CORTE DI CASSAZIONE, sezione penale, sentenza n. 52583 del 17 novembre 2017
Fallimento – Procedure concorsuali – Bancarotta fraudolenta documentale – Amministratore – Responsabilità – Sanzioni
Ritenuto in fatto
1. Con la sentenza impugnata la Corte di Appello di Milano ha confermato integralmente la condanna del predetto imputato già applicata dal Tribunale di Milano per il reato di bancarotta fraudolenta documentale.
Avverso la predetta sentenza ricorre l’imputato, per mezzo del suo difensore, affidando la sua impugnativa ad una unica ragione di doglianza.
1.1 Denunzia il ricorrente violazione e falsa applicazione degli artt. 216, comma 1, e 217, comma 2, I. fall.
Premesso che: il ricorrente era stato amministratore della società fallita solo dal maggio 2009 e detentore del 90 % delle quote sociali solo al momento del fallimento, e non già dal 2003, come erroneamente indicato nella sentenza impugnata; il ricorrente era stato nominato amministratore proprio nello sfortunato momento storico in cui la società debitrice era stata sottoposta a verifica fiscale incrociata da parte della G.d.F., che, peraltro, aveva sottoposto a sequestro tutta la documentazione contabile; l’odierno imputato era stato sottoposto a detenzione domiciliare dal mese di maggio 2010 al mese di agosto del medesimo anno; l’odierno ricorrente aveva tentato di collaborare con il curatore per la ricostruzione della contabilità sociale attraverso la consegna di una parte della stessa e l’indicazione della ubicazione della restante parte. Evidenziato, altresì, che: l’attività imprenditoriale della società debitrice era comunque cessata nel momento in cui l’imputato rivestiva la carica di amministratore giacché i tre modestissimi cantieri ancora aperti erano stati oggetto di cessione per recuperare liquidità che, poi, era stata riversata in favore dei creditori; i debiti maggiori della società fallenda, e cioè i debiti erariali, erano stati contratti prima della amministrazione del ricorrente e, dunque, ciò evidenziava una condotta di quest’ultimo non indirizzata a frodare le regioni dei creditori.
Tanto premesso ed evidenziato, la difesa della parte ricorrente denunzia la violazione di legge sopra menzionata sotto il profilo della mancanza dell’elemento soggettivo del reato contestato, atteso che il ricorrente non aveva contribuito all’insorgenza dell’elevato debito erariale e dunque allo stesso non poteva essere attribuito il pregiudizio paventato nella sentenza impugnata e che, peraltro, la documentazione contabile rilevante per la ricostruzione delle vicende societarie era conservata in un luogo fisico cui il ricorrente non poteva accedere in quanto nella disponibilità di un creditore della società fallita. Si evidenzia, altresì, che, dopo le indicazioni fornite dall’imputato, doveva essere il curatore a farsi parte diligente e recuperare la documentazione necessaria, a differenza di quanto avvenuto giacché il curatore aveva provveduto a chiudere immediatamente la procedura fallimentare.
Si denunzia pertanto la mancanza di motivazione in ordine alla necessità di ricondurre l’ipotesi delittuosa contestata nel diverso reato di bancarotta semplice documentale con le inevitabili conseguenze sul piano sanzionatorio.
Considerato in diritto
2. Il ricorso è inammissibile.
2.1 Va, preliminarmente, osservato come la parte oggi ricorrente non avesse, in sede di proposizione dei motivi di gravame, sollevato doglianza specifica in punto di riconducibilità dell’ipotesi delittuosa contestata nel paradigma applicativo del delitto di bancarotta semplice, anziché in quello di bancarotta fraudolenta documentale, di talché le censure qui sollevate per la prima volta innanzi al giudice di legittimità devono considerarsi, sotto questo pregiudiziale ed assorbente profilo, inammissibili in ragione della loro evidente tardività.
2.1.1 Osserva la Corte come, comunque, le doglianze così sollevate dalla difesa del ricorrente siano inammissibili per come formulate innanzi al giudice di legittimità.
Sul punto, è utile ricordare che, in relazione al contenuto della doglianza, la Corte di legittimità non può fornire una diversa lettura degli elementi di fatto, posti a fondamento della decisione di merito. La valutazione di questi elementi è riservata in via esclusiva al giudice di merito e non rappresenta vizio di legittimità la semplice prospettazione, da parte del ricorrente, di una diversa valutazione delle prove acquisite, ritenuta più adeguata. Ciò vale, in particolar modo, per la valutazione delle prove poste a fondamento della decisione. Ed infatti, nel momento del controllo della motivazione, la Corte di Cassazione non può stabile se la decisione del giudice di merito proponga la migliore ricostruzione dei fatti, né deve condividerne la giustificazione, ma deve limitarsi a verificare se questa giustificazione sia compatibile con il senso comune e con i limiti di una “plausibile opinabilità di apprezzamento”. Ciò in quanto l’art. 606 comma 1, lett. e, cod. proc. pen. non consente al giudice di legittimità una diversa lettura dei dati processuali o una diversa interpretazione delle prove, perché è estraneo al giudizio di cassazione il controllo sulla correttezza della motivazione in rapporto ai dati processuali. Piuttosto è consentito solo l’apprezzamento sulla logicità della motivazione, sulla base della lettura del testo del provvedimento impugnato. Detto altrimenti, l’illogicità della motivazione, censurabile a norma dell’art. 606, comma 1, lett e) cod. proc. pen., è quella evidente, cioè di spessore tale da risultare percepibile “ictu oculi”, in quanto l’indagine di legittimità sul discorso giustificativo della decisione ha un orizzonte circoscritto, dovendo il sindacato demandato alla Corte di cassazione limitarsi, per espressa volontà del legislatore, a riscontrare l’esistenza di un logico apparato argomentativo, senza possibilità di verifica della rispondenza della motivazione alle acquisizioni processuali.
Ciò posto, osserva la Corte come, nel caso di specie, sebbene la parte ricorrente abbia declinato il motivo di doglianza formalmente come un vizio di violazione di legge, tuttavia, nella sostanza, la censura deve essere inquadrata come la denunzia di un vizio argomentativo che attinge il tessuto motivatorio della sentenza e per il quale valgono i limiti di cognizione del giudizio di legittimità sopra tratteggiati.
Orbene, questa Corte non può non rilevare come le lagnanze sollevate dalla difesa del ricorrente in punto di ricostruzione dell’elemento soggettivo del reato, lungi dall’evidenziare eventuali aporie e contraddizioni interne della motivazione, siano, invero, dirette a sollecitarla ad una rivalutazione contenutistica degli elementi di prova già correttamente scrutinati dai giudici del merito e si pongano, pertanto, al di fuori del perimetro di cognizione del giudizio di legittimità.
Peraltro, la motivazione impugnata si connota in termini di sicura adeguatezza e logicità, e ciò anche in riferimento alla descrizione del dolo del reato di bancarotta documentale fraudolenta nella sua doppia veste di dolo generico e specifico.
Inoltre, la Corte distrettuale aveva fornito coerente ed esaustiva risposta argomentativa a tutte le doglianze già sollevate dall’imputato in sede di proposizione dei motivi di gravame, evidenziando, da un lato, come in realtà la documentazione della quale era stata richiesta la ostensione dal curatore era stata integralmente riconsegnata dagli operanti della G.d.F. al ricorrente che, dunque, non poteva così accampare scusanti alla mancata consegna della stessa e che, dall’altro, la detenzione preventiva dell’odierno imputato era stata, comunque, breve e, dunque, non poteva certo giustificare in alcun modo il ricorrente nella mancata consegna della documentazione sociale alla curatela fallimentare.
Ed ancora, la Corte di merito aveva evidenziato, nella suo corretto iter argomentativo, che nel periodo oggetto di contestazione e coincidente con quello di amministrazione sociale del ricorrente erano stati sottoscritti negozi rilevanti, come cessioni di rami d’azienda, così giustificando anche la condotta di occultamento della relativa documentazione contrattuale e contabile allo scopo di frodare le ragioni dei creditori.
Peraltro, corretto – sul piano logico-argomentativo e giuridico – anche l’ulteriore assunto contenuto nella sentenza impugnata secondo cui la consegna dell’hardwere da parte dell’imputato era avvenuta solo nel corso del giudizio e, dunque, del tutto tardivamente, allorquando la procedura fallimentare era stata già ampiamente chiusa, così non potendo incidere la riferita circostanza sulla valutazione di insussistenza dell’elemento soggettivo del reato oggetto di contestazione.
Ne consegue, sulla base dei suesposti argomenti, la inammissibilità del ricorso.
3. Alla inammissibilità consegue, ex art. 616 cod. proc. pen., la condanna del ricorrente al versamento, in favore della cassa delle ammende, di una somma che appare equo determinare in euro 2000.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento e della somma di Euro 2.000 in favore della Cassa delle Ammende.
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