CORTE DI CASSAZIONE, sezione penale, sentenza n. 8040 depositata il 20 febbraio 2018
Imposte indirette – IVA – Omesso versamento – Violazioni – Sanzioni penali
Ritenuto in fatto
1. Con sentenza del 25.10.2016, depositata in data 10.01.2017, la Corte d’appello di Perugia confermava la sentenza del 1.03.2016 del tribunale di Spoleto, appellata dal L., che lo aveva condannato alla pena di 4 mesi di reclusione, in quanto riconosciuto colpevole del reato di omesso versamento IVA, in quanto nella qualità di legale rappresentante della L. s.n.c., ometteva di versare l’IVA dovuta in relazione al periodo di imposta 2008, per un ammontare complessivo di € 322.651,00, in relazione a fatto contestato come commesso secondo le modalità esecutive e spazio – temporali meglio descritte nel capo di imputazione, in data 28.12.2009.
2. Contro la sentenza ha proposto ricorso per cassazione l’imputato, a mezzo del difensore di fiducia iscritto all’albo ex art. 613 c.p.p., prospettando due motivi, di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione ex art. 173 disp. att. cod. proc. pen.
2.1. Deduce, con il primo e con il secondo motivo, da illustrarsi congiuntamente attesa l’intima connessione esistente tra i profili di doglianza mossi, il vizio di cui all’art. 606, lett. b) ed e), c.p.p., per violazione/o falsa applicazione dell’art. 10- ter, d.Igs. n. 74 del 2000 nonché degli artt. 125, 192, 533 e 546, cod. proc. pen., e correlato vizio di motivazione.
In sintesi, sostiene la difesa del ricorrente, dopo aver ricordato la struttura bifasica del reato in esame, che presuppone una condotta attiva ed una condotta omissiva, che è pacifico dagli atti che l’imputato non ebbe a sottoscrivere la dichiarazione annuale IVA, non ponendo quindi in essere la parte di condotta attiva richiesta dalla fattispecie penale in esame, essendo infatti la sottoscrizione stata apposta da persona diversa dall’imputato, ossia da C.L.; erroneamente, peraltro, i giudici di appello avrebbero affermato che quest’ultima agiva per conto del L. e per quest’ultimo operava; ed invero, si afferma, non vi sarebbe alcuna prova in atti sulla cui base si possa pervenire ad affermare che il L. ebbe a conferire alla Clarita il potere di agire in nome e per conto dell’imputato, ai fini della sottoscrizione della dichiarazione mod. SP 2009; se così fosse stato, si aggiunge, la C.L. avrebbe dovuto rispondere a titolo di concorso nel reato, circostanza esclusa nel caso di specie, essendo stata assolta per non aver commesso il fatto; il giudice di appello sarebbe incorso nel vizio di travisamento probatorio, fondando il proprio convincimento su prova inesistente e, del resto, lo stesso capo di imputazione individua la Clarita come socia e firmataria della dichiarazione IVA 2009 e non quale rappresentante del L.M..
Considerato in diritto
3. Il ricorso è inammissibile.
4. Ed invero, con riferimento al motivo di doglianza unitario oggetto del ricorso, la Corte d’appello motiva ricordando che, come già evidenziato dal primo giudice, la C.L., nel presentare la dichiarazione mod. SP 2009 “agiva in qualità di rappresentante firmataria della dichiarazione stessa, agiva quindi per conto dell’attuale imputato e cioè del legale rappresentante della L. s.n.c. tenuta alla presentazione ed al successivo pagamento del debito d’imposta”; si legge, ancora, nella stessa sentenza, che non poteva sostenersi che l’imputato non avesse posto in essere la parte attiva della fattispecie criminosa, poiché “anche se la presentazione è stata effettuata da altri, questi agiva per conto del L. e per il L. operava”.
5. Al cospetto di tale, pur sintetico, apparato argomentativo, le doglianze difensive si appalesano, anzitutto, generiche per aspecificità, non confrontandosi con le argomentazioni svolte dalla Corte d’appello a confutazione dell’identico motivo di appello con cui si sollevava la doglianza, “replicata” davanti a questa Suprema Corte. Il ricorso si presenta quindi inammissibile sotto tale profilo, trovando applicazione il principio generale secondo cui è inammissibile il ricorso per cassazione fondato su motivi non specifici, ossia generici ed indeterminati, che ripropongono le stesse ragioni già esaminate e ritenute infondate dal giudice del gravame o che risultano carenti della necessaria correlazione tra le argomentazioni riportate dalla decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell’impugnazione (Sez. 4, n. 18826 del 09/02/2012 – dep. 16/05/2012, Pezzo, Rv. 253849).
6. Quanto, poi, all’eccezione secondo cui risulterebbe pacificamente dagli atti che l’imputato non ebbe a sottoscrivere la dichiarazione annuale IVA, non ponendo quindi in essere la parte di condotta attiva richiesta dalla fattispecie penale in esame, essendo infatti la sottoscrizione stata apposta da persona diversa dall’imputato, ossia da C.L., con asserito travisamento probatorio da parte della Corte d’appello, si osserva quanto segue.
Anzitutto, l’asserzione del ricorrente, secondo cui si verserebbe in un caso di travisamento probatorio, non tiene conto della giurisprudenza consolidata di questa Corte secondo cui nel caso di cosiddetta “doppia conforme”, il vizio del travisamento della prova, per utilizzazione di un’informazione inesistente nel materiale processuale o per omessa valutazione di una prova decisiva, può essere dedotto con il ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 606, comma primo, lett. e) cod. proc. pen. solo nel caso in cui il ricorrente rappresenti – con specifica deduzione – che il dato probatorio asseritamente travisato è stato per la prima volta introdotto come oggetto di valutazione nella motivazione del provvedimento di secondo grado (Sez. 2, n. 7986 del 18/11/2016 – dep. 20/02/2017, La Gumina e altro, Rv. 269217). Circostanza, quest’ultima, che non ricorre nel caso in esame.
7. In secondo luogo, poi, si osserva, l’affermazione secondo cui non vi sarebbe alcuna prova in atti sulla cui base si possa pervenire ad affermare che il L. ebbe a conferire alla C. il potere di agire in nome e per conto dell’imputato, ai fini della sottoscrizione della dichiarazione mod. SP 2009, è priva di qualsiasi supporto probatorio, in quanto smentita dalla stessa sentenza di appello, che richiama quanto già accertato dal giudice di prime cure, secondo cui la C.L., nel presentare la dichiarazione mod. SP 2009 “agiva in qualità di rappresentante firmataria della dichiarazione stessa, agiva quindi per conto dell’attuale imputato e cioè de/legale rappresentante della L. s.n.c. tenuta alla presentazione ed al successivo pagamento del debito d’imposta”. Attraverso la censura difensiva, quindi, la difesa del ricorrente si risolve nel tentativo di chiedere a questa Corte di svolgere un apprezzamento di merito, sostituendosi alla Corte d’appello ed al primo giudice, in particolare censurando non il procedimento valutativo svolto dai giudici di merito, ma chiedendo alla Corte di Cassazione di esaminare gli atti del giudizio di merito al fine di verificare se esistessero o meno quegli elementi di prova (labilmente contestati dalla difesa del ricorrente), su cui i giudici di merito hanno fondato il giudizio di responsabilità, al fine di giungere ad affermare che “anche se la presentazione è stata effettuata da altri, questi agiva per conto del L. e per il L. operava”. Non può certo pretendersi in quanto inibito dalla cognizione di pura legittimità di questa Corte, infatti, che la Cassazione esamini gli atti del processo di merito al fine di verificare se esista o meno una delega conferita alla C.L. ad agire in nome e per conto del L., quale legale rappresentante, che la legittimasse a sottoscrivere la dichiarazione IVA. Del resto, si osserva, è onere del ricorrente, che lamenti l’omessa o travisata valutazione di specifici atti processuali, provvedere alla trascrizione in ricorso dell’integrale contenuto degli atti medesimi, nei limiti di quanto già dedotto, perché di essi è precluso al giudice di legittimità l’esame diretto, a meno che il “fumus” del vizio non emerga all’evidenza dalla stessa articolazione del ricorso, circostanza da escludersi nel caso di specie (v., ex multis: Sez. 1, n. 6112 del 22/01/2009 – dep. 12/02/2009, Bouyahia, Rv. 243225).
8. Infine, rileva il Collegio la manifesta infondatezza anche in diritto del motivo di ricorso, atteso che questa Corte (Sez. 3, n. 18834 del 19 aprile 2017, non massimata), ha chiarito che la responsabilità penale per il reato di omesso versamento dell’IVA, di cui all’articolo 10-ter del D.Igs. 74/2000, appartiene al soggetto che ricopre la carica sociale di legale rappresentante al momento del termine ultimo per il versamento dell’imposta, ossia il termine ultimo per il versamento dell’acconto relativo al periodo di imposta successivo. Il soggetto in questione, infatti, è gravato da un generale obbligo di controllo preventivo di natura contabile sugli ultimi adempimenti fiscali: ciò comporta una responsabilità quantomeno a titolo di dolo eventuale, tanto più in quei casi in cui il debito fiscale non può considerarsi occulto ma risulta chiaramente dalla dichiarazione sottoscritta da un terzo, come risulterebbe avvenuto nel caso di specie. Difatti su tale soggetto, in ragione della carica ricoperta, grava l’obbligazione tributaria in presenza di debito ben esposto nella stessa, anche se non risulta essere stato egli a sottoscrivere la dichiarazione, redatta da altro soggetto. Del resto, non deve essere dimenticato che la responsabilità per i reati previsti dal D.Igs. 74/2000 è attribuita all’amministratore, individuato secondo le norme civilistiche di cui agli artt. 2380 e ss., artt. 2455 e 2475 c.c. cioè a coloro che rappresentano e gestiscono l’ente. Costoro, in quanto tali, sono tenuti a presentare le dichiarazioni rilevanti per l’ordinamento tributario di cui al D.Igs. n. 74 del 2000, art. 1, lett. c) ed e), adempiendo agli obblighi conseguenti, e ciò sulla base del principio secondo cui colui che assume la carica di amministratore, si espone volontariamente a tutte le conseguenze che possono derivare da pregresse inadempienze. Né la legge prevede in maniera espressa che il sottoscrittore debba essere solo chi ha la rappresentanza legale dell’ente. La legge prevede, infatti (art. 8, comma quinto, d.P.R. 22 luglio 1998, n. 322 “Regolamento recante modalità per la presentazione delle dichiarazioni relative alle imposte sui redditi, all’imposta regionale sulle attività produttive e all’imposta sul valore aggiunto, ai sensi dell’articolo 3, comma 136, della legge 23 dicembre 1996, n. 662”, che rinvia quanto alla sottoscrizione all’art. 1, comma quarto, stesso decreto), che le dichiarazioni IVA devono essere sottoscritte, a pena di nullità, dal rappresentante legale o, in mancanza, dal soggetto che ne ha l’amministrazione, anche di fatto, o dal rappresentante negoziale, mentre se la società ha la sede legale o amministrativa o l’oggetto principale dell’attività all’estero, la dichiarazione può essere sottoscritta da un rappresentante per i rapporti tributari in Italia.
A prescindere dalla coincidenza tra chi presenta la dichiarazione e chi la sottoscrive, in ogni caso, si osserva che la fattispecie penale tributaria individua il disvalore penale della condotta nel comportamento inadempiente all’obbligo di effettuare il versamento, attesa la struttura mista della fattispecie (commissiva, quanto alla presentazione della dichiarazione; omissiva, quanto al mancato versamento, momento che qualifica la rilevanza penale del fatto). Ciò comporta, infatti, che la configurabilità del dolo normativamente richiesto per la punibilità dell’agente deve essere necessariamente riferita all’unica condotta penalmente rilevante, ossia al momento omissivo che incentra su di sé l’intero disvalore della fattispecie, volta a tutelare l’interesse dell’Erario alla riscossione delle somme dovute a titolo di Iva in base alla relativa dichiarazione. Ed è indubbio che, a tal data (27.12) l’imputato rivestisse il ruolo di rappresentante legale dell’ente e che, nonostante fosse pienamente consapevole di dover versare l’IVA risultante dalla dichiarazione – non rileva se sottoscritta da egli o da un suo “delegato” – non ebbe a provvedere al versamento, con conseguente integrazione, anche soggettiva, del fatto-reato.
9. Alla stregua delle considerazioni che precedono il ricorso deve essere, dunque, dichiarato inammissibile. Alla luce della sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che «la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità», alla declaratoria dell’inammissibilità medesima consegue, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen., l’onere delle spese del procedimento nonché quello del versamento della somma, in favore della Cassa delle ammende, equitativamente fissata in 2.000,00 euro.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento e della somma di € 2.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.
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