CORTE DI CASSAZIONE, sezione penale, sentenza n. 57736 depositata il 28 dicembre 2017
Fallimento – Reato di bancarotta fraudolenta – Reato di cui all’art. 223, l.f
Ritenuto in fatto
1. Con sentenza emessa il 15/12/2009 il Tribunale di Reggio Calabria aveva affermato la responsabilità penale di M. G., in qualità di amministratore delegato della IIM.CO.T s.r.l., fallita il 15/10/2001, in relazione al reato di cui all’art. 223, comma 2, l.f., per aver cagionato il fallimento della società con dolo o per effetto di operazioni dolose (capo A), al reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale di cui agli artt. 223, comma 1, e 216 l.f., per aver distratto la somma di € 55.176,23, effettuando anticipazioni per i pagamenti di debiti della società E. s.r.l. (capo B), al reato di bancarotta fraudolenta documentale di cui agli artt. 223, comma 1, e 216 l.f., per aver falsificato i libri e le scritture contabili; affermava, altresì, la responsabilità penale di D’A. A. M. e B. L., in qualità di componenti del consiglio di amministrazione, per non aver impedito al M. le operazioni dolose (capo D), le distrazioni (capo E) e le falsificazioni delle scritture contabili (capo F); assolveva i componenti del collegio sindacale perché il fatto non costituisce reato.
Con sentenza emessa il 24/09/2015 la Corte di Appello di Reggio Calabria, in parziale riforma, ha dichiarato non doversi procedere in ordine ai reati di cui ai capi A, C, D ed F, per essere estinti per prescrizione, confermando nel resto la sentenza di primo grado, e rideterminando la pena inflitta a M. in anni tre e mesi sei di reclusione.
2. Avverso tale sentenza ricorre per cassazione il difensore di B. L., Avv. F. Neri, deducendo il vizio di violazione di legge, qui enunciato, ai sensi dell’art. 173 disp. att. cod. proc. pen., nei limiti strettamente necessari per la motivazione.
Lamenta che l’imputata, condannata per aver concorso nella bancarotta per distrazione di cui al capo E, avendo omesso gli ordinari obblighi di controllo sull’operato dell’amministratore delegato, in quanto moglie del dominus del gruppo, non avesse consapevolezza del possibile depauperamento del patrimonio sociale, anche in ragione della carica del tutto formale rivestita (secondo quanto dichiarato da D’A. A.); in altri termini, i membri del C.d.A. non partecipavano in concreto alle decisioni e alle scelte dell’azienda, e la modesta anticipazione della somma di € 55.176,23 a favore di altra società non poteva essere ritenuta idonea a cagionare un danno, perché la INCOT aveva un volume d’affari significativo; in ogni caso, l’imputata non era a conoscenza del pagamento eseguito dall’amministratore; inoltre, l’art. 2392 c.c., come novellato nel 2003, riduce gli oneri e le responsabilità degli amministratori.
3. Ricorre per cassazione, altresì, il difensore di M. G., Avv. G. V., deducendo i seguenti motivi, qui enunciati, ai sensi dell’art. 173 disp. att. cod, proc. pen., nei limiti strettamente necessari per la motivazione.
3.1. Violazione di legge in relazione agli artt. 157, 161, comma 2, cod. pen., e 10 I. 251/2005: lamenta l’omessa dichiarazione di estinzione per prescrizione in relazione al reato di cui al capo F.
3.2. Violazione di legge in relazione alla rideterminazione della pena: lamenta che in motivazione la Corte territoriale avesse indicato la pena di anni 3 e mesi 3, e non di anni 3 e mesi 6 indicata in dispositivo; in ogni caso, non ha motivato il trattamento sanzionatorio, nonostante fossero stati esclusi i capi A e C; pertanto, l’originaria pena inflitta in primo grado, di 4 anni di reclusione, avrebbe dovuto essere rideterminata in anni 3, o al di sotto di tale soglia, anche tenendo conto dell’incensuratezza dell’imputato; deduce, infine, che non siano state considerate le deduzioni difensive contenute nell’appello, con le quali si evidenziava la natura colposa della condotta, e la risalenza nel tempo, in ordine alle quali lamenta una motivazione apparente con riferimento alla contestata condotta di dissipazione.
3.3. Violazione di legge in relazione agli artt. 157 e 161 cod. pen., e agli artt. 223, comma 1, e 216, comma 1, e 219, comma 1, l.f., con riferimento alla sussistenza del danno di rilevante gravità: deduce che il curatore fallimentare avesse definito il comportamento dell’imputato come colposo, alludendo alla sua estraneità alle vicende della compagine, alla sua obbedienza passiva al volere dei soci; lamenta che non sia stato chiarito perché un prestito ad una società del gruppo configuri un’operazione di dissipazione, in quanto il “prestito” non equivale a perdita, se non accompagnata dalla certezza patrimoniale della impossibilità di restituzione. Sarebbe, poi, in conferente, secondo il ricorrente, il richiamo all’art. 2932 c.c., in quanto la società non si è costituita parte civile. Inoltre, sarebbe immotivato il riconoscimento della sussistenza dell’aggravante del danno grave. Escludendo l’applicazione della circostanza ad effetto speciale, anche il reato di cui al capo B sarebbe estinto per prescrizione.
Considerato in diritto
1. Il ricorso di M. G. è inammissibile.
1.1. Il primo motivo è manifestamente infondato, in quanto il capo F – in relazione al quale si lamenta l’omessa dichiarazione di estinzione del reato per prescrizione – non risulta contestato a M. G., bensì a D’A. A. M. e B. L., per avere omesso, quali componenti del consiglio di amministrazione, di impedire a M. G. la falsificazione delle scritture contabili a lui contestate al capo C.
E, in ordine al capo C, la Corte territoriale ha già dichiarato l’estinzione del reato per prescrizione.
1.2. Il secondo motivo è inammissibile.
Con riferimento alla divergenza, nell’individuazione della pena detentiva, tra dispositivo e motivazione, il contrasto tra dispositivo e motivazione non determina nullità della sentenza, ma si risolve con la logica prevalenza dell’elemento decisionale su quello giustificativo (Sez. 6, n. 7980 del 01/02/2017, Esposito, Rv. 269375); invero, in caso di difformità tra dispositivo e motivazione, il primo prevale sulla seconda, in quanto il dispositivo costituisce l’atto con il quale il giudice estrinseca la volontà della legge nel caso concreto, mentre la motivazione ha una funzione esplicativa della decisione adottata (Sez. 2, n. 15986 del 07/01/2016, Marzico, Rv. 266717).
Le ulteriori doglianze sono inammissibili, in quanto, a prescindere dal rilievo che la pena inflitta (pari ad anni 3 e mesi 6 di reclusione) è stata determinata in prossimità del minimo edittale, è pacifico che la graduazione della pena, anche in relazione agli aumenti ed alle diminuzioni previsti per le circostanze aggravanti ed attenuanti, rientra nella discrezionalità del giudice di merito, che la esercita, cosi come per fissare la pena base, in aderenza ai principi enunciati negli artt. 132 e 133 cod. pen.; ne discende che è inammissibile la censura che, nel giudizio di cassazione, miri ad una nuova valutazione della congruità della pena la cui determinazione non sia frutto di mero arbitrio o di ragionamento illogico e sia sorretta da sufficiente motivazione (ex multis, Sez. 5, n. 5582 del 30/09/2013, dep. 2014, Ferrario, Rv. 259142).
Nel caso in cui venga irrogata una pena prossima al minimo edittale, l’obbligo di motivazione del giudice si attenua, talché è sufficiente il richiamo al criterio di adeguatezza della pena, nel quale sono impliciti gli elementi di cui all’art. 133 cod. pen. (Sez. 2, n. 28852 del 08/05/2013, Taurasi, Rv. 256464; Sez. 4, n. 46412 del 05/11/2015, Scaramozzino, Rv. 265283: “nel caso in cui venga irrogata una pena al di sotto della media edittale, non è necessaria una specifica e dettagliata motivazione da parte del giudice, essendo sufficiente il richiamo al criterio di adeguatezza della pena, nel quale sono impliciti gli elementi di cui all’art. 133 cod. pen.”).
Tanto premesso, nel caso in esame, la pena inflitta è stata determinata in prossimità del minimo edittale (di soli sei mesi superiore), e la motivazione ha evidenziato la gravità dei reati e la capacità a delinquere dell’imputato,
Infine, la doglianza con la quale si lamenta l’omessa considerazione delle deduzioni difensive contenute nell’appello, con le quali si evidenziava la natura colposa della condotta, e la risalenza nel tempo, è inammissibile, in quanto censura il trattamento sanzionatorio sulla base di una lettura alternativa del compendio probatorio, non accolta dall’accertamento giurisdizionale impugnato.
1.3. Il terzo motivo, concernente l’aggravante del danno di rilevante gravità, è manifestamente infondato.
Con riferimento alla doglianza relativa al “prestito” ad una società del gruppo, che non potrebbe essere considerata, secondo il ricorrente, condotta di dissipazione, va ribadito il consolidato orientamento di questa Corte secondo cui il reato di bancarotta fraudolenta per distrazione sussiste anche nel caso di imprese collegate tra loro, qualora gli atti di disposizione patrimoniale, privi di seria contropartita, siano eseguiti a favore di una società del medesimo gruppo, poiché il collegamento societario ha natura meramente economica e non scalfisce il principio di autonomia della singola persona giuridica (Sez. 5, n. 29896 del 01/07/2002, Arienti, Rv. 222387; Sez. 5, n. 5032 del 17/03/1995, Degli Antoni, Rv. 201318).
Nel caso in esame, la condotta distrattiva accertata concerneva i prestiti erogati dalla INCOT in favore della E. s.r.l., per un valore di € 55.176,23, senza alcuna precostituzione di idonee garanzie per la restituzione dell’importo e dei relativi interessi.
Con riferimento all’aggravante del danno di rilevante gravità, va innanzitutto rilevata l’inammissibilità della doglianza, trattandosi di motivo nuovo, non dedotto con l’atto di appello, oltre che generico, limitandosi ad una mera contestazione della sussistenza del danno per la società fallita.
In ogni caso, va rammentato, al riguardo, che, in tema di reati fallimentari, l’entità del danno provocato dai fatti configuranti bancarotta patrimoniale va commisurata al valore complessivo dei beni che sono stati sottratti all’esecuzione concorsuale, piuttosto che al pregiudizio sofferto da ciascun partecipante al piano di riparto dell’attivo, ed indipendentemente dalla relazione con l’importo globale del passivo (Sez. 5, n. 49642 del 02/10/2009, Olivieri, Rv. 245822; Sez. 5, n. 8037 del 03/06/1998, Urso G, Rv. 211637, in una fattispecie in cui erano stata sottratti beni per un valore di circa sessantaquattro milioni, rappresentanti il quinto del passivo).
Tanto premesso, non esistono, né sono stati dedotti, elementi per escludere l’aggravante del danno di rilevante gravità, corrispondente, nel caso in esame, ad una distrazione di oltre 55 mila euro, sottratti alla garanzia patrimoniale dei creditori della società fallita.
E, dunque, immune da censure l’omessa declaratoria di estinzione per prescrizione del reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale contestata al capo B, in quanto aggravato dal danno di rilevante gravità.
2. Il ricorso di B. L. è inammissibile.
Le doglianze proposte si concentrano sull’asserita mancanza di dolo dell’imputata, che, si sostiene, era la moglie del dominus del gruppo societario (M. G.), e rivestiva la qualità meramente formale di componente della consiglio di amministrazione, in tal senso restando estranea alla concreta gestione della società fallita.
Tali censure sono inammissibili, in quanto si risolvono in mere doglianze sulla ricostruzione dei fatti, non consentite in sede di legittimità, poiché aventi ad oggetto, in realtà, non già la motivazione, in quanto mancante, contraddittoria o illogica, bensì la valutazione probatoria (Sez. U, n. 2110 del 23/11/1995, Fachini, Rv. 203767; Sez. U, n. 6402 del 30/04/1997, Dessimone, Rv. 207944; Sez. U, n. 24 del 24/11/1999, Spina, Rv. 214794).
Il controllo di legittimità, infatti, concerne il rapporto tra motivazione e decisione, non già il rapporto tra prova e decisione, sicché il ricorso per cassazione che devolva il vizio di motivazione, per essere valutato ammissibile, deve rivolgere le censure nei confronti della motivazione posta a fondamento della decisione, non già nei confronti della valutazione probatoria sottesa, che, in quanto riservata al giudice di merito, è estranea al perimetro cognitivo e valutativo della Corte di Cassazione.
Al contrario, le censure proposte concernono la ritenuta erroneità e/o parzialità della valutazione probatoria formulata dal giudice di merito, e prospettano una lettura alternativa del compendio probatorio, sollecitando una non consentita rivalutazione del merito.
Oltre a sollecitare una inammissibile rivalutazione del compendio probatorio, non consentita in sede di legittimità, va evidenziato che la sentenza impugnata ha affermato la piena consapevolezza, da parte della B., delle condotte depauperatorie poste in essere dal marito M. G. – in veste di amministratore delegato della INCOT e dominus dell’intero gruppo societario -, non soltanto per il ruolo da ella assunto di componente del consiglio di amministrazione della fallita, che comportava l’assunzione di obblighi di controllo e di intervento sull’operato dell’amministratore delegato, ma altresì per il ruolo di titolare di quote (insieme alla figlia D’A. A.) della E. s.r.l., la società beneficiaria della contestata distrazione.
Tanto premesso, la deduzione concernente l’asserita mancanza di dolo è del tutto assertiva, e priva di qualsivoglia riscontro fattuale, e – senza che le censure coinvolgano i c.d. “segnali d’allarme” (la percezione di elementi dai quali, per il loro contenuto informativo, si desume la rappresentazione del fatto illecito oggetto degli obblighi di vigilanza e controllo, e la conseguente volontà omissiva) – non si confronta con il principio, pacificamente sostenuto dalla giurisprudenza consolidata di questa Corte, secondo cui l’amministratore (con o senza delega) è penalmente responsabile, ex art. 40, comma 2, cod. pen., per la commissione dell’evento che viene a conoscere (anche al di fuori dei prestabiliti mezzi informativi) e che, pur potendo, non provvede ad impedire, posto che a tal riguardo l’art. 2932 cod. civ., nei limiti della nuova disciplina dell’art. 2381 cod. civ., risulta immutato (Sez. 5, n. 23838 del 04/05/2007, Amato, Rv. 237251, secondo cui, dal principio affermato, ne deriva, altresì, che detta responsabilità richiede la dimostrazione, da parte dell’accusa, della presenza (e della percezione da parte degli imputati) di segnali perspicui e peculiari in relazione all’evento illecito nonché l’accertamento del grado di anormalità di questi sintomi, non in linea assoluta ma per l’amministratore privo di delega, onere che qualora non sia assolto dal ricorrente, nel silenzio della sentenza impugnata, si converte nella richiesta di una ricostruzione storica del fatto, improponibile in sede di legittimità; in senso conforme, Sez. 5, n. 3708 del 30/11/2011, dep. 2012, Ballatori, Rv, 252945: “in tema di reati societari e fallimentari, gli amministratori – pur a seguito della riforma introdotta con il d.lgs. n. 6 del 2003, che ha modificato l’art. 2392 cod. civ., riducendo gli oneri e le responsabilità degli amministratori senza delega – sono penalmente responsabili, ex art. 40, comma 2, cod. pen., per la commissione degli eventi che vengono a conoscere (anche al di fuori del prestabiliti mezzi informativi) e che, pur potendo, non provvedono ad impedire; detta responsabilità può derivare dalla dimostrazione della presenza di segnali significativi in relazione all’evento illecito, nonché del grado di anormalità di questi sintomi”- Sez. 5, n. 36764 del 24/05/2006, Bevilacqua, Rv. 234607: “L’amministratore di società, che, contravvenendo all’obbligo contenuto nell’art. 2392 cod. civ. di impedire non solo gli atti pregiudizievoli per la società ma anche quelli pregiudizievoli per i soci, i creditori o i terzi, non adempie al suo obbligo di garanzia, concorre, ex art. 40 cpv. cod. pen., per omissione, consistita nella mancata vigilanza e nella mancata attivazione per impedire l’adozione di atti di gestione pregiudizievoli, nei delitti fallimentari commessi da altri amministratori, dal momento che anche gli interessi tutelati dalle norme penali fallimentari sono compresi tra quelli affidati alle sue cure”) Sez. 5, n. 36595 del 16/04/2009, Bossio, Rv. 245138; Sez. 5, n. 9736 del 10/02/2009, Cacioppo, Rv. 243023; Sez. 5, n. 32352 del 07/03/2014, Tanzi, Rv. 261938; Sez. 5, n. 23000 del 05/10/2012, dep. 2013, Berlucchi, Rv. 256939).
3. Alla declaratoria di inammissibilità dei ricorsi consegue la condanna al pagamento delle spese processuali e la corresponsione di una somma di denaro in favore della cassa delle ammende, somma che si ritiene equo determinare in Euro 2.000,00: infatti, l’art. 616 cod. proc. pen. non distingue tra le varie cause di inammissibilità, con la conseguenza che la condanna al pagamento della sanzione pecuniaria in esso prevista deve essere inflitta sia nel caso di inammissibilità dichiarata ex art. 606 cod. proc. pen., comma 3, sia nelle ipotesi di inammissibilità pronunciata ex art. 591 cod.proc.pen.
P.Q.M.
Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna ciascun ricorrente al pagamento delle spese del procedimento e della somma di € 2.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.
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