero sorretta, nei suoi punti essenziali, da argomentazioni non viziate da evidenti errori nell’applicazione delle regole della logica; c) non internamente contraddittoria, ovvero esente da insormontabili incongruenze tra le sue diverse parti o da inconciliabilità logiche tra le affermazioni in essa ontenute; d) non logicamente incompatibile con altri atti del processo, dotati di una autonoma forza esplicativa o dimostrativa tale che la loro rappresentazione disarticoli l’intero ragionamento svolto dal giudicante e determini al suo interno radicali incompatibilità, così da vanificare o radicalmente inficiare sotto il profilo logico la motivazione. Donde il ricorrente, che intenda dedurre la sussistenza di tale incompatibilità, non può limitarsi ad addurre l’esistenza di evidenze probatorie non esplicitamente prese in considerazione nella motivazione o non correttamente interpretate dal giudicante, ma deve, invece, identificare, con l’atto processuale cui intende far riferimento, l’elemento fattuale o il dato probatorio che da tale atto emerge e che risulta incompatibile con la ricostruzione adottata dal provvedimento impugnato; dare la prova della verità di tali elementi o dati invocati, nonché dell’esistenza effettiva dell’atto processuale in questione; indicare le ragioni per cui quest’ultimo inficia o compromette in modo decisivo la tenuta logica e l’interna coerenza della motivazione (Sez. 5, n. 39048 del 25/09/2007, Casavola, Rv. 238215; Sez. 1, n. 24667 del 15/06/2007, Musumeci, Rv. 237207; Sez. 6, n.10951 del 15/03/2006, Casula, Rv.233708). In seno a tale più generale elaborazione si è, poi, affermato che, la mancata rispondenza delle considerazioni di cui il giudice di merito si è avvalso per giustificare il suo convincimento alle acquisizioni processuali può essere dedotta quale motivo di ricorso qualora comporti il c.d. ‘travisamento della prova’, consistente nell’utilizzazione di un’informazione inesistente o nell’omissione della valutazione di una prova, sempre che il dato probatorio, travisato od omesso, abbia il carattere della decisività nell’ambito dell’apparato motivazionale sottoposto a critica e purché siano indicate in maniera specifica ed inequivoca le prove che si pretende essere state travisate – nelle forme di volta in volta adeguate alla natura degli atti in considerazione, in modo da rendere possibile la loro lettura senza alcuna necessità di ricerca da parte della Corte e così da evitarne una monca individuazione od un esame parcellizzato -, precisandosi, tuttavia, che, in presenza di una doppia pronuncia di eguale segno (cd. ‘doppia conforme’), nel caso di specie riguardante l’affermazione di responsabilità, il vizio anzidetto può essere rilevato in sede di legittimità solo nel caso in cui il ricorrente rappresenti (con specifica deduzione) che l’argomento probatorio asseritamente travisato è stato per la prima volta introdotto come oggetto di valutazione nella motivazione del provvedimento di secondo grado (Sez. 2, n. 7986 del 18/11/2016 – dep. 20/02/2017, La Gumina e altro, Rv. 26921701; Sez. 4, n. 4060 del 12/12/2013 – dep. 29/01/2014, Capuzzi e altro, Rv. 258438; Sez. 4, n. 5615 del 13/11/2013 – 4/02/2014, Nicoli, Rv. 258432; Sez. 4, n. 19710 del 03/02/2009, Buraschi, Rv. 243636; Sez. 2, n. 5223 del 24/01/2007, Medina, Rv. 236130).> Alla stregua di tali rigorose indicazioni ermeneutiche i motivi di ricorso degli imputati, che lamentano, in relazione all’apparato motivazionale che correda l’impugnata sentenza, il vizio di motivazione per travisamento della prova, devono ritenersi non consentiti. E di immediata evidenza, infatti, che i ricorrenti, lungi dall’assolvere all’onere di indicare gli elementi probatori asseritamente travisati, la valutazione dei quali avrebbe costituito un novum assoluto del giudizio di appello, si limitano a riproporre una lettura alternativa e mirata di evidenze probatorie (quelle tratte dalle dichiarazioni dei responsabili delle società fornitrici di traffico telefonico, tra queste di D’Elia Marina, account manager della Verizon Italia S.p.a, e di Sarto Fabio, responsabile commerciale della T.W.T. Internazionale S.r.l.; e di dipendenti della UT, S.r.l., tra questi di Bucco Maurizio) ampiamente esaminate e valutate dal giudice di primo grado, senza, peraltro, evidenziarne la specifica decisività in termini di smentita dei risultati probatori raggiunti sulla base del poliedrico e convergente compendio dimostrativo. Di talché le deduzioni difensive, quando non articolano censure schiettamente di merito (laddove richiamano valutazioni tecnico contabili compiute dal Consulente di parte, Prof. Ripa, la cui relazione, nondimeno, è stata criticamente vagliata dal giudice di prime cure, o pronunce del giudice civile, fondate, all’evidenza, su uno statuto probatorio del tutto diverso da quello accolto nel processo penale, ovvero criticano la mancata acquisizione dei dati del traffico telematico in entrata ed in uscita dalle piattaforme server delle società statunitensi e della UT S.r.l.), si rilevano aspecifiche allorché trascurano il puntuale confronto con il nucleo fondamentale delle argomentazioni della decisione impugnata: vale a dire che l’esubero di traffico telefonico certamente nella disponibilità della UT, riscontrato attraverso le dichiarazioni rese dai clienti della UT S.r.l. ma non documentato nelle scritture contabili della società, e ceduto ai cd. ‘reseller’ senza alcuna fatturazione ovvero emettendo, significativamente, una fatturazione per un importo pari soltanto al 20% del reale volume di vendite effettuato, non poteva trovare altra spiegazione se non quella che si trattasse di traffico acquistato direttamente in nero dai fornitori o, altrimenti, che, pur se acquistato dalle società statunitensi – che, in ipotesi, ben avrebbero potuto essere organismi effettivamente esistenti – era, di fatto, commercializzato nel territorio dello Stato, con il conseguente obbligo di documentazione delle transazioni. Ricostruzione, questa, che il Collegio del gravame ha ritenuto essere più che plausibile sulla base di una serie di indici di sicura valenza rappresentativa, tanto più se valutati in maniera non atomistica: che le scritture contabili della società dorica non fossero per nulla aderenti alla effettiva operatività della stessa (quale risultante dalla sommatoria dei corrispettivi delle cessioni, siccome calcolati per il tramite della documentazione extracontabile reperita presso la sede della UT o nella disponibilità del CS, e attraverso l’ammontare delle ricariche delle carte ‘post pay’); che le vendite effettuate ai clienti fossero sistematicamente sotto fatturate; che i pagamenti da parte dei ‘reseller’ avvenissero per contanti ovvero attraverso il sistema della ricarica delle numerosissime carte ‘post pay’ in possesso del CS. Tutti accorgimenti che, nell’ottica di un meccanismo ben congegnato, miravano a conseguire il duplice effetto di non rendere ricostruibili i segmenti della concatenazione operativa che consentiva l’evasione dell’IVA sulle transazioni aventi ad oggetto il traffico telefonico e di sottrarre i profitti di tale lucroso affare dalle azioni di recupero coattivo. Nondimeno il convogliamento di tali risorse all’estero mediante canali non ufficiali ed il loro versamento sui conti delle società statunitensi, le quali provvedevano ai pagamenti in favore delle società fornitrici, era oltretutto funzionale ad accreditare la tesi che esclusivamente queste fossero acquirenti del traffico telefonico.
2.2. La questione del rapporto tra il delitto di associazione per delinquere e il concorso di persone nel reato continuato. La Corte territoriale, nel rispondere alla censura riguardante la riconducibilità dei fatti ascritti agli imputati allo schema del concorso di persone nel reato continuato di dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici e di bancarotta fraudolenta patrimoniale e documentale piuttosto che al paradigma del delitto di associazione per delinquere finalizzata alla commissione degli anzidetti delitti, riproposta nei medesimi termini al cospetto del giudice di legittimità dai ricorrenti PV (con il primo motivo), PC (con il terzo motivo) e PCs (con il terzo motivo), ha messo in rilievo le anomalie delle operazioni poste in essere in attuazione del programma, da loro concepito, di realizzazione di ingenti profitti sul commercio del traffico telefonico cd. ‘etnico’ mediante l’elusione dell’imposizione fiscale e in danno della società UT S.r.l., utilizzata come un mero strumento per consentire le indicate illecite transazioni (pagg. 22 della sentenza impugnata); ha, quindi, evidenziato la sintomaticità, ai fini della sussistenza della fattispecie associativa, del numero potenzialmente indeterminato di reati fiscali realizzabili mediante il ‘clichè’ operativo ideato (pag. 23), la partecipazione agli stessi degli imputati, i loro rapporti reciproci, rivelatori della loro consapevolezza circa il ruolo svolto in ambito associativo (pagg. 25 e 26) e, soprattutto, la creazione di strutture societarie (la GC Ldt e la WT Ldt nel Delaware e la UT S.r.l. ad Ancona) funzionali specificamente alla perpetrazione degli illeciti, la previsione della cui realizzazione non può essere, perciò, considerata come determinata proprio in ragione della predisposizione di tale sofisticato apparato, individuandosi, in tal modo, la sussistenza di un pactum sceleris di natura continuativa, ritenuto permanente dal 2004 al 2008. Tanto premesso, non vi è dubbio che l’elemento discretivo tra il delitto associativo e il concorso di persone nel reato continuato sia costituito dalla circostanza che in quest’ultimo l’accordo criminoso è occasionale e limitato, in quanto diretto soltanto alla commissione di più reati determinati, ispirati da un unico disegno, che li prevede tutti, mentre ciò che rileva ai fini del delitto associativo è proprio la stabilità del vincolo associativo, trascendente la commissione dei singoli reati-fine, e l’indeterminatezza del programma criminoso (Sez. 2, n. 53000 del 04/10/2016, Basso ed altri, Rv. 268540; Sez. 6, n. 36131 del 13/05/2014, Torchia, Rv. 260292; Sez. 2, n. 933 del 11/10/2013, dep. 13/01/2014, Debbiche Helmi ed altri, Rv. 258009), senza che sia necessario, peraltro, che il vincolo associativo assuma carattere di stabilità, essendo sufficiente che esso non sia a priori circoscritto alla consumazione di uno o più reati predeterminati, con la conseguenza che non è richiesto un notevole protrarsi del rapporto nel tempo, bastando anche un’attività associativa che si svolga per un breve periodo (Sez. 5, n. 31149 del 05/05/2009, Occioni e altro, Rv. 244486). Sul versante dell’elemento psicologico, infine, occorre la permanente consapevolezza di ciascun associato di far parte del sodalizio criminoso e la volontà di rendersi disponibile a cooperare per l’attuazione del comune programma delinquenziale (Sez. 1, n. 709 del 11/12/1992- dep. 26/01/1993, Beni ed altro, Rv. 192790; Sez. 1, n. 3402 del 11/10/1991 – dep. 24/03/1992, Niccolai ed altri, Rv. 191122). In quest’ottica la sentenza impugnata ha evidenziato numerosi elementi indicativi della sussistenza della struttura associativa, in base ad una valutazione delle emergenze probatorie e ad una ricostruzione della vicenda storica che appare immune da censure logiche, avendo indicato la pluralità e la diversità (reati fiscali e reati fallimentari) e, quindi, la indeterminatezza delle fattispecie criminose in funzione delle quali la struttura associativa era stata costituita, il protrarsi per alcuni anni dell’accordo associativo, anch’essa rivelatore della volontà di perpetrare una serie indeterminata di delitti, con la permanenza di un vincolo associativo tra i partecipanti, ciascuno dei quali ha avuto la costante consapevolezza di essere un associato, anche indipendentemente dall’effettiva commissione dei singoli reati programmati, e non ha mancato di evidenziare la significativa ripetitività delle modalità esecutive e dei mezzi adoperati, caratterizzato dalla predisposizione di contratti e di attività estranee alla logica imprenditoriale, distorcendo le strutture societarie a I fine di arricchire i componenti , « 0 del sodalizio a danno sia della UT S.r.l., progressivamente depauperata, sia dell’Erario, che vedeva non solo eluse le proprie pretese, ma anche frustrata la possibilità di procedere al recupero totale o parziale del quantum dell’imposta evasa. Nondimeno, nel caso che occupa, la conferma dell’essere le condotte degli imputati dirette all’attuazione di un programma criminoso volto alla commissione un numero indeterminato di delitti di frode fiscale e alla consecutiva distrazione di beni acquisiti dall’impresa sociale per il cui tramite si sono svolte le contrattazioni, finché questa non è stata dichiarata fallita, e non alla realizzazione di un unitario disegno criminoso preordinato alla esecuzione dei reati di cui ai capi B) e C) della rubrica, si trae proprio dalla dichiarazione di fallimento, quale termine dell’attività criminosa, poiché l’impossibilità di fissarla preventivamente nel tempo, in quanto subordinata all’iniziativa dei creditori dell’impresa, conferma la genericità del programma associativo (Sez. 5, n. 78 del 21/11/2003 – dep. 08/01/2004, Perrone e altri, Rv. 227372). Tanto chiarito allo scopo di asseverare la correttezza delle conformi decisioni di merito con riguardo al riconoscimento dell’esistenza tra gli imputati di un vincolo associativo tendenzialmente stabile e diretto alla realizzazione di un programma criminoso aperto, volto a frodare il fisco e a sottrarre la garanzia patrimoniale ai creditori della società ad esso asservita, va, tuttavia, osservato che il nostro sistema prevede i “reati di associazione”, con i quali, pur mirando a colpire nella loro esistenza quelle associazioni che sono ritenute incompatibili con l’ordinamento, colpisce i singoli per il fatto della loro partecipazione e gradua la loro responsabilità in funzione del ruolo da ciascuno svolto nella costituzione o nella attività dell’associazione (Sez. 1, n. 2908 del 26/11/1985, Catellan, Rv. 171421; Sez. 1, n. 7462 del 22/04/1985, Arlan, Rv.170222). Si tratta, infatti, di reati – inquadrati nella categoria dei reati necessariamente plurisoggettivi – nei quali, pur imperniandosi il loro disvalore sul risultato della partecipazione di tutti e di ciascuno dei concorrenti, cioè sul “fatto dell’associazione”, la responsabilità penale è individuata in relazione al fatto proprio di ciascuno di essi e si articola nei reati autonomi di promozione, di costituzione e di organizzazione del sodalizio fino a quelli di mera partecipazione (Sez. 6, n. 52590 del 14/10/2016, Baronchelli e altri, Rv. 268485). La questione della autonomia delle fattispecie di costituzione, promozione, organizzazione e partecipazione nell’associazione per delinquere, evocata con il primo motivo aggiunto proposto nell’interesse di PV, rileva nel caso scrutinato, poiché, per effetto della formulazione del capo di imputazione di cui al capo A) in termini generici – vale a dire con il solo riferimento all’art. 416 cod. pen. e senza l’attribuzione a ciascuno degli associati di uno specifico ruolo – e dell’assenza, nella motivazione della sentenza impugnata, di qualsivoglia indice del riconoscimento degli imputati quali capi o promotori dell’associazione, deve garantisticamente propendersi per la soluzione della mera partecipazione degli imputati all’associazione per delinquere, punita ai sensi dell’art. 416, comma 2, cod. pen. con la pena da uno a cinque anni di reclusione. Da ciò deriva la necessità di prendere atto della intervenuta estinzione del detto reato per prescrizione, il cui termine massimo è spirato l’11 giugno 2016, nel computo di esso considerati anche 63 giorni di sospensione.
2.2. Bancarotta e previa disponibilità dei beni asseritamente distratti nel patrimonio della fallita. Destituite di giuridico fondamento sono le ragioni di censura, articolate dai ricorrenti PC (con il quarto motivo dell’impugnativa) e PCs (con il quarto motivo di ricorso e con il motivo aggiunto) con le quali si lamenta l’apoditticità della motivazione resa dalla Corte territoriale quando al presupposto d’integrazione del delitto di bancarotta fraudolenta patrimoniale ascritto agli imputati, identificato nel fatto che i ricavi derivanti dalla vendita in nero del traffico telefonico fossero effettivamente entrati nel patrimonio della fallita UT S.r.l. così da poterne essere stornati, mediante il loro trasferimento sui conti delle due società statunitensi, a beneficio degli imputati. Invero, sotto questo specifico aspetto, la sentenza impugnata, con argomentare corretto e persuasivo, ha spiegato le ragioni per le quali, alla luce delle particolari modalità dei fatti e delle risultanze processuali, specificamente enunciate, era dato affermare che la UT S.r.l. – partecipata nella misura del 94% dalla Crosseco Corporate Limited, società di diritto inglese gestita da PC, il quale era pure rappresentante legale della statunitense GC Ldt., e posta sotto il dominio funzionale del CS, già professionalmente inserito nel commercio del traffico telefonico – venne costituita dagli imputati – che ne erano tutti soci occulti nella misura indicata nei cd. ‘Patti parasociali’ – allo scopo di acquisire un’apparenza societaria regolare dietro la quale eseguire le condotte in frode all’Erario, realizzate simulando un rapporto di ‘para – agenzia’ con le due società americane acquirenti del traffico telefonico in virtù del quale porre direttamente sul mercato nazionale un quantitativo ingente del bene immateriale commercializzato senza nulla corrispondere all’Erario a titolo di imposta e sottraendo al patrimonio sociale i cospicui profitti di tale traffico mediante le modalità di pagamento della merce concordata con gli acquirenti. Prive di efficace incidenza sulla tenuta di tale costrutto, per contro, si rivelano le deduzioni difensive sul punto, in primo luogo perché non riescono a scardinare gli elementi fondamentali del ragionamento decisorio incl.’ iduati nelle circostanze:1) che il rapporto di ‘partnership’ con la GC e con la WT non fosse in alcun modo documentato; 2) che, laddove tra le società americane e la società marchigiana fosse effettivamente intercorso un rapporto di ‘para-agenzia’, nelle scritture della UT le prestazioni erogate a favore delle case mandanti avrebbero dovuto essere contabilizzate; 3) che la società dorica era in possesso di documentazione commerciale emessa dalle società ‘grossiste’ della ‘merce’ commercializzata destinata alle società statunitensi che non avrebbe avuto titolo per detenere; 4) che, soprattutto, la UT aveva avuto una disponibilità di traffico telefonico in misura di gran lunga più consistente rispetto a quello risultante dalla documentazione contabile ufficiale: evidenza fattuale che non trovava altra spiegazione se non quella che proprio la UT fosse la diretta destinataria del bene immateriale trattato, fraudolentemente acquistato in regime di extraterritorialità e rivenduto in nero. Alla stregua di queste risultanze probatorie, la cui valutazione rimane oggetto esclusivo del sindacato di merito, perché non inficiata da manifeste incongruenze logiche, il fatto che le società statunitensi fossero fittizie o che, pure essendo soggetti giuridici effettivamente esistenti, limitatamente ai rapporti con le società grossiste del traffico telefonico e con la UT S.r.l., si fossero prestate a fungere da vertice delle apparenti operazioni triangolari, è dato che non è in grado di sovvertire la tenuta logica della motivazione della sentenza impugnata, la quale correttamente ha fondato la statuizione di condanna degli imputati per il delitto di bancarotta fraudolenta patrimoniale e documentale su una situazione rimasta incontrastata: che la UT S.r.l. disponeva certamente di beni (ingenti quantità di traffico telefonico) dei quali non vi era traccia nel corredo contabile della società, venduto ‘in nero’, come dichiarato dagli acquirenti finali, i cui corrispettivi non solo, come è ovvio, non venivano registrati contabilmente, ma venivano distolti dal patrimonio della società, che aveva condotto le transazioni dai quali essi derivavano attraverso il sistema del pagamento in contati o delle ricariche delle carte ‘postpay’ delle quali il CS disponeva, direttamente o indirettamente, in numero elevatissimo. Se, dunque, i ricavi delle vendite in nero del traffico telefonico costituivano cespiti di pertinenza della UT S.r.l. e non delle società statunitensi GC e WT, del tutto correttamente il Collegio del gravame ha fondato il proprio giudizio in ordine alla sussistenza del delitto di bancarotta fraudolenta patrimoniale, sul presupposto in diritto, conforme alla giurisprudenza di legittimità sul punto, secondo cui, in materia di bancarotta fraudolenta la prova della distrazione o dell’occultamento dei beni della società dichiarata fallita può essere desunta dalla mancata dimostrazione, ad opera dell’amministratore, della s 4 k • destinazione dei beni suddetti, (Sez. 5, n. 8260 del 22/09/2015 – dep. 29/02/2016, Aucello, Rv. 267710; Sez. 5, n. 11095 del 13/02/2014, Ghirardelli, Rv. 26274001; Sez. 5, n. 22894 del 17/04/2013, Zanettin). Si è, infatti, affermato da parte di questa Corte che, quando risulta che, in epoca anteriore o prossima al fallimento, la società abbia avuto il possesso di determinati beni, non rinvenuti all’atto della redazione dell’inventario, spetta ai suoi amministratori di provare quale concreta destinazione abbiano avuto i medesimi beni o il loro ricavato. A tale esigenza si riallaccia l’obbligo, sanzionato, della regolare tenuta dei libri e delle scritture contabili durante la gestione della società. In difetto della suddetta prova è da presumere, specie in assenza di una qualsiasi registrazione contabile, che i beni stessi siano stati oggetto di dolosa distrazione, con la conseguenza che è ravvisabile a carico degli amministratori della società l’ipotesi di bancarotta fraudolenta patrimoniale di cui all’art. 216, comma 1, n. 1, L. F., essendo l’interesse tutelato da detta norma quello dei creditori alla conservazione della garanzia dei loro crediti (Sez. 5, n. 178 del 26/02/1991, Mattia e altri, Rv. 186949). Alla luce di tali richiami le censure articolate sul punto vanno, quindi, respinte.
3. Prive di pregio sono, infine, le doglianze che investono il trattamento sanzionatorio.
3.1. Determinazione della pena e diniego delle attenuanti generiche – I motivi articolati sul punto dal ricorrente PV (terzo motivo), dal ricorrente PC (motivo) e dal ricorrente PCs (quinto motivo di ricorso) sono generici e manifestamente infondati. E’ ius receptum, alla stregua di consolidata interpretazione di questa Corte regolatrice, che la determinazione della misura della pena rientra nel potere discrezionale del giudice di merito ed è insindacabile in sede di legittimità se la relativa statuizione è sorretta da congrua e logica motivazione (Sez. 4, n. 21294 del 20/03/2013, Serratore, Rv. 256197; Sez. 2, n. 36245 del 26/06/2009, Denaro, Rv. 245596; Sez. 2, n. 6274 del 14/12/1976 – dep. 19/05/1977, Carriero, Rv. 135913) e che, ai fini della concessione o del diniego delle circostanze attenuanti generiche, il giudice può limitarsi a prendere in esame, tra gli elementi indicati dall’art. 133 c.p., quello che ritiene prevalente ed atto a determinare o meno il riconoscimento del beneficio, sicché anche un solo elemento attinente alla personalità del colpevole o all’entità del reato ed alle modalità di esecuzione di esso può essere sufficiente in tal senso (Sez. 2, n. 3609 del 18/1/2011, Sermone e altri, Rv. 249163; Sez. 2, n. 8207 del 24/03/1983, Alesci, Rv. 160611): tanto perché si tratta di un giudizio di fatto, che consente al giudice di dare conto dei criteri utilizzati per farvi luogo indicando le sole ragioni preponderanti della propria decisione, di talché la stessa motivazione, purchè congrua e non contraddittoria, non può essere sindacata in cassazione, A questo orientamento si è correttamente conformata la Corte di appello valorizzando, quanto alla graduazione della pena, la gravità dei fatti ascritti agli imputati e la loro personalità, e, ai fini del diniego delle circostanze attenuanti generiche, l’ammontare del danno patrimoniale procurato. Peraltro nelle impugnative non vi è neppure l’indicazione specifica dei pretesi fattori attenuanti che i giudici di merito avrebbero omesso di apprezzare a favore degli interessati.
3.2. Pena accessoria di cui all’art. 216, comma 4, L.F.: illegittimità costituzionale. Non può essere accolto, neppure, il secondo dei motivi aggiunti presentati dalla difesa di PV per il tramite della memoria depositata in data 3 giugno 2017. La Corte territoriale si è conformata all’orientamento dominante nella giurisprudenza di questa Corte, secondo cui, in tema di bancarotta fraudolenta, la pena accessoria dell’inabilitazione all’esercizio di un’impresa commerciale e dell’incapacità di esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa ha la durata fissa ed inderogabile di dieci anni (Sez. 5, n. 15638 del 05/02/2015, Assello, Rv. 263267; Sez. 5, n. 41035 del 10/06/2014, Tesi, Rv. 260495; Sez. 5, n. 51526 del 18/10/2013, Bonalumi, Rv. 258665; Sez. 5, n. 30341 del 30/05/2012, Pinelli e altri, Rv. 253318; Sez. 5, n. 269 del 10/11/2010 Rv. 249500; Sez. 5, n. 17690 del 18/02/2010, Cassa Di Risparmio Di Rieti S.p.a. e altri, Rv. 247319; Sez. 5, n. 39337 del 20/09/2007, Bucci, Rv. 238211), tale interpretazione fondandosi sul tenore della lettera della legge, la quale, nell’ultimo comma dell’art. 216 sancisce che la condanna per uno dei fatti previsti in tale articolo importa le pene accessorie “per la durata di dieci anni”, mentre nell’ultimo comma dell’art. 217, che prevede la bancarotta semplice, stabilisce che la condanna importa la pena principale “fino a due anni”. Il giudice delle leggi, nella sentenza n.134 del 2012, evocata dallo stesso ricorrente, pur prendendo atto della inderogabilità della lettera dell’art. 216, comma 4, L.F. e dello stato del diritto vivente, ha affermato di non avere, in ragione dei limiti del proprio potere manipolativo delle norme, il potere di modificare il precetto normativo con un intervento “non obbligato” che valesse a renderlo conforme al dettato costituzionale e in particolare all’art. 27 Cost., tale potere spettando esclusivamente al legislatore perché è ad esso rimessa la scelta fra le opzioni che servono a rendere osservato il precetto costituzionale. Perdurante la validità delle riferite argomentazioni, la questione di legittimità dell’art. 216, comma 4, L.F. in relazione all’agli 3 e 27 della Costituzione, che si è chiesto a questa Corte di sollevare, è quindi manifestamente infondata.
4. La sentenza impugnata va, dunque, annullata senza rinvio limitatamente al delitto di cui al capo A) della rubrica perché estinto per prescrizione, con conseguente eliminazione della relativa pena di mesi sei di reclusione. I ricorsi devono essere rigettati nel resto.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata senza rinvio limitatamente alla imputazione ex art. 416 cod. pen., per essere il reato estinto per prescrizione ed elimina la relativa pena di mesi sei di reclusione. Rigetta nel resto i ricorsi.
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