CORTE DI CASSAZIONE – Sezioni Unite – Sentenza n. 4684 del 9 marzo 2015
LAVORO – RAPPORTO DI LAVORO – PREVIDENZA SOCIALE – VERSAMENTI DATORIALI NEI FONDI DI PREVIDENZA INTEGRATIVA – PERIODO ANTERIORE
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
1. Con ricorso al Tribunale di Rieti, in funzione di giudice del lavoro, A.P., F.M., Fe.An. T., S.M., Sp.Pa., P.A. e T.F., tutti ex dipendenti della Cassa di Risparmio di Rieti, hanno chiesto la condanna di quest’ultima al pagamento di somme -analiticamente indicate nell’atto introduttivo – pretese a titolo di differenze sulle spettanze di fine rapporto. A sostegno della domanda hanno dedotto che l’istituto di credito, nel procedere alla quantificazione dell’indennità di anzianità e del trattamento di fine rapporto (di seguito TFR) loro dovuti, non aveva incluso, nella relativa base di calcolo, le somme versate fino al 28 aprile 1993 dal datore di lavoro al Fondo di integrazione delle pensioni INPS istituito dalla stessa banca (Fondo FIP), alle quali doveva essere riconosciuta natura retributiva fino alla data sopra indicata, coincidente con l’entrata entrata in vigore del D. Lgs. n. 124/1993.
2. Il Tribunale ha accolto la domanda, sulla scorta dell’affermata natura retributiva dei versamenti datoriali.
3. La sentenza è stata confermata in grado di appello. La Corte territoriale ha, in particolare, sottolineato che la Corte di Cassazione, anche a Sezioni Unite, aveva ripetutamente affermato che ai trattamenti pensionistici integrativi doveva essere riconosciuta natura di retribuzione differita, sebbene, in relazione alla loro funzione previdenziale (che spiegava la sottrazione alla contribuzione previdenziale dei relativi accantonamenti disposta dalla L. 153/1969, art. 12, come autenticamente interpretato dal D.L. n. 103 del 1991, art. 9bis, aggiunto dalla legge di conversione n. 166 del 1991), essi dovessero essere ascritti alla categoria delle erogazioni solo in senso lato corrispettive rispetto alla prestazione lavorativa, perchè pur sempre dipendenti dalla durata del servizio e dalla misura della retribuzione ricevuta. Il giudice d’appello, dunque, ne ricavava la conseguenza che anche ai contributi datoriali dovesse essere riconosciuta similare natura, confrontandosi anche con la sentenza n. 421 del 1995 con la quale la Corte Costituzionale aveva affermato che, successivamente alla legge delega n. 421 del 1991, le contribuzioni datoriali ai fondi di previdenza integrativa aziendale non potevano più definirsi “emolumenti retributivi con funzione previdenziale”, trattandosi di contributi previdenziali, come tali estranei alla nozione di retribuzione imponibile di cui alla L. n. 153 del 1969, art. 12, potendo (e dovendo) gli stessi essere assoggettati ad un contributo di solidarietà alla previdenza pubblica (non definibile in termini di contributo previdenziale in senso tecnico). Ad avviso della Corte territoriale, tuttavia, la Consulta aveva evidenziato che il dato strutturale della inerenza al rapporto di lavoro, continuava a sorreggere la perdurante possibilità di qualificazione in termini retributivi di qualsiasi emolumento concorrente a formare la retribuzione in senso lato del lavoratore, a prescindere dall’eventuale funzione previdenziale assolta. Andava, inoltre, sottolineato che la stessa L. n. 297 del 1982, art. 4, facendo salve le indennità aventi natura e funzioni diverse da quelle di fine rapporto comunque denominate, consentiva al datore di lavoro di corrispondere, alla cessazione del rapporto, erogazioni aggiuntive, a titolo diverso e distinto da quello del TFR. Nessuna prova era stata fornita, infine, dalla banca appellante circa l’esercizio della facoltà – peraltro riconosciuta alle parti sociali dall’art. 2120 c.c., solo nella formulazione successiva alla L. n. 297 del 1982 – di introdurre deroghe al principio di onnicomprensività della retribuzione ai fini della determinazione della TFR, escludendo, in particolare, il contributo datoriale in esame; ed infatti la banca aveva prodotto solo uno stralcio del CCNL 11 luglio 1999 per i quadri direttivi, che non poteva avere applicazione diretta nei confronti degli appellati, che non erano inquadrati tra i funzionari o dirigenti di banca, e neppure efficacia retroattiva; nè tale efficacia retroattiva poteva essere attribuita alla dichiarazione resa dalle parti sociali in data 12 febbraio 2005, secondo cui esse non avevano mai voluto computare nel TFR i versamenti effettuati dal datore di lavoro in favore del fondo pensioni.
4. Avverso tale sentenza la Cassa di Risparmio di Rieti s.p.a. ha proposto ricorso per cassazione prospettando due articolati motivi, illustrati da memoria, sulla base dei quali ha chiesto la cassazione dell’impugnato provvedimento.
5. A.P., F.M., Fe.An. T., S.M., Sp.Pa. e T. F., hanno resistito con controricorso, con il quale hanno preliminarmente rappresentato l’intervenuto decesso di P. A..
6. All’esito della camera di consiglio del 4 marzo 2014, la Sezione Lavoro ha pronunciato ordinanza interlocutoria (Cass. 21 marzo 2014, n. 6766), con la quale ha rilevato che sulla questione oggetto di causa si registra un contrasto di orientamenti in seno alla Suprema Corte, concernente la natura dei versamenti effettuati dal datore di lavoro alla previdenza complementare (e, quindi, la loro computabilità ai fini del trattamento di fine rapporto e della indennità di anzianità), contrasto circoscritto al periodo di lavoro precedente la riforma della previdenza integrativa, operata con D. Lgs. n. 124/1993.
7. Il suddetto contrasto è evidenziato, in particolare, dalla diversa soluzione adottata rispettivamente da Cass. 12 gennaio 2011, n. 545 e da Cass. 5 giugno 2012, n. 9016 e Cass. 5 giugno 2012 n. 8695, le quali hanno peraltro concordemente rilevato che, dopo la riforma della previdenza complementare, tali versamenti non sono più computabili ai fini del calcolo del trattamento di fine rapporto.
8. In relazione al suddetto contrasto, il Collegio, a norma dell’art. 374 c.p.c., comma 2, ha ritenuto necessario rimettere la causa al Primo Presidente che ha provveduto ad assegnarla alle Sezioni Unite.
9. Le parti hanno depositato memorie e, all’udienza dinanzi alle Sezioni Unite, hanno discusso la causa.
MOTIVI DELLA DECISIONE
10. Preliminarmente deve rilevarsi che nessuna conseguenza processuale può derivare, nel presente giudizio, dalla morte dell’intimato P.A., denunciata nel controricorso depositato dagli altri ex dipendenti della Cassa di Risparmio di Rieti, ricorrenti in primo grado. E’ stato infatti precisato dalla giurisprudenza di legittimità (cfr., in particolare, Cass. 23 gennaio 2006, n. 1257) che nel giudizio di cassazione, dominato dall’impulso d’ufficio, non trova applicazione l’istituto della interruzione del processo per uno degli eventi previsti dall’art. 299 c.p.c. e segg., onde, una volta instaurato il contraddittorio con la notifica del ricorso (come nel caso in esame), la morte dell’intimato non produce l’interruzione del processo neppure nel caso in cui sia intervenuta prima della notifica del ricorso presso il difensore costituito nel giudizio di merito ove dalla relativa relata non emerga il decesso del patrocinato.
11. Con il primo motivo la ricorrente Cassa di Risparmio denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 2120 (nuovo e vecchio testo), 2121 (vecchio testo) e 2123 c.c., della L. n. 297 del 1982, art. 4, comma 5, della L. n. 153 del 1969, art. 12, della L. n. 166 del 1991, art. 9 bis, comma 1, della L. n. 662 del 1996, art. 1, comma 194, e del D. Lgs. n. 124/1993, art. 8, (art. 360 c.p.c., n. 3), nonchè omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa alcuni punti decisivi della controversia (art. 360 c.p.c., n. 5). Con tale motivo la società ricorrente sostiene con articolate argomentazioni la tesi secondo cui le somme dalla stessa accantonate per la previdenza complementare fino al 28 aprile 1993 hanno natura e funzione previdenziale con conseguente esclusione delle stesse dal computo dell’indennità di anzianità (maturata fino al 31 maggio 1982) e del trattamento di fine rapporto (maturato successivamente).
12. Con il secondo motivo la Cassa ricorrente, denunciando violazione dell’art. 1362 c.c., in relazione all’art. 74 c.c.n.l. 11 luglio 2009 e al verbale di accordo 12 febbraio 2005 nonchè vizio di motivazione, contesta l’affermazione della Corte territoriale circa l’irrilevanza – a fini interpretativi dell’originaria intenzione delle parti – della successiva contrattazione collettiva, con la quale le parti sociali avevano espressamente escluso la computabilità dei contributi datoriali alla previdenza integrativa ai fini del calcolo delle somme ex art. 2120 c.c..
13. I controricorrenti sostengono la correttezza della ricostruzione degli istituti giuridici rilevanti operata dalla Corte territoriale e chiedono il rigetto del ricorso.
14. La questione sottoposta all’esame delle Sezioni Unite può essere così definita: se, per il periodo precedente la riforma introdotta dal D. Lgs. n. 124/1993, le somme accantonate dal datore di lavoro per la previdenza complementare – chiunque sia il soggetto tenuto alla erogazione dei trattamenti integrativi e quindi destinatario degli accantonamenti – abbiano natura e funzione retributiva oppure previdenziale e, quindi, si computino, o meno, nell’indennità di anzianità (maturata fino al 31 maggio 1982) e nei trattamento di fine rapporto (maturato successivamente).
15. Prima di esaminare i termini del contrasto di giurisprudenza appare opportuno ricostruire il quadro normativo che governa gli istituti coinvolti.
16.Come è noto, il sistema pensionistico è articolato in due grandi settori: la previdenza obbligatoria e la previdenza complementare.
Prima della riforma pensionistica realizzata negli anni 1992 e 1993 con l’emanazione di una legge delega (L. n. 421 del 1992) e di una pluralità di decreti legislativi fra i quali il D. Lgs. n. 124/1993, che disciplinò la previdenza complementare, quest’ultima aveva la propria fonte nell’art. 2117 c.c., che prevedeva la costituzione di fondi speciali per l’assistenza e la previdenza, alimentati dalla contribuzione sia del datore di lavoro che dei lavoratori. Come è stato in precedenza chiarito, il contrasto di giurisprudenza riguarda la natura dei versamenti effettuati dal datore di lavoro alla previdenza complementare (e, quindi, la loro computabilità ai fini del trattamento di fine rapporto e della indennità di anzianità), con esclusivo riferimento al periodo precedente la riforma della previdenza integrativa, operata con il citato D. Lgs. n. 124/1993.
17. La differenza tra previdenza obbligatoria (ex lege) e quella integrativa o complementare (ex contractu) è nel carattere generale, necessario e non eludibile delle tutele del primo tipo, a fronte della natura eventuale delle garanzie del secondo, che sono la fonte di prestazioni aggiuntive rivolte a vantaggio esclusivo delle categorie di lavoratori aderenti ai patti incrementativi dei trattamenti ordinari (e in relazione alla quale non opera il principio dell’automatismo delle prestazioni).
La natura privatistica della previdenza integrativa o complementare (finalizzata a garantire ai futuri pensionati un reddito ulteriore rispetto a quello garantito dalla previdenza obbligatoria) emerge dal meccanismo di adesione, che è libero e volontario, e dalle modalità di alimentazione del fondo, al quale contribuiscono i destinatari della prestazione ed il datore di lavoro.
18. I fondi di previdenza complementare preesistenti al 15 novembre 1992, data di entrata in vigore della citata legge delega n. 421 del 1992 (c.d. “Riforma Amato”), attuata con il D. Lgs. n. 124/1993, erano generalmente basati sul sistema “a ripartizione” caratterizzata da un meccanismo di bilancio in cui i contributi dei lavoratori attivi venivano utilizzati per pagare le prestazioni ai lavoratori in quiescenza; in sostanza, la contribuzione raccolta fra i lavoratori attivi veniva “ripartita” fra gli aventi diritto sotto forma di prestazioni previdenziali, mancando quindi la corrispondenza fra contribuzione e prestazione, atteso che la prima non incideva sulla misura delle future prestazioni, ma serviva a finanziare le prestazioni in corso. Gli stessi fondi erano normalmente caratterizzati dal regime “a prestazione definita” nel quale la misura della prestazione è determinata in funzione di particolari parametri, e non strettamente connessa all’ammontare dei contributi versati, con la conseguenza che in tali fondi prevale la funzione solidaristica sulla corrispettività individuale. Nei sistemi a capitalizzazione, invece i contributi del lavoratore, accantonati e investiti, vengono successivamente utilizzati per pagare la rendita dello stesso lavoratore al momento del suo pensionamento. In questo caso l’ammontare del beneficio è condizionato dal rendimento degli investimenti.
19. La disciplina introdotta con la riforma Amato è invece ispirata al sistema della capitalizzazione individuale, caratterizzato dall’accumulo dei versamenti in un conto individuale nominativo, e al regime della contribuzione definita, nella quale cioè la contribuzione determina la misura della futura prestazione. In base alla nuova disciplina non si prevede più la costituzione di un unico fondo alimentato dai contributi di tutti i lavoratori, ma l’accumulo dei versamenti in conti individuali nominativi, con conseguente commisurazione della futura prestazione pensionistica all’entità della contribuzione versata da ciascun lavoratore integrata dai frutti maturati per effetto degli investimenti del capitale operati dal fondo.
20. Il contrasto di giurisprudenza è evidenziato dalle diverse soluzioni adottate, da un lato, in particolare, da Cass. 12 gennaio 2011, n. 545 e, dall’altro, da Cass. 5 giugno 2012, n. 9016 e Cass. 5 giugno 2012 n. 8695 (cui adde, in particolare, Cass. 31 maggio 2012, n. 8695; Cass. 4 aprile 2013, n. 8228).
21. Secondo la prima delle suddette decisioni, fino alla data di entrata in vigore della riforma della previdenza complementare (D. Lgs. n. 124/1993), i trattamenti pensionistici integrativi, erogati a seguito della costituzione di fondi speciali (individuali o collettivi) previsti dalla contrattazione collettiva, avevano natura di debiti di lavoro, esigibili dopo la cessazione del rapporto di lavoro, essendo in nesso di corrispettività con la prestazione lavorativa, con la conseguenza che i relativi versamenti effettuati dal datore di lavoro dovevano considerarsi rilevanti ai fini del computo del trattamento di fine rapporto e dell’indennità di anzianità. Tale decisione si richiama espressamente ai principi affermati da Cass. s.u., 1 febbraio 1997, n. 974, che fa riferimento ad una nozione ampia di retribuzione che consentirebbe di distinguere fra le erogazioni corrispettive in senso stretto, e quelle con funzione previdenziale o assistenziale. Nozione di retribuzione che, come si legge nella sentenza da ultimo citata, supera l’ambito della corrispettività tra prestazione di lavoro e retribuzione e, conseguentemente, il principio dell’adeguatezza della retribuzione alla quantità e qualità della prestazione, per affermare un principio di corrispettività in senso ampio nel quale la retribuzione è rivolta a soddisfare determinate esigenze di vita del lavoratore.
22. L’opposto orientamento, espresso, in particolare, dalle sentenze prima citate, ritiene invece che, anche prima della riforma della previdenza complementare del 1993, i versamenti effettuati in favore dei fondi di previdenza non potevano essere considerati di natura retribuiva, per la ragione essenziale che gli stessi non venivano corrisposti ai dipendenti ma venivano erogati direttamente al fondo.
La natura non retributiva di tali versamenti, secondo tale orientamento, era poi avvalorata dal loro regime contributivo- previdenziale, atteso che, a seguito della L. n. 166 del 1991, essi erano stati esclusi dalla soggezione alla contribuzione ordinaria e assoggettati solo a un contributo di solidarietà, nella misura del 10%, in favore delle gestioni pensionistiche di legge alle quali erano iscritti i lavoratori. In sostanza la mancata soggezione di tali versamenti all’ordinario obbligo contributivo attesterebbe la natura non retributiva degli stessi. Essenzialmente sulla base di tali argomenti quest’ultimo orientamento è pervenuto alla conclusione per cui le somme versate dal datore di lavoro ai fondi di previdenza integrativa e complementare non si computano nè nell’indennità di anzianità (maturata fino al 31 maggio 1982), nè nel TFR, non operando quindi alcuna distinzione fra il periodo precedente e il periodo successivo alla più volte citata riforma della previdenza complementare.
23. Ritengono queste Sezioni Unite che quest’ultimo orientamento debba essere condiviso, anche alla luce dell’evoluzione legislativa intervenuta medio tempore, e degli interventi della Corte costituzionale di cui si darà successivamente conto.
24.Come correttamente ritenuto dalla citata Cass. 5 giugno 2012, n. 9016 (e dalle sentenze in precedenza citate), una verifica della natura retributiva, o meno, del contributo in esame deve logicamente partire, tenuto conto della natura del beneficio al quale esso è finalizzato, dal concetto di retribuzione quale delineato dal legislatore, in particolare, in sede di disciplina dell’indennità di anzianità e di trattamento di fine rapporto (TFR). Per quanto riguarda l’indennità di anzianità, dal combinato disposto dell’art. 2120 c.c., nella sua originaria formulazione, e art. 2121 c.c., si evince che la retribuzione (in base alla quale l’indennità di anzianità deve essere determinata) comprende “le provvigioni, i premi di produzione, le partecipazioni agli utili o ai prodotti, ed ogni altro compenso di carattere continuativo con esclusione di quanto è corrisposto a titolo di rimborso spese”. Per quanto concerne il TFR, l’art. 2120 c.c., come sostituito dalla L. n. 297 del 1982, art. 1, dopo aver stabilito (primo comma) che tale trattamento si calcola prendendo a base la retribuzione annua, stabilisce (secondo comma) che, salvo diversa previsione dei contratti collettivi, la retribuzione annua prevista dal comma precedente comprende “tutte le somme, compreso l’equivalente delle prestazioni in natura, corrisposte in dipendenza del rapporto di lavoro, a titolo non occasionale e con esclusione di quanto corrisposto a titolo di rimborso spese”. La nozione di retribuzione che emerge dalla normativa citata è caratterizzata quindi da un requisito indefettibile, costituito dall’esistenza di un effettivo passaggio di ricchezza dal datore di lavoro al lavoratore, e dalla esigenza che le somme erogate si trovino in nesso di corrispettività con la prestazione lavorativa; solo la presenza di tali presupposti, che caratterizzano le erogazioni che costituiscono la base di calcolo delle suddette indennità, autorizza il loro inquadramento sistematico nell’ambito della c.d. retribuzione differita.
25. In definitiva emerge chiaramente dall’esame delle norme sopra richiamate che l’indennità di anzianità e il TFR devono costituire il riflesso del trattamento economico “corrisposto” durante lo svolgimento del rapporto di lavoro, avendo la funzione di essere d’ausilio al lavoratore nel periodo in cui, cessato il suddetto rapporto, viene meno il diritto alla retribuzione che prima veniva percepita, sicchè sarebbe incongrua la inclusione, nella base di calcolo degli stessi, di somme di cui durante lo svolgimento non si è mai goduto.
26. Per quanto concerne i fondi di previdenza integrativa, i versamenti datoriali non sono preordinati all’immediato vantaggio del lavoratore, ma, proprio in coerenza con la loro funzione, vengono accantonati (e quindi mai direttamente corrisposti) per garantire la funzione del trattamento integrativo in caso di cessazione del rapporto di lavoro, ovvero in caso di sopravvenuta invalidità, secondo le condizioni previste dal relativo statuto. L’obbligo del datore di lavoro di effettuare tali versamenti, nasce, a ben vedere, da un ulteriore rapporto contrattuale, distinto dal rapporto di lavoro subordinato, finalizzato a garantire, in presenza delle condizioni prescritte, il conseguimento di una pensione integrativa rispetto a quella obbligatoria, pensione integrativa che costituisce certamente un ulteriore beneficio per il lavoratore; esso tuttavia non modifica i diritti e gli obblighi nascenti da rapporti di lavoro e non incide sulle modalità di erogazione delle indennità di fine rapporto. In sostanza il beneficio derivante al lavoratore dal rapporto di previdenza integrativa non è costituito dai versamenti effettuati dal datore di lavoro, ma dalla pensione che, anche sulla base di tali versamenti, lo stesso potrà percepire.
27. Decisivo a questo proposito appare il rilievo che la contribuzione datoriale non entra direttamente nel patrimonio del lavoratore interessato, il quale può solo pretendere che tale contribuzione venga versata al soggetto indicato nello statuto; ed infatti il lavoratore non riceve tale contribuzione alla cessazione del rapporto, essendo solo il destinatario di un’aspettativa al trattamento pensionistico integrativo, aspettativa che si concreterà esclusivamente ove maturino determinati requisiti e condizioni previsti dallo statuto del fondo. Se è vero che il rapporto di previdenza integrativa ha come necessario presupposto l’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato, è anche vero che l’obbligo del versamento del contributo a carico del datore di lavoro non si pone nei confronti del lavoratore bensì nei confronti del fondo che è poi onerato della erogazione della relativa prestazione. Va in proposito osservato che, ove si accedesse alla tesi secondo cui ogni onere economico posto a carico del datore di lavoro avesse natura retribuiva, si arriverebbe al risultato che la previdenza complementare sarebbe a carico esclusivo dei lavoratori, risultato non solo paradossale, ma contra legem, atteso che la natura solidaristica della previdenza complementare è desumibile non solo da norme primarie (cfr., in particolare, l’art. 2117 c.c.), ma anche dall’art. 38 cost..
28. La mancanza di un nesso di corrispettività diretta fra contribuzione e prestazione lavorativa, e quindi, in buona sostanza, la sostanziale autonomia tra rapporto di lavoro e previdenza complementare, trovano una conferma decisiva nel rilievo che, in caso di cessazione del rapporto senza diritto alla pensione integrativa – il che può verificarsi quando non siano integrati tutti i presupposti per la maturazione del diritto – il dipendente non ha alcun diritto alla percezione dei contributi versati dal datore di lavoro. Inoltre l’obbligazione che il datore di lavoro assume con il sistema di previdenza integrativa nei confronti del fondo non è monetizzabile a favore del lavoratore come accade invece per alcuni benefit, come ad esempio il servizio mensa o il servizio trasporto che il datore di lavoro può scegliere di organizzare direttamente o garantire con il rimborso del relativo costo a mani del dipendente.
29. Ulteriore conferma, sotto il profilo sistematico, della natura previdenziale del trattamento integrativo può inoltre rinvenirsi nella circostanza che tale trattamento non ha subito gli effetti della citata L. n. 297 del 1982, in tema di trattamento di fine rapporto, considerato che, ai sensi dell’art. 4 di tale legge, te forme di previdenza privata aggiuntive restano salve se hanno natura diversa da quella delle indennità di fine lavoro; ed infatti, se le prestazioni integrative avessero avuto natura retributiva sarebbero state caducate in virtù della norma citata.
30. La suddetta conclusione circa l’assenza di carattere retributivo relativamente ai versamenti effettuati dal datore di lavoro nell’ambito della previdenza integrativa è coerente con il regime previdenziale al quale gli stessi sono sottoposti, regime la cui evoluzione, completatasi successivamente alla citata pronuncia della Sezioni Unite n. 974 del 1997, può essere sintetizzata nei termini che seguono: il D.L. 103/1991, art. 9bis, aggiunto dalla legge di conversione n. 166 del 1991, con norma dichiaratamente di interpretazione autentica aveva stabilito che la L. n. 153 del 1969, art. 12, (che fissava la nozione di retribuzione imponibile ai fini previdenziali) doveva essere interpretato nel senso che dovevano essere escluse dalla base imponibile dei contributi di previdenza e assistenza sociale le contribuzioni e le somme versate o accantonate per il finanziamento di trattamenti integrativi previdenziali o assistenziali; la norma prevedeva altresì che restavano salvi i contributi versati anteriormente all’entrata in vigore della legge; infine, con riferimento al primo periodo di paga successivo all’entrata in vigore della nuova normativa, era previsto che, per le contribuzioni o le somme destinate al finanziamento dei trattamenti integrativi, era dovuto, ad esclusivo carico dei datori di lavoro, un contributo di solidarietà del 10% in favore delle gestioni pensionistiche di legge alle quali sono iscritti i lavoratori. La Corte costituzionale (C.Cost. n. 421 del 1995), chiamata a intervenire sulla suddetta normativa nella parte in cui esclude il diritto alla ripetizione dei versamenti contributivi effettuati in epoca anteriore alla data di entrata in vigore della legge (16 giugno 1991) sulle somme versate o accantonate dai datori di lavoro a favore di gestioni eroganti prestazioni previdenziali e assistenziali integrative, ha affermato che la norma non era di interpretazione autentica bensì innovativa con efficacia retroattiva ed ha rilevato che non era la retroattività a determinare l’illegittimità della norma quanto piuttosto l’avere essa stabilito per gli inadempienti l’esonero totale dal versamento dei contributi senza alcuna contropartita, in contrasto con il principio di razionalità-equità fissato dall’art. 3 cost., coordinato con il principio di solidarietà di cui all’art. 2 cost., che a sua volta costituisce parametro per l’interpretazione dell’art. 38 cost., comma 2 Con tale pronuncia, integrata da C.C. n. 178 del 2000; la Corte ha affermato, in sostanza, che per rendere la normativa esaminata conforme ai principi costituzionali, sarebbe stata necessaria l’istituzione, anche per il passato, di una contropartita analoga al contributo di solidarietà, idonea a dare ragione dell’esonero dalla contribuzione in favore della previdenza obbligatoria. In conclusione la Corte Costituzionale ha affermato che il legislatore ha inserito la previdenza integrativa nel sistema dell’art. 38 cost., per cui le contribuzioni degli imprenditori al finanziamento dei fondi non possono più definirsi “emolumenti retributivi con funzione previdenziale”, ma sono strutturalmente contributi di natura previdenziale. Le indicazioni fornite dalla Corte costituzionale con le citate decisioni sono state pienamente recepite dal legislatore con la L. n. 662 del 1996, art. 1, commi 193 e 194, che ha nuovamente disciplinato la materia riproducendo, al comma 193, il D.L. n. 103 del 1991, art. 9bis, comma 1, prima citato, privandolo della definizione di interpretazione autentica; con il comma 194 è stato istituito, anche per il passato, il richiesto contributo di solidarietà. Deve sottolinearsi che, in considerazione del carattere retroattivo dell’esonero dalla contribuzione AGO dei versamenti ai fondi di previdenza complementare, carattere retroattivo ritenuto costituzionalmente legittimo dalle citate decisioni della Corte costituzionale, i predetti versamenti hanno sempre avuto, fin dall’inizio della istituzione di detti fondi, natura previdenziale e non retributiva, onde è infondata la pretesa al loro inserimento nelle indennità collegate alla cessazione de rapporto di lavoro.
Appare evidente da quanto sopra che, in ottemperanza a quanto stabilito dalla Corte costituzionale con le sentenze prima citate, il legislatore ha inserito retroattivamente (e quindi anche per il periodo precedente l’entrata in vigore del D. Lgs. n. 124/1993) la previdenza integrativa nel sistema dell’art. 38 cost., confermando il principio espresso dal giudice delle leggi secondo cui il contributo dei datori di lavoro al finanziamento dei fondi integrativi non può definirsi emolumento retributivo con funzione previdenziale ma costituisce una contribuzione di natura strutturalmente previdenziale.
31. Va ancora considerato che i versamenti effettuati dal datore alle forme pensionistiche complementari non concorrono neppure a formare il reddito da lavoro dipendente, ai sensi del D. Lgs. 314 del 1997, art. 3, comma 2, lett. a, per cui sarebbe, anche sotto questo profilo, del tutto incoerente, dal punto di vista sistematico, riconoscere natura retributiva, tale quindi da determinarne la inclusione nel computo delle indennità spettanti alla fine del rapporto, a somme mai erogate durante lo svolgimento dell’attività lavorativa, sulle quali non si versa la contribuzione previdenziale obbligatoria, e che non entrano neppure tra i redditi da lavoro dipendente ai fini fiscali.
32. L’ancoraggio sistematico delle motivazioni poste alla base delle suddette conclusioni circa la natura previdenziale della contribuzione datoriale, rende le suddette conclusioni valide a prescindere dalla natura del soggetto destinatario della contribuzione, per cui le stesse sono applicabili sia al caso in cui il fondo abbia una personalità giuridica autonoma, sia all’ipotesi in cui il soggetto destinatario della contribuzione sia costituito da una gestione separata nell’ambito dello stesso soggetto datore di lavoro.
33. Da ultimo deve rilevarsi che, se è vero che in alcune decisioni la Corte di Giustizia ha affermato che le prestazioni erogate dai regimi di previdenza complementare privata rientrano nella nozione di retribuzione dettata dall’art. 141 del Trattato CE (art. 157 TFUE), costituendo anche esse “vantaggi pagati direttamente o indirettamente… dal datore di lavoro al lavoratore” in ragione del rapporto di lavoro (cfr. sent. 17 aprile 1997, causa 147/95; sent. 28 settembre 1994, causa 128/93) è anche vero che, a tutto voler concedere, ciò non implica, per le ragioni di carattere sistematico in precedenza evidenziate, l’inserimento delle quote corrisposte dal datore di lavoro ai fondi di previdenza complementare prima dell’entrata entrata in vigore del D. Lgs. n. 124/1993, nella base di calcolo dell’indennità di anzianità e del TFR. 34. All’esito delle suddette considerazioni può pertanto enunciarsi il seguente principio di diritto: con riferimento al periodo precedente la riforma introdotta dal D. Lgs. n. 124/1993, i versamenti effettuati dal datore di lavoro ai fondi di previdenza complementare hanno – a prescindere dalla natura del soggetto destinatario della contribuzione e, pertanto, sia nel caso in cui il fondo abbia una personalità giuridica autonoma, sia in quello in cui esso consista in una gestione separata nell’ambito dello stesso soggetto datore di lavoro – natura previdenziale e non retributiva e non sussistono pertanto i presupposti per l’inserimento dei suddetti versamenti nella base di calcolo delle indennità collegate alla cessazione del rapporto di lavoro.
35. Con riferimento al caso di specie è pacifico che i ricorrenti in primo grado avevano aderito al Fondo Previdenza Integrativo (FIP) per i dipendenti della Cassa di Risparmio di Rieti istituito e regolato da accordi sindacali. All’alimentazione di tale Fondo provvedevano, mediante il versamento periodico di contributi, sia i singoli lavoratori sia la Banca, ciascuno nella misura stabilita dal regolamento del Fondo. Si trattava di un Fondo “chiuso”, riservato cioè ai soli dipendenti, a “prestazione definita”, tale cioè da assicurare ai beneficiari una prestazione prestabilita, indipendentemente dai risultati della gestione finanziaria dello stesso e a “capitalizzazione collettiva”, per cui non poteva ravvisarsi alcun collegamento diretto fra i contributi versati – nell’interesse collettivo e mutualistico di tutti i dipendenti iscritti – ed il singolo lavoratore. La disciplina del Fondo prevedeva altresì che, nel caso di risoluzione del rapporto senza il raggiungimento delle condizioni previste per la maturazione del diritto alla pensione integrativa, al lavoratore veniva restituito l’ammontare dei contributi dallo stesso versati, e quindi a suo carico, ma non quello concernente i contributi a carico del datore di lavoro.
36. Dall’applicazione al caso di specie del principio di diritto sopra enunciato deriva che il ricorso deve essere accolto e che, conseguentemente, la sentenza impugnata deve essere cassata. Poichè non sono necessari ulteriori accertamenti di fatto ricorrono i presupposti per decidere la causa nel merito, ai sensi dell’art. 384 c.p.c., comma 2, e rigettare quindi la domanda dei ricorrenti in primo grado.
37. Considerato il contrasto di giurisprudenza verificatosi sulla materia del contendere si reputa si reputa conforme a giustizia compensare fra le parti le spese dell’intero giudizio.
P.Q.M.
La Corte a Sezioni Unite accoglie il ricorso; cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, rigetta la domanda. Compensa fra le parti le spese dell’intero giudizio.
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