Corte di Cassazione sezioni Unite sentenza n. 18696 del 13 settembre 2011
RAPPORTO DI LAVORO – MAGISTRATO – ORDINAMENTO GIUDIZIARIO – PROCEDIMENTO DISCIPLINARE
massima della sentenza
E’ sottoposto a sanzione disciplinare il magistrato, che tarda di oltre un anno il deposito delle sentenze.
In tema di procedimento disciplinare a carico di magistrati, la disciplina transitoria della nuova normativa degli illeciti disciplinari contenuta nel D.Lgs. n. 109 del 23 febbraio 2006 (efficace dal 19 giugno 2006) dettata dall’art. 32 bis dello stesso decreto legislativo come introdotto per effetto dell’art. 1, comma terzo, lett. q) della successiva legge n. 269 del 2006, impone una lettura coordinata del secondo comma dello stesso art. 32 bis con il primo, il quale stabilisce che “le disposizioni di cui al presente decreto si applicano ai procedimenti disciplinari promossi a decorrere dalla data di entrata in vigore”, così circoscrivendo – Cass. civ., Sez. Unite, 29/01/2007, n. 1821, conformi Cass. civ. Sez. Unite Sent., 27/07/2007, n. 16627; Cass. civ. Sez. Unite Sent., 27/07/2007, n. 16628; Cass. civ. Sez. Unite, 20/12/2006, n. 27172; Cass. civ. Sez. Unite, 12/07/2010, n. 16282 – l’ambito di operatività della regolamentazione transitoria, con la fissazione di un limite costituito dalla data di inizio del procedimento disciplinare, da cui deriva la conseguenza in virtù della quale soltanto se detto procedimento è stato promosso dopo l’entrata in vigore della nuova disciplina, ma per fatti commessi precedentemente, l’applicabilità delle disposizioni del R.D.Lgs. n. 511 del 1946 è subordinata alla condizione dell’essere “più favorevoli” all’incolpato. Il secondo comma del citato art. 32 bis apporta, infatti, una deroga alla regola generale prevista dal primo, sicché la sua sfera di applicabilità non può essere più ampia e non include, quindi, le ipotesi in cui – Cass. civ. Sez. Unite, 21/01/2010, n. 967 – non solo la commissione del fatto, ma anche l’inizio dell’azione disciplinare, risalgono ad epoca anteriore al 19 giugno 2006, coincidente – come detto – con la data nella quale le disposizioni contenute nel D.Lgs. n. 109 del 2006, a norma del suo art. 32, sono divenute “efficaci”. Tale opzione ermeneutica trova conferma anche nel rilievo che il richiamato secondo comma del menzionato art. 32 bis, prevedendo l’applicabilità, ove più favorevoli, anche di disposizioni relative al procedimento, non può che riferirsi ad atti ed attività procedimentali ancora da compiere.
sentenza
PREMESSO IN FATTO
1. Il dr. C.R. , giudice presso il Tribunale di Catania, con sentenza della sezione disciplinare del C.S.M. del 2 novembre 2010, è stato assolto dalla violazione disciplinare di cui all’art. 18 del decreto legislativo 511/1946 e degli artt. 1 e 2, comma 1, lett. q, del decreto legislativo 109/2006, per il ritardo di oltre un anno nel deposito di cinque sentenze penali collegiali nel periodo dal 2002 al 2008, in violazione dell’art. 544 c.p.p., rispettivamente dopo oltre quattro anni, dopo due anni e sei mesi, e, per le ultime tre sentenze, nei due anni dalla loro deliberazione.
I fatti accertati in sede d’ispezione ordinaria dell’ufficio giudiziario di appartenenza del 2008, si riferivano ad un arco di tempo nel quale il C. aveva depositato ottocentotrentuno sentenze collegiali, con palese diligenza e laboriosità nell’esercizio delle funzioni relative. Per la sezione disciplinare del Consiglio superiore, ai sensi degli artt. 1 e 2, comma 1, lettera q, del D.Lgs. 23 febbraio 2006 n. 109 da applicare a tutti i fatti contestati anche se in parte avvenuti prima dell’entrata in vigore della novella, il ritardo contestato integrava l’ infrazione soltanto se “reiterato, grave e ingiustificato”; l’illecito disciplinare è invece da escludere in difetto anche di uno solo dei tre attributi di cui alla lettera della legge. Esclusa rilevanza esimente alla mancata sistematicità dei ritardi posta a base della richiesta del P.G. di assoluzione dell’incolpato sulla scia di una giurisprudenza affermatasi nella materia nel vigore del R.D. n. 511 del 1946, la sentenza disciplinare ha ritenuto che, per configurare la condotta punibile, la “reiterazione” dei ritardi dovesse intendersi come “abitualità” del magistrato nel superare i termini di legge nei depositi dei provvedimenti, desumibile dalla frequenza e pluralità di ritardi nel compimento di tali depositi che nel caso mancavano, avendo il dr. C. depositato nei termini di legge, nel periodo di riferimento, il grande numero di sentenze sopra riportato.
Per la cassazione di tale pronuncia, il Ministero della Giustizia propone ricorso di unico motivo, tempestivamente depositato e il dr. C. si difende con l’intervento dei difensore ritualmente nominato in sede di discussione.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso deduce violazione da parte della sentenza disciplinare dell’art. 606, comma 1, lett b, c.p.p., per inosservanza e erronea applicazione degli artt. 2, comma 1, lett. q, e 12 del D. Lgs. 23 febbraio 2006 n. 109. Il Ministero non condivide l’assunto della sentenza impugnata per cui il ritardo nel deposito di provvedimenti costituisce infrazione disciplinare solo se sia “reiterato, grave e ingiustificato” e nega sia necessaria la concorrenza di tali caratteri per configurare la violazione contestata, essendo sufficiente anche uno solo di essi, perché il ritardo costituisca illecito perseguibile.
Si censura quindi la sentenza della sezione disciplinare del C.S.M. per avere negato nel caso l’infrazione per mancanza di “abitualità” del C. nei ritardi di cui al capo di incolpazione, perché i cinque ritardi nel deposito di sentenze collegiali penali pur presumendosi “gravi”, per avere superato il triplo dei termini di legge per il deposito, ai sensi del secondo inciso dell’art. 2, lett. q, del D.Lgs. 23 febbraio 2006 n. 109, e “ingiustificati” o ingiustificabili, per essersi depositate alcune di esse oltre il termine di ragionevolezza della intera durata del processo penale, non configurano l’illecito contestato, per non essere gli stessi “abituali”, leggendosi con tale significato l’attributo “reiterato” di cui alla legge.
Condivisa la scelta ermeneutica per la quale si è applicata nel caso la disciplina della novella del 2006 e non quella precedente, il Ministero censura la rilevata lettura data dalla sezione disciplinare dell’attributo “reiterato” con cui si qualifica il ritardo, negando la necessità che per la punibilità della condotta sia necessario che il tardivo deposito sia anche “grave” e “ingiustificato”.
Ad avviso dei ricorrente Ministero, non è necessario che gravità e reiterazione concorrano, bastando uno solo di tali caratteri a rendere punibile il ritardo anche se unico, ove sia “grave”, presumendosi tale il tardivo deposito ove sia superato il triplo del termine di legge (art. 544 c.p.p.).
La lettera della legge non richiede il requisito della “abitualità”, ritenuto dalla sentenza impugnata essenziale e qualificante la violazione.
Si rileva in ricorso che, nella legge di delega n. 150/2005 vi è la disgiuntiva “o” e non la congiuntiva “e” tra le parole “grave” e “ingiustificato”, desumendosi da ciò che i due requisiti o caratteri siano alternativi nella fattispecie astratta della violazione disciplinare, tanto che esattamente, nel regolare la sanzione da irrogare, si è prevista solo quella che consegue al “reiterato o grave” ritardo (art. 12, primo comma, lett. g, del D.Lgs. n. 106 del 2006), dovendosi ritenere alternativi i due attributi.
Ad avviso del Ministero, poiché la ingiustificatezza attiene alla eventuale esistenza di esimenti, i caratteri necessari del ritardo per essere rilevante in sede disciplinare, sono solo la reiterazione e/o la gravità, da non valutare in rapporto di reciprocità, per essere la ripetizione un dato oggettivo e la gravità avendo invece profili soggettivi e qualitativi, con necessaria lettura disgiuntiva dei due aggettivi.
Ad avviso del ricorrente deve negarsi che reiterazione coincida con abitualità, essendo punibile un ritardo ove ripetuto, indipendentemente da qualsiasi tendenza personale ai ritardi evidenziata dalla pluralità delle infrazioni.
La sezione disciplinare del C.S.M. ha quindi errato nel rechiamo alla giurisprudenza penale in materia di reato abituale, essendo invece la reiterazione solo la ripetizione dei ritardo stesso.
2. Per la violazione disciplinare di cui alla lettera q dell’art. 2 del D.Lgs. n. 109 del 2006, ripetuta nel tempo, si è correttamente ritenuta applicabile la novella citata, ai sensi dell’art. 32 bis dello stesso decreto, pure se i ritardi contestati al magistrato si siano verificati in parte anteriormente all’entrata in vigore di tale nuova normativa (19 giugno 2006), quando dopo tale data sia iniziato il procedimento (S.U. 21 gennaio 2010 n. 967 e S.U. 9 gennaio 2007 n. 1821).
Deduce il Ministero che la sentenza disciplinare viola la fattispecie astratta di cui alla lettera q dell’art. 2 del D.Lgs. n. 109 del 2006, in quanto considera come concorrenti e costitutivi della fattispecie disciplinare i tre requisiti dei ritardi di cui alla norma, cioè la reiterazione, la gravità e la ingiustificatezza, mentre l’infrazione sussiste pure per un solo ritardo grave ovvero per più d’un ritardo. Il ricorso, per tale profilo, è infondato, in quanto erroneamente ipotizza che un solo ritardo, se grave, possa costituire l’infrazione disciplinare di cui alla norma, quando manchi una causa di giustificazione del deposito tardivo ad opera dell’incolpato.
I tre caratteri indicati del ritardo punibile di cui al D.Lgs. n. 109 del 2006 sono stati esattamente ritenuti necessari, anche se deve precisarsi la loro portata e funzione differente nella configurazione della fattispecie astratta dell’illecito disciplinare ai sensi della giurisprudenza più recente di questa Corte (S.U. 18 giugno 2010 n. 14697 e 16 luglio 2009 n. 16557 e Cass. 30 marzo 2011 n. 7193, avendo già S.U. 14 aprile 2011 n. 8488 negato che la congiuntiva “e” possa leggersi come “o”).
Il ricorso esattamente rileva che “reiterato” significa in italiano “ripetuto”, per cui non occorre ladei ritardi, indispensabile invece, secondo la sentenza disciplinare, a sanzionare il comportamento dell’incolpato, perché la scarsa diligenza o laboriosità del magistrato che si esprimono nella abitualità dei ritardi nel deposito delle sentenze non sono elementi costitutivi della violazione disciplinare (cfr. le cit. S.U. n. 14697/10 e n. 16577/09). Questa Corte ha chiarito il significato della parola “ingiustificato”, come carattere del ritardo, precisando che essa indica la mancanza di un fatto o di una circostanza che; renda assolutamente e concretamente inesigibile il tempestivo deposito delle sentenze, costituendo una condizione d’inesigibilità dell’ottemperanza dei termini di legge per il compimento di tale atto relativo alla funzione. La condizione di inesigibilità è giustificativa del ritardo solo in casi eccezionali e per evenienze straordinarie, allorché il ritardo ecceda dai limiti della ragionevolezza per la parte in attesa del deposito della motivazione, come può presumersi sia accaduto nelle cinque violazioni contestate al dr. C. (sulla cd. condizione di inesigibilità, cfr. C. Cost. 13 gennaio 2004 n. 5 e 20 gennaio 2008 n. 225).
È certamente violativa di legge la interpretazione data dalla sentenza disciplinare del termine “reiterato”, che non può significare “abituale”, come afferma invece la sezione speciale del C.S.M., perché tale attributo evidenzia una qualità personale dell’incolpato che si rapporta alla palese negligenza e scarsa laboriosità del magistrato, essendo sufficiente ad integrare l’infrazione solo la circostanza che il ritardato deposito degli atti sia avvenuto più di una volta, cioè sia stato ripetuto.
Chiarito il senso delle parole ingiustificato e reiterato, va esaminato infine l’altro attributo previsto nella norma, cioè la parola “grave”, dovendosi presumere tale gravità in base alla norma, quando il ritardo nel deposito delle sentenze ecceda il triplo dei termini di legge per il deposito dei provvedimenti, “salvo che non sia diversamente dimostrato”, apparendo ovvio il rilievo di gravità degli effetti del ritardo contestato, se idonei a cagionare danni alle parti del processo o a terzi.
Se la “gravità”, nei minimi e sul piano oggettivo, risulta descritta dalla lettera q dell’art. 2 del D.Lgs. n. 109 del 2006, ma può provarsi che sussista anche al di sotto di tali limiti cronologici minimi e per tempi inferiori a quelli di cui alla norma, ove “sia diversamente dimostrato”, si può al contrario presumere che la condizione di inesigibilità della ottemperanza dei termini legali di deposito delle sentenze, che qualifica come ingiustificato il ritardo, non si configuri quando il tempo per il deposito superi un anno, in quanto in tal caso si viola il diritto al giusto processo di cui all’art. 111 della Cost., con la conseguenza che solo in via eccezionale e/o straordinaria può ritenersi non punibile la condotta dell’incolpato.
Il deposito della motivazione della sentenza penale, che, come nel caso in esame, oltre ad eccedere il triplo del pur massimo termine stabilito dall’art. 544 c.p.p., si protragga per oltre un anno, lede il diritto al giusto processo della parte che attende di conoscere le ragioni della decisione, come la Corte Europea dei diritti dell’uomo ha sostanzialmente ritenuto, quando, nel caso Werz C. Suisse, con la sentenza 17 dicembre 2009 (ric. 22015/05), ha posto a raffronto il termine legale di due mesi per il deposito di una decisione della Corte suprema del Cantone di Berna, e quello di circa sedici mesi in effetti impiegato (cfr. punto 19 della sentenza citata).
Ma conviene aggiungere che l’impiego di oltre un anno nella stesura della motivazione della sentenza anche per altro verso appare ledere il diritto al giusto processo della parte che attende di conoscerla, se si considera che, nel campo della giustizia civile, la CEDU ha affermato che la durata del processo di cassazione non dovrebbe in genere eccedere l’anno, termine questo entro il quale, dalla notifica del ricorso, si deve pervenire alla pubblicazione della sentenza, includendo in esso anche lo studio della controversia e l’audizione delle parti.
3. Il ricorso è quindi fondato per la parte in cui nega che i ritardi contestati debbano evidenziare l’abitualità del dr. C. nei ritardi, espressione di una negligenza costante e duratura di quest’ultimo, essendo sufficiente che i tardivi depositi siano solo ripetuti come nel caso di specie, in cui i ritardi contestati sono stati cinque, tutti superiori a tre volte i termini di legge di cui all’art. 544 c.p.p. e comunque maggiori dell’anno dalla deliberazione, termine oltre il quale il ritardo può presumersi ingiustificato, salvo l’esistenza di cause di inesigibilità connesse a fatti eccezionali o straordinari, che consentano di non punire l’inottemperanza dei termini di legge, sempre che essi siano stati allegati dall’incolpato e accertati dalla sezione disciplinare.
Nella concreta fattispecie, l’avere preteso l’abitualità dei ritardi non prevista per legge in luogo della loro mera ripetizione, ha impedito una corretta valutazione del complesso dei tre attributi del ritardo che lo qualificano come infrazione disciplinare, per cui la sentenza del C.S.M. deve essere cassata e la causa deve essere rinviata alla sezione disciplinare del C.S.M., per una nuova valutazione del comportamento contestato al dr. C. , da uniformare ai principi enunciati e considerando separatamente i tre attributi analizzati, tutti rilevanti per integrare la infrazione, sia pure con funzione diversa, dando luogo alla fattispecie disciplinare la mera ripetizione e gravità dei ritardi, sempre che manchino cause di inesigibilità dell’ottemperanza dei precetti normativi sui termini per il deposito delle sentenze collegiali deliberate.
In quanto la motivazione della sentenza impugnata evidenzia il contrasto con la lettera della legge, deve negarsi vi sia stata nel caso solo una carenza motivazionale con riferimento alla sussistenza dell’infrazione (S.U. 24 marzo 2010 n. 7000), apparendo chiara la violazione di legge denunciata dal ricorrente sulla quale si fonda l’assoluzione impugnata dal Ministero.
Data la novità e complessità della questione, in deroga alla regola della soccombenza, la Corte ritiene opportuno compensare totalmente tra le parti le spese del presente giudizio di cassazione.
P.Q.M.
La Corte a sezioni unite accoglie il ricorso e cassa la sentenza impugnata; rinvia la causa alla sezione disciplinare del C.S.M. in diversa composizione, perché si uniformi ai principi enunciati, e compensa interamente tra parti le spese del giudizio di cassazione.
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