CORTE di CASSAZIONE a SEZIONI UNITE sentenza n. 5069 del 15 marzo 2016
TRIBUTI – CREDITO CHIESTO A RIMBORSO IN DICHIARAZIONE – SPETTANZA DISCONOSCIUTA DALL’AMMINISTRAZIONE ANCHE OLTRE I TERMINI ORDINARI
Svolgimento del processo
In data 22 dicembre 1997, la Fondazione Cassa di Risparmio di Ravenna presentava al Centro di Servizio delle Imposte di Bologna, la dichiarazione dei redditi, ai fini IRPEG, relativa al periodo d’imposta 01.10.1996 – 30.09.1997, nella quale veniva evidenziato, ex art. 94 c. 1 dpr n.917/1986, un credito d’imposta, pari ad Euro 1.517,246,56, di cui veniva chiesto il rimborso. Successivamente, con istanza in data 21 settembre 2004, la Fondazione invitava l’Amministrazione Finanziaria ad effettuare il rimborso del credito esposto nella citata dichiarazione.
Formatosi su tale domanda il silenzio-rifiuto, la contribuente lo impugnava in sede giurisdizionale. L’adita CTP di Ravenna accoglieva il ricorso, riconoscendo il diritto al chiesto rimborso ed il successivo appello dell’Agenzia Entrate veniva respinto dalla Commissione Tributaria Regionale, la quale, con la decisione in epigrafe indicata, confermava la decisione di primo grado.
Con ricorso 20 aprile 2009, affidato a due mezzi, l’Agenzia Entrate ha chiesto la cassazione dell’impugnata sentenza.
L’intimata Fondazione, giusto controricorso 03 giugno 2009, ha chiesto che l’impugnazione venga dichiarata inammissibile e, comunque, rigettata.
In vista della pubblica udienza, fissata per il 26.05.2014, innanzi alla Quinta Sezione Civile- Tributaria, l’Agenzia e la Fondazione depositavano memorie con le quali illustravano, ulteriormente, le proprie ragioni.
Con ordinanza interlocutoria n. 23529/2014, resa all’udienza del 28 maggio 2014 e depositata il 05.11.2014, la predetta Sezione Tributaria della Corte, ha trasmesso gli atti al Primo Presidente per l’eventuale rimessione della causa alle Sezioni Unite Civili, per la risoluzione del consapevole contrasto registrato nell’ambito della Sezione, in ordine alla questione relativa alla perentorietà o meno del termine entro il quale l’Amministrazione Finanziaria deve provvedere alla liquidazione ed agli effetti connessi all’inutile decorso di detto termine, con riferimento ai crediti di imposta, esposti in dichiarazione.
In vista della pubblica udienza, fissata davanti alle Sezioni Unite della Corte, entrambe le parti in causa, hanno depositato ulteriori memorie difensive.
Motivi della decisione
I Giudici di appello, dopo avere, nella narrativa in fatto, esposto che la questione afferiva all’impugnazione di un silenzio-rifiuto, opposto dall’Amministrazione Finanziaria, alla domanda di rimborso di credito d’imposta IRPEG, asseritamele vantato dalla contribuente ed evidenziato nella dichiarazione presentata per l’anno 1997, di poi, nella parte motiva, così argomentavano: “La Commissione rigetta l’appello dell’Ufficio. Infatti l’Agenzia delle Entrate in sede di appello cerca di contestare un credito, ormai ampiamente consolidato, riproponendo questioni di merito. Infatti si tratta semplicemente di un credito derivante da una dichiarazione dei redditi M0D.760bis periodo 1/10/96 – 30/9/1997 presentata nel dicembre 1997. Pertanto bene ha fatto la CTP ad accogliere il ricorso del contribuente relativamente alla spettanza di capitale ed interessi”
Deve essere esaminata per prima la questione che emerge dalla ordinanza 23529 del 2014, in cui viene posta in discussione la tesi secondo cui, anche nel caso in cui il contribuente esponga nella denuncia dei redditi un credito fiscale, l’Amministrazione deve attivarsi a contestare i dati della denuncia entro i termini previsti dalla legge per l’esercizio del potere di accertamento; ed ove ciò non faccia il credito stesso si consolida e non può più essere disatteso. Infatti l’accoglimento di tale tesi comporterebbe la conferma della sentenza di merito, senza che sia necessario affrontare la tesi di diritto sostanziale proposta dalla contribuente.
Il Collegio ritiene di non condividere la interpretazione recepita nella sentenza della quinta sezione n. 9339 del giorno 8 giugno 2012 (e di recente implicitamente condivisa dalla sentenza 2277/2016) secondo cui “qualora il contribuente abbia presentato la dichiarazione annuale, ai fini di una imposta, esponendo un credito di rimborso, la Amministrazione finanziaria è tenuta a provvedere sulla richiesta di rimborso, salvo diversa espressa previsione normativa, nei medesimi termini di decadenza stabiliti per procedere all’accertamento in rettifica. Diversamente, decorso il termine predetto, senza che sia stato adottato alcun provvedimento da parte della P.A., il diritto al rimborso esposto nella dichiarazione si cristallizza “nell’an” e nel “quantum”, ed il contribuente potrà agire in giudizio a tutela del proprio credito nell’ordinario termine di prescrizione dei diritti, rimanendo preclusa all’Amministrazione finanziaria ogni contestazione dei fatti che hanno originato la pretesa di rimborso, salve le eccezioni volte a fare valere i fatti sopravvenuti impeditivi, modificativi, od estintivi del credito”.
Appare cioè preferibile la soluzione accolta nella pregressa giurisprudenza e secondo cui i termini decadenziali in questione sono apposti solo alle attività di accertamento di un credito della Amministrazione e non a quelle con cui la Amministrazione contesti la sussistenza di un suo debito. Ancorché simile soluzione susciti una certa disarmonia nel sistema in quanto, decorso il termine per l’accertamento, alla Amministrazione viene consentito di contestare il contenuto di un atto del contribuente solo nella misura in cui tale contestazione consente alla Amministrazione di evitare un esborso e non invece sotto il profilo in cui la medesima contestazione comporterebbe la affermazione di un credito della Amministrazione.
In sostanza, si tratta, per altro, di una applicazione del principio secondo cui “quae temporalia ad agendum perpetua ad excipiendum” (art. 1442 del codice civile)..
D’altronde la soluzione che il Collegio ritiene preferibile non lascia senza difesa il contribuente che ben può impugnare il silenzio della Amministrazione che non dia seguito alla istanza di rimborso, ottenendo sul punto una pronuncia giudiziale.
Si deve quindi passare all’esame della tesi della Amministrazione secondo cui i benefici fiscali invocati dalla contribuente richiederebbero situazioni di fatto in concreto non accertate dai giudici di merito.
Trattasi di doglianze fondate sulla base di un ormai consolidato orientamento giurisprudenziale e di condivisi principi giurisprudenziali, affermati proprio con riferimento alla questione di che trattasi, concernente il credito d’imposta chiesto a rimborso, con la dichiarazione annuale, da una Fondazione bancaria, quale derivante dall’invocata applicazione delle agevolazioni previste dagli artt.10 bis della Legge n. 1745/1962 e 6 del dpr n. 601/1973.
E’ stato, infatti, affermato che “In tema di IRPEG, il riconoscimento in favore delle fondazioni bancarie dell’esenzione dalla ritenuta d’acconto sui dividendi da partecipazioni azionarie, prevista dall’art. 10 bis della legge 29 dicembre 1962, n. 1745 (introdotto dall’art. 6 del decreto-legge 21 febbraio 1967, n. 22, convertito in legge 21 aprile 1967, n. 209), è subordinato alla prova, posta a carico del soggetto che invoca l’agevolazione, dell’effettivo perseguimento in via esclusiva di scopi di beneficenza, educazione, studio e ricerca scientifica, rispetto ai quali la gestione di partecipazioni nelle imprese bancarie assuma un ruolo non prevalente e comunque strumentale alla provvista delle necessarie risorse economiche. In tale prospettiva, non può attribuirsi portata determinante alle trasformazioni disposte dalla legge 30 luglio 1990, n. 218 e dal d.lgs. 20 novembre 1990, n. 356, tenuto conto del perdurare nel nuovo regime di un collegamento genetico e funzionale tra fondazioni ed imprese bancarie, dovendosi invece conferire rilievo, indipendentemente dal possesso di partecipazioni azionarie di controllo (anche per il tramite di società finanziarie), all’eventuale stipulazione di patti parasociali idonei a consentire, anche congiuntamente ad altri soggetti, l’esercizio di un’influenza sulla gestione dell’impresa bancaria, nonché allo svolgimento di attività economica, anche non caratterizzata da scopo di lucro. L’accertamento di tali elementi, che consentono di qualificare l’attività della fondazione come esercizio d’impresa, conformemente alla nozione elaborata dalla giurisprudenza comunitaria, impone al giudice di disapplicare l’art. 10 bis cit., ponendosi l’agevolazione da esso prevista come misura fiscale selettiva che, in quanto potenzialmente idonea ad influire sugli scambi e ad alterare la concorrenza, viene a configurarsi come aiuto di Stato, incompatibile con il mercato comune (Cass. SS.UU. n.27619/2006)
E’ stato, pure, precisato che “In tema di IRPEG, ai fini del riconoscimento in favore delle fondazioni bancarie del beneficio della riduzione a metà dell’aliquota, prevista dall’art. 6 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 601, è necessario che tale agevolazione non venga in concreto ad assumere la valenza di un aiuto di Stato, lesivo del principio comunitario di concorrenza: a tal fine, occorre accertare che l’attività della fondazione non presenti i connotati dell’azione imprenditoriale, quali possono sussistere anche in mancanza del fine di lucro e pur nella dimostrata destinazione dei profitti, in parte o nel loro intero ammontare, al raggiungimento di scopi di utilità sociale, restando escluso il carattere d’impresa commerciale solo dalla previsione, statutaria o legale, dell’esclusività dei predetti scopi, e dalla dimostrazione che tali attività siano state effettivamente svolte e che la fondazione non abbia alcuna possibilità d’influire, quale azionista maggioritario o non maggioritario o in virtù di accordi parasociali o di patti di sindacato, sulla gestione della banca conferitaria o di altre imprese da essa partecipate. (In applicazione di tale principio, laS.C. ha confermato la sentenza impugnata, la quale aveva rigettato il ricorso del contribuente, non essendo stato dedotto il possesso dei requisiti che, escludendo in radice la natura commerciale dell’iniziativa, consentono di fruire dell’agevolazione in esame senza incorrere nel divieto degli aiuti distato) (Cass. n. 5740/2007).
E’ stato, altresì, puntualizzato che “Gli enti di gestione delle partecipazioni bancarie, quali risultanti dal conferimento delle aziende di credito in apposite società per azioni e gravati dall’obbligo di detenzione e conservazione della maggioranza del relativo capitale ai sensi della legge n. 218 del 1990 ed in base all’art. 12 del d.lgs. n. 356 del 1990, a causa del particolare vincolo genetico che le univa alle aziende scorporate, non possono essere assimilati né alle persone giuridiche di cui all’art. 10 “bis” della legge n.1745 del 1962 ( che perseguono esclusivamente scopi di beneficenza, educazione, istruzione, studio e ricerca scientifica), ai fini della esenzione dal versamento della ritenuta d’acconto sugli utili, né agli enti ed istituti di interesse generale aventi scopi esclusivamente culturali, di cui all’art. 6 del d.P.R. n. 601 del 1973, ai fini dei riconoscimento della riduzione a metà dell’aliquota sull’ IRPEG; la predetta disciplina agevolativa non trova applicazione quanto agli enti considerati né in via analogica, trattandosi di disposizioni eccezionali, né in via estensiva, poiché la sua “ratio” va ricercata nella esclusività e tipicità del fine sociale previsto per ciascun ente, individuato in maniera tassativa quale già esistente al momento dell’entrata in vigore delle predette norme. La successiva disciplina di riforma del sistema creditizio, nell’attribuire a tali enti, ai sensi dell’art. 12 del d.lgs. n. 153 del 1999 ed ove si siano adeguati alle nuove prescrizioni, la qualifica di fondazioni con personalità giuridica di diritto privato, così estendendo ad essi il regime tributario proprio degli enti non commerciali, “ex” art. 87, comma 1, lettera c) del T.U.I.R., non ha assunto valenza interpretativa, e quindi efficacia retroattiva, avendo essa previsto adempimenti collegati all’attuazione della riforma stessa, senza influenza sui periodi precedenti. Ne consegue l’esistenza di una presunzione di esercizio di impresa bancaria in capo ai soggetti che, in relazione all’entità della partecipazione al capitale sociale, sono in grado di influire sulfattività dell’ente creditizio e, dall’altro, la possibile fruizione dei predetti benefici, per gli enti considerati, solo a seguito della dimostrazione, di cui sono onerati secondo il comune regime della prova ex art. 2697 cod. civ.,di aver in concreto svolto un’attività, per l’anno d’imposta rilevante, del tutto differente da quella prevista dal legislatore, dunque un’attività di prevalente o esclusiva promozione sociale e culturale anziché quella di controllo e governo delle partecipazioni bancarie e sempre che il relativo tema sia stato introdotto nel giudizio secondo le regole proprie del processo tributario, ovverosia mediante la proposizione di specifiche questioni nel ricorso introduttivo, non incombendo all’Amministrazione finanziaria l’onere di sollevare in proposito precise contestazioni. (Cass. SS.UU. n. 1576/2009, cfr. n. 26683/2009, n. 16842/2013)
Alla stregua di tali principi, che questa Corte ha contribuito ad affermare e che il Collegio, condividendoli, riafferma, le doglianze dell’Agenzia risultano fondate, stante che la decisione di appello risulta averne fatto malgoverno.
I Giudici di appello, infatti, non hanno considerato che sulla base dei trascritti principi:
– gravava sulla Fondazione, che reclamava il mancato riconoscimento dell’agevolazione, l’onere di evidenziare, con l’originario ricorso, la sussistenza dei presupposti, soggettivi ed oggettivi, per poter fruire della chiesta agevolazione e, quindi, di provare, per un verso, la propria coerenza statutaria e, sotto altro profilo, il concreto espletamento, nell’anno in questione, di attività, finalizzata al raggiungimento, in via esclusiva, di scopi di beneficenza, educazione, studio e ricerca scientifica;
– l’accertamento in ordine alla attività, concretamente svolta dalla Fondazione, era indispensabile per verificare la compatibilità del beneficio con la disciplina comunitaria, trattandosi di agevolazione potenzialmente idonea ad influire sugli scambi e ad alterare la concorrenza e quindi a farlo configurarlo come un aiuto di stato;
– in tale ottica, occorreva verificare le previsioni Statutarie dell’ente ed accertare che la concreta attività svolta non presentasse i caratteri propri dell’azione imprenditoriale, caratterizzandosi, invece, per gli scopi di utilità sociale, sia pure che la Fondazione, quale azionista, non era in grado di influire sulla gestione della Banca conferitaria o di altre imprese partecipate;
– la questione relativa al possesso, da parte della Fondazione, dei requisiti per poter escludere la configurazione dell’aiuto di stato, onde poter fruire dell’agevolazione, per come risulta dalla narrativa in fatto e dalla parte motiva dell’impugnata sentenza, è tema rimasto, assolutamente, estraneo alla decisione, non risultando essere stato, né dedotto, né trattato dalla decisione di appello;
– le Fondazioni bancarie, a causa del vincolo genetico con le aziende scorporate, non risultano assimilabili, né alle persone giuridiche di cui all’art. 10 bis della Legge n. 1745/1962, né agli enti ed istituti di interesse generale, aventi scopi esclusivamente culturali, di cui all’art. 6 del dpr n. 601/1973 ed alle stesse non torna applicabile la citata disciplina agevolativa, trattandosi di disposizioni eccezionali, applicabili, pertanto, alle Fondazioni bancarie, solo con i limiti e le rigide prescrizioni, disposte dalla legge e puntualizzate dalla giurisprudenza Comunitaria e Nazionale;
– dal precitato vincolo, per un verso, deriva l’esistenza di una presunzione di esercizio di impresa bancaria in capo alla Fondazione, la quale, in relazione alla partecipazione posseduta, è in grado di influire nell’attività bancaria e, sotto altro profilo, discende che le fondazioni possono godere dell’agevolazione di che trattasi, solo a condizione che abbiano svolto nell’anno di imposta in considerazione, una attività di esclusiva o prevalente promozione sociale e culturale.
Né a diverso opinamento inducono le considerazioni svolte dalla difesa della Fondazione, secondo la quale l’Amministrazione sarebbe, sempre, tenuta a provvedere sulla richiesta di rimborso, net medesimi termini di decadenza stabiliti per procedere all’accertamento in rettifica, con la conseguenza che, ove ometta tale adempimento nel termine di legge, “il diritto al rimborso esposto nella dichiarazione si cristallizza nell’an e nel quantum”, restando, per l’effetto, preclusa all’Amministrazione Finanziaria ogni contestazione in merito.
In vero, le argomentazioni svolte nelle decisioni richiamate a sostegno di tale tesi, per un verso, non risultano utili e conducenti per dare soluzione alla concreta fattispecie e, sotto altro profilo, non offrono elementi idonei ad incrinare la logicità dell’iter argomentativo posto a base dei condivisi principi, affermati dalle richiamate pronunce delle Sezioni Unite di questa Corte e della Giurisprudenza Comunitaria, cui il Collegio, intende dare continuità. Nel caso, in vero, il preteso credito d’imposta, trae origine da speciali disposizioni, che prevedono l’applicazione di una aliquota agevolata, solo in favore di particolari soggetti giuridici e sempre che la relativa attività, non solo trovi riscontro negli scopi statutari e nella documentazione fiscale, ma venga opportunamente evidenziata con la domanda di beneficio e, comunque, con l’originario ricorso e, quindi, se ne dia prova in giudizio.
Ne deriva che, in difetto di tali presupposti, non sussistono le condizioni per ritenere che sulla domanda di rimborso del credito d’imposta si sia formato il silenzio rifiuto e, tanto meno, per affermare che, nel caso, il credito d’imposta sia stato chiesto a rimborso con la dichiarazione annuale, l’Amministrazione, onde evitarne la “cristallizzazione” nell’an e nel quantum, debba provvedere al riguardo, nei medesimi termini di decadenza stabiliti per procedere all’accertamento in rettifica.
Ne discende, coerentemente, che trattandosi di agevolazione fiscale, alla stregua di consolidato orientamento giurisprudenziale, cui le anzi trascritte sentenze delle Sezioni Unite della Corte hanno dato continuità, non è revocabile in dubbio il fatto che era preciso onere del richiedente, allegare e provare i presupposti fondanti la pretesa fatta valere e che, in diretto, il reclamato credito d’imposta giammai si è potuto “cristallizzare”, non essendo mai venuto ad esistenza.
Il ricorso va, quindi, accolto e, per l’effetto, va cassata l’impugnata decisione, con rinvio ad altra sezione della CTR dell’Emilia Romagna, la quale, in altra composizione, procederà al riesame e, quindi, deciderà, in applicazione dei trascritti e riaffermati principi, motivando adeguatamente e pronunciando anche sulle spese del presente giudizio.
P.Q.M.
Accoglie il ricorso, cassa l’impugnata sentenza e rinvia ad altra sezione della CTR dell’Emilia Romagna.
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