CORTE DI CASSAZIONE, sezione penale, sentenza n. 8041 depositata il 20 febbraio 2018
Reati di emissione di fatture per operazioni inesistenti – Dichiarazione fraudolenta – Distruzione/occultamento di scritture contabili
Ritenuto in fatto
1. Con sentenza del 6.12.2016, depositata in data 3.03.2017, il tribunale di Bergamo condannava C. A., M. N. e M. F. (la cui posizione processuale non è investita dall’impugnazione del P.G.), alla pena, rispettivamente, di 3 anni di reclusione i primi due e di 8 mesi di reclusione quanto al terzo, in quanto riconosciuti colpevoli, i primi due, dei reati di emissione di fatture per operazioni inesistenti (capo a), di dichiarazione fraudolenta ex art. 2, d. Igs. n. 74 del 2000 (capo b) e di distruzione/occultamento di scritture contabili (capo c), e, il terzo, del solo reato sub c), in relazione a fatti contestati come commessi secondo le modalità esecutive e spazio – temporali meglio descritte in ciascun capo di imputazione; con la medesima sentenza, il tribunale irrogava ai primi due imputati le pene accessorie di legge (interdizione dai pubblici uffici per anni 5; quanto alle pp.aa. previste dall’art. 12, lett. a), b) e c), d. Igs. n. 74 del 2000, ne indicava la durata in 1 anno; assolveva, infine, il M. F. dai reati sub a) e sub b) con la formula perché il fatto non costituisce reato.
2. Contro la sentenza ha proposto ricorso per cassazione il Procuratore Generale della Repubblica presso la Corte d’appello di BRESCIA, deducendo due motivi, di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione ex art. 173 disp. att. cod. proc. pen.
2.1. Deduce, con il primo motivo, il vizio di cui all’art. 606, lett. b), c.p.p., per violazione/o falsa applicazione dell’art. 84, co. 4, c.p.
In sintesi, sostiene il PG ricorrente, che, essendo stata contestata e ritenuta per gli imputati la recidiva (in particolare, reiterata, specifica ed infraquinquennale per il M.; reiterata ed infraquinquennale per il C.), l’aumento finale sarebbe stato inferiore al limite minimo previsto dall’art. 81, co. 4, c.p., in quanto non poteva essere inferiore a 10 mesi di reclusione.
2.2. Deduce, con il secondo motivo, il vizio di cui all’art. 606, lett. b), c.p.p., per violazione/o falsa applicazione dell’art. 37, c.p., con riferimento alla durata delle pene accessorie temporanee di cui all’art. 12, co. 1, d. Igs. n. 74 del 2000.
In sintesi, sostiene il PG ricorrente, che erroneamente il tribunale avrebbe applicato le pene accessorie ex art. 12, d. Igs. citato determinandone la durata, per quelle temporanee, in 1 anno; diversamente, per la durata doveva farsi riferimento all’art. 37, c.p., sicché la stessa, giusta quanto affermato dalle Sezioni Unite di questa Corte con la sentenza n. 6240/2014, doveva essere uniformata alla durata della pena principale inflitta.
Considerato in diritto
3. Il ricorso è fondato quanto al secondo motivo, mentre dev’essere rigettato in relazione al primo motivo.
4. Ed invero, con riferimento al primo motivo, il tribunale, riconosciuta la recidiva nei termini dianzi illustrati per entrambi gli imputati, ha determinato la pena base per il più grave reato sub a), nel minimo edittale di 1 anno e 6 mesi di reclusione, aumentandola per la recidiva a 2 anni e 6 mesi di reclusione (dunque aumentandola di 12 mesi), aumentandola di ulteriore 3 mesi di reclusione per ciascuno dei reati in continuazione di cui al capo b) ed al capo c), giungendo alla pena finale di 3 anni di reclusione.
Secondo il PG il tribunale sarebbe incorso in errore in quanto avrebbe violato l’art. 81, co. 4, c.p., sostenendo che l’aumento finale sarebbe stato inferiore al limite minimo da tale norma previsto, in quanto non poteva essere inferiore a 10 mesi di reclusione. Orbene, l’art. 81, co. 4, c.p. così prevede: “Fermi restando i limiti indicati al terzo comma, se i reati in concorso formale o in continuazione con quello più grave sono commessi da soggetti ai quali sia stata applicata la recidiva prevista dall’articolo 99, quarto comma, l’aumento della quantità di pena non può essere comunque inferiore ad un terzo della pena stabilita per il reato più grave”. Orbene, in applicazione di tale norma, l’aumento della quantità di pena non poteva essere comunque inferiore ad un terzo della pena stabilita per il reato più grave, nella specie individuato nel minimo edittale previsto per il reato sub a) di 1 anno e 6 mesi di reclusione, ossia in 18 mesi di reclusione; in definitiva, non poteva essere inferiore a 6 mesi di reclusione, donde nessuna violazione risulta essere stata commessa dal tribunale che ha infatti aumentato di 6 mesi di reclusione (3 mesi di reclusione per ciascuno dei reati in continuazione di cui al capo b) ed al capo c). Il motivo è quindi infondato.
5. Diversamente deve ritenersi quanto al secondo motivo.
Ed invero, il tribunale ha irrogato agli imputati, oltre la pena accessoria ex art. 12, co. 2, d. Igs. n. 74 del 2000 dell’interdizione dai pubblici uffici per anni 3 (e non 5, come erroneamente indicato in dispositivo), anche le pene accessorie di cui all’art. 12, comma primo, lettere da a) ad e) del d. Igs. n. 74 del 2000, individuando la durata relativa alle pene sub a), b) e c) in 1 anno.
Orbene, l’art. 12 citato, con riferimento alle pene accessorie temporanee, prevede che la condanna per taluno dei delitti previsti dal presente decreto importa: a) l’interdizione dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese per un periodo non inferiore a sei mesi e non superiore a tre anni; b) l’incapacità di contrattare con la pubblica amministrazione per un periodo non inferiore ad un anno e non superiore a tre anni; c) l’interdizione dalle funzioni di rappresentanza e assistenza in materia tributaria per un periodo non inferiore ad un anno e non superiore a cinque anni.
Il PG ricorrente, richiamando l’arresto delle Sezioni Unite di questa Corte, ha impugnato la decisione del tribunale, richiamando il principio secondo cui sono riconducibili al novero delle pene accessorie la cui durata non è espressamente determinata dalla legge penale quelle per le quali sia previsto un minimo e un massimo edittale ovvero uno soltanto dei suddetti limiti, con la conseguenza che la loro durata deve essere dal giudice uniformata, ai sensi dell’art. 37 cod. pen., a quella della pena principale inflitta (Sez. U, n. 6240 del 27/11/2014 – dep. 12/02/2015, B, Rv. 262328).
6. Il motivo è fondato.
E’ ben vero che parte della giurisprudenza di questa Corte, successiva alla decisione delle Sezioni Unite, è nel senso che le pene accessorie temporanee conseguenti la condanna per reati tributari previste dall’art. 12 del D.lgs. n.74 del 2000 hanno limiti edittali minimi e massimi prefissati dal legislatore ed, in relazione ad esse, non opera il principio dell’uniformità temporale tra pena accessoria e pena principale, ma deve essere il giudice, nell’ambito dell’intervallo temporale indicato, a stabilire la concreta durata della pena accessoria da irrogare (Sez. 3, n. 4916 del 14/07/2016 – dep. 02/02/2017, Bari, Rv. 269263).
Ritiene tuttavia il Collegio che – a parte il rilievo che tale decisione, pur successiva all’arresto delle Sezioni Unite, non pare confrontarsi con il decisum del Supremo Collegio – non vi siano ragioni per doversi discostare dall’indirizzo interpretativo cui sono pervenute le Sezioni Unite di questa Corte.
Viene in rilievo, in tal senso, la considerazione che l’art. 37 cod. pen. detta un criterio generale di applicazione delle pene accessorie, la cui durata – qualora essa “non è espressamente determinata” – è legata a quella della pena principale inflitta: il carattere generale della disciplina in esame trova conferma, come si vedrà, nella regola sussidiaria stabilita dal secondo periodo dello stesso art. 37 cod. pen., in forza della quale la durata della pena accessoria in nessun caso può superare il limite minimo e quello massimo stabiliti per ciascuna specie di essa.
7. La disciplina in esame deve essere applicata nel caso in cui la pena accessoria sia comminata attraverso la previsione di un limite minimo “o” di un limite massimo di durata: è il caso, ad esempio, della disciplina L. Fall., ex art. 217, a proposito della quale è consolidato l’orientamento secondo cui, in tema di bancarotta semplice, le pene accessorie devono essere commisurate alla durata della pena principale, in quanto, essendo determinate solo nel massimo, sono soggette alla regola di cui all’art. 37 cod. pen., per il quale la loro durata è uguale a quella della pena principale inflitta (così, in una fattispecie di bancarotta semplice documentale, Sez. 5, n. 23606 del 16/02/2012 – dep. 14/06/2012, Ciampini, Rv. 252960). Ma l’ampia formulazione delle disposizioni in esame fa sì che l’art.37 cod. pen. trovi applicazione anche nel caso in cui la pena accessoria – come nella disciplina D.lgs. n. 74 del 2000, ex art. 12 – sia comminata attraverso la previsione di un limite minimo “e” di un limite massimo di durata: l’espresso riferimento della regola sussidiaria delineata dal secondo periodo dell’art. 37 cod. pen. al limite minimo “e” al limite massimo consente di rinvenire nel dato normativo una conferma alla tesi dell’applicabilità del criterio generale dell’equiparazione cronologica tra la durata della pena principale e quella della pena accessoria anche all’ipotesi qui in esame.
Pertanto, anche qualora la previsione legale relativa alla pena accessoria stabilisca sia il minimo sia il massimo di durata della pena accessoria, devono trovare applicazione il criterio generale e la regola sussidiaria previsti dall’art. 37 cod. pen.
8. A questo proposito, un argomento ulteriore a sostegno della tesi condivisa dal Collegio può trarsi dalla considerazione che l’interpretazione disattesa comporterebbe una rilevante contrazione della sfera applicativa dell’art. 37 cod. pen., che verrebbe sostanzialmente limitata alle ipotesi di pene accessorie disciplinate in assenza di qualsiasi limite edittale nel minimo o nel massimo: ne risulterebbe così svilita la fisionomia di criterio generale che si ricava dalla collocazione sistematica della norma e dal tenore testuale della disposizione. D’altra parte, la disciplina delle pene accessorie temporanee dettata dal D.lgs. n. 74 del 2000, art. 12 non presenta, rispetto alla comminatoria edittale delle pene principali cui accede, profili che ne mettano in luce l’incompatibilità con la regola generale sancita dall’art. 37 cod. pen. Pertanto, le pene accessorie temporanee di cui al D.lgs. n. 74 del 2000, art. 12 devono ritenersi non espressamente determinate, quanto alla durata, dalla legge, con conseguente applicazione dell’art. 37 cod. pen.
9. Di conseguenza, il Tribunale avrebbe dovuto considerare, quale parametro di computo per le pene accessorie non determinate dal legislatore in misura fissa, quello previsto dall’art. 37 cod. pen. (ossia la quantità di pena principale inflitta per i reati cui si riferiscono le pene accessorie in questione). Trova, in particolare, applicazione il principio secondo cui nel caso di pluralità di reati – unificati dal vincolo della continuazione – la durata della pena accessoria secondo il criterio fissato dall’art. 37 cod. pen. va determinata con riferimento alla pena principale inflitta per la violazione più grave, con l’eccezione dell’ipotesi di continuazione fra reati omogenei (come nel caso di specie, in cui ai ricorrenti sono contestati ai capi a), b e c), tutte violazioni alla medesima disciplina penale tributaria), nella quale l’identità dei reati unificati comporta necessariamente la applicazione di una pena accessoria per ciascuno di essi, di modo che la durata complessiva va commisurata all’intera pena principale inflitta con la condanna, ivi compreso l’aumento per la continuazione, ferma restando in ogni caso la necessità di rispettare il limite edittale massimo previsto per la specifica sanzione accessoria da applicare (v., in termini: Sez. 3, n. 14954 del 02/12/2014 – dep. 13/04/2015, Carrara ed altri, Rv. 263045).
10. La sentenza impugnata deve dunque essere annullata, limitatamente alle statuizioni relative alle pene accessorie temporanee di cui al citato art. 12, rideterminate ex art. 620, lett. I), c.p.p. in misura pari alla pena principale inflitta (anni 3); nel resto, il ricorso dev’essere rigettato.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata, limitatamente alla durata delle pene accessorie irrogate, rideterminata per entrambi gli imputati in anni tre per ciascuna di esse; rigetta nel resto il ricorso del P.G.
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