CORTE di CASSAZIONE,sezione penale, sentenza n. 39759 depositata il 31 agosto 2017

RITENUTO IN FATTO

Il difensore di EC ricorre avverso la pronuncia indicata in epigrafe, recante la parziale riforma (solo in punto di rivisitazione in melius del trattamento sanzionatorio) della sentenza emessa nei confronti del suo assistito, il 10/06/2014, dal Gup del Tribunale di Catania. La declaratoria di penale responsabilità dell’imputato riguarda delitti di bancarotta fraudolenta patrimoniale e documentale, in ipotesi commessi nella gestione della s.n.c. “E. di EC & c.”, dichiarata fallita nel dicembre 2010.

Con l’odierno ricorso, la difesa lamenta vizi della motivazione della sentenza impugnata in relazione:

– alla ritenuta sussistenza dell’elemento soggettivo necessario alla configurabilità del reato di bancarotta per distrazione

Nell’interesse del ricorrente si evidenzia che l’attività imprenditoriale a lui facente capo, iniziata da circa vent’anni, aveva carattere familiare (tanto che egli stesso, per ripianare alcune esposizioni, vi aveva versato denaro proprio). La crisi che aveva portato al fallimento era stata determinata da fattori di mercato, senza certamente derivare dalle condotte indicate in rubrica: in particolare, vi era stato un corposo investimento per la produzione di un gioiello, per cui si prevedeva anche la sponsorizzazione in note trasmissioni televisive, ma l’operazione era poi saltata a causa di inadempimenti altrui. A riguardo, il difensore del EC segnala di condividere l’orientamento giurisprudenziale secondo cui deve invece esistere un nesso eziologico tra il comportamento qualificato come bancarotta ed il successivo dissesto, richiedendosi altresì che quest’ultimo sia oggetto di previsione e volizione, almeno in termini di dolo eventuale, da parte del reo. In ogni caso, una relazione di consulenza tecnica di parte aveva dimostrato che tutte le iniziative assunte erano state coerenti con la fisiologica gestione dell’impresa, pur presentando margini di ineludibile rischio: fra queste, anche un’operazione di cessione di marchi dalla “E.” ad altra società, richiamata nel capo d’imputazione, per la quale era stato comunque previsto un corrispettivo congruo

– alla omessa derubricazione degli addebiti nelle meno gravi ipotesi di bancarotta semplice

La difesa rappresenta che sul tema, prospettato in sede di motivi di gravame, la Corte territoriale non si sarebbe in alcun modo pronunciata, e «la scelta di non esprimersi […] appare a tutta evidenza strutturalmente connessa alla logica motivazionale con cui non si è tenuta in alcuna considerazione la ragione della crisi aziendale»

– alla ritenuta sussistenza del dolo quanto al reato di bancarotta documentale

I giudici di merito avrebbero ricavato la prova dell’elemento soggettivo, ed in particolare della presunta finalità di danneggiare i creditori, dalla sola esistenza dei fatti distrattivi e dall’ipotizzato occultamento delle scritture, senza però tenere conto della circostanza che una parte della contabilità era stata comunque rinvenuta (sì da determinare la Corte di appello a ridurre la pena irrogata): a quel punto, la mancata tenuta dei libri residui avrebbe dovuto ascriversi a mera colpa

– alla negazione delle attenuanti ex art. 219, ultimo comma, legge fall. e 62-bis cod. pen.

I giudici di secondo grado, pur dando per ammesso che le ipotizzate distrazioni avessero comunque riguardato valori inferiori a quelli indicati in rubrica, e che le omissioni nella tenuta delle scritture fossero parziali, non ne avrebbero ricavato le doverose conseguenze in punto di ridimensionamento del danno cagionato, sino a farne emergere la lieve entità. In ogni caso, l’imputato aveva assunto un atteggiamento collaborativo, a partire da quando si era presentato dinanzi alla Guardia di Finanza per rendere gli opportuni chiarimenti, una volta appreso dell’esistenza del procedimento penale a suo carico.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Deve prendersi atto di un errore formale da parte della Corte catanese nel computo della pena, tale da imporne una nuova quantificazione nei termini di cui al dispositivo; al di là della modifica ora descritta, che non rende necessario un annullamento con rinvio della pronuncia oggetto di ricorso, l’impugnazione non può trovare accoglimento.

2. Quanto alla invocata mancanza di dolo, in ordine ai fatti di bancarotta patrimoniale, la difesa non tiene conto delle risultanze istruttorie sottolineate dai giudici di merito, secondo cui l’addebito riguarda innanzi tutto distrazioni pacificamente accertate. Il EC era socio amministratore della “E.”, e durante il periodo della sua gestione (in particolare, nel 2009) vi fu una vendita di rimanenze di magazzino che si risolse in una vera e propria dissipazione (il valore di quelle giacenze era stato stimato in poco più di 862.000,00 euro, ma vennero cedute sottocosto per 355.468,00 euro) e venne financo realizzata con modalità tali da non consentire che quello stesso, minor corrispettivo fosse versato nelle casse della fallita. La valenza depauperativa di quell’operazione fu dunque immanente alle sue caratteristiche concrete, né il quadro potrebbe mutare ipotizzando – come pure ammette la Corte territoriale, volendo dar credito alle ricostruzioni offerte da un consulente tecnico nominato dalla difesa – che il valore delle rimanenze anzidette non superasse i 156.000,00 euro circa:neppure di tale somma, ancora inferiore ma tutt’altro che trascurabile, gli organi della procedura concorsuale ebbero a reperire traccia. La difesa dell’imputato neppure contesta l’avvenuta distrazione del denaro ricavato dalla vendita di sei autovetture, e ribadisce la regolarità di una cessione di marchi ad altra ditta senza confrontarsi con gli argomenti sottolineati dalla Corte di appello per illustrarne – al contrario – la natura meramente fittizia (la ditta cessionaria, di cui era titolare la moglie del EC, aveva identico oggetto sociale, rilevò arredamenti e merci della “E.” attraverso un apparente pagamento in contanti ed assunse alle proprie dipendenze buona parte del personale della dante causa).

3. La necessità che il dissesto presupposto alla dichiarazione di fallimento sia oggetto di dolo da parte del soggetto attivo del reato, e che la condotta assunta come distrattiva ne sia comunque fattore causale, risulta affermata solo da una pronuncia di questa stessa Sezione, richiamata nell’odierno ricorso, secondo cui «nel reato di bancarotta fraudolenta per distrazione lo stato di insolvenza che da luogo al fallimento costituisce elemento essenziale del reato, in qualità di evento dello stesso, e pertanto deve porsi in rapporto causale con la condotta dell’agente e deve essere, altresì, sorretto dall’elemento soggettivo del dolo» (Cass., Sez. V, n. 47502 del 24/09/2012, Corvetta, Rv 253493). L’impianto motivazionale di quest’ultima sentenza muove dal presupposto che «non può da un lato ritenersi che qualsiasi atto distrattivo sia di per sé reato, dall’altro che la punibilità sia condizionata ad un evento» (la dichiarazione di fallimento, di cui viene diffusamente discussa la natura all’interno della struttura della fattispecie incriminatrice) «che può sfuggire totalmente al controllo dell’agente, e dunque ritorcersi a suo danno senza una compartecipazione di natura soggettiva e, ancor peggio, senza che sia necessaria una qualche forma di collegamento eziologico tra la condotta e il verificarsi del dissesto»; l’analisi viene peraltro parametrata sulle peculiarità del caso allora sub judice, dove – a differenza delle varie fattispecie concrete di cui alla precedente giurisprudenza, nelle quali «si trattava di episodi distrattivi compiuti nel periodo immediatamente antecedente alla dichiarazione di fallimento, che avevano impoverito l’impresa al punto da provocarne od aggravarne in modo irreversibile la crisi» – a quegli imputati era riferibile una amministrazione «priva di contiguità con il fallimento, essendo stata seguita da altre gestioni totalmente estranee», con tanto di amministrazione giudiziale ex art. 2409 c.c., medio tempore conclusasi «senza alcun rilievo dell’amministratore su eventuali situazioni di insolvenza ed addirittura con una vendita della società a terzi dietro corrispettivo».Nella sentenza Corvetta si evidenzia quindi che se il fallimento è «il risultato di un’azione dell’imprenditore, da cui la legge (o, meglio, la giurisprudenza conforme) fa dipendere l’esistenza stessa del delitto», lo stesso fallimento, «o meglio il suo presupposto di fatto, cioè lo stato di insolvenza, deve essere dall’agente preveduto e voluto, quantomeno a titolo di dolo eventuale. Il soggetto, cioè, deve prefigurarsi che il suo comportamento depauperativo porterà verosimilmente al dissesto (il cui risvolto è la lesione del diritto di credito, che costituisce l’interesse principale protetto dalla norma penale) ed accettare tale rischio. Ogni diversa soluzione in punto dolo costituisce una violazione dei principi generali di cui agli artt. 42 e 43 cod. pen., che costituiscono l’ossatura della responsabilità penale personale del nostro ordinamento». Ne deriverebbe l’opzione interpretativa secondo cui «la bancarotta è un reato di evento e tale evento consiste nella insolvenza della società, che trova riconoscimento formale e giuridicamente rilevante nella dichiarazione di fallimento. Questa è la unica ricostruzione strutturale del reato coerente con le premesse; il fallimento è elemento costitutivo dell’illecito in qualità di evento e si pone quale conseguenza (esclusiva o concorrente) della condotta distrattiva dell’imprenditore. L’interesse protetto dalla norma, dunque, non è solo il potenziale pregiudizio del ceto creditorio, ma la lesione definitiva dei diritti di credito che si determina con il fallimento; tanto è vero che, occorre ribadirlo, per quanto siano consistenti e ripetuti gli atti di spoliazione del patrimonio dell’impresa, l’imprenditore non è punito se non viene successivamente dichiarato il fallimento». Con la richiamata pronuncia si avverte peraltro che «la tesi secca della non necessarietà del rapporto di causalità tra la condotta dell’imprenditore e il fallimento (che si accompagna alla ritenuta non necessarietà del dolo a copertura dell’insolvenza), porterebbe a conseguenze assurde; da un lato non sarebbe punibile l’imprenditore che drena risorse enormi da una società dotata di un patrimonio attivo considerevole, tale da permetterle di sfuggire al fallimento, dall’altra sarebbe invece punito con la pesante sanzione di cui alla legge fall., art. 216, un imprenditore o un amministratore della società che moltissimi anni prima del fallimento abbia prelevato indebitamente una modestissima somma di denaro (anche se l’impresa ha poi operato in attivo e pagato regolarmente i propri creditori e sia poi caduta in dissesto esclusivamente per le condotte spoliative di successivi amministratori) […]. Sarebbe esente da responsabilità quell’imprenditore che, pur avendo causato il dissesto della sua impresa con gravi atti di spoliazione, riuscisse ad ottenere il consenso dei creditori ad una procedura di soluzione negoziale della crisi (salvo il concordato, per l’imprenditore collettivo), mentre sarebbe penalmente sanzionato l’imprenditore che compie un atto di distrazione di modesta entità e molto risalente nel tempo, se non incontra il favore dei creditori. E ciò anche se il dissesto dell’impresa dipende esclusivamente da fattori esterni alla sua condotta, e cioè, per esempio, da una congiuntura economica negativa o da circostanze comunque imprevedibili o ancor più da condotte successive di altre persone». La giurisprudenza successiva alla sentenza Corvetta risulta però tornata a sposare l’orientamento precedente, ritenendo che «ai fini della sussistenza del reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale non è necessaria l’esistenza di un nesso causale tra i fatti di distrazione ed il successivo fallimento» (Cass., Sez. V, n. 7545 del 25/10/2012, Lanciotti, Rv 254634; v. anche Cass., Sez. V, n. 27993 del 12/02/2013, Di Grandi). In una quasi coeva decisione, identicamente massimata (Rv 254061) questa Sezione ha precisato che «anche dopo l’entrata in vigore del d.lgs. 11 aprile 2002, n. 61, ad integrare il reato di bancarotta fraudolenta per distrazione non si richiede l’esistenza di un nesso causale tra i fatti di distrazione e il successivo fallimento […]. Al riguardo vale la pena di rimarcare che il rapporto eziologico fra la condotta vietata e il dissesto della società è richiesto dalla legge fall., art. 223, comma 2, n. 1, nel testo novellato, con esclusivo riferimento alle ipotesi di bancarotta da reato societario, il cui elemento oggettivo – nel modello descrittivo recato dagli artt. 2621, 2622, 2626, 2627, 2628, 2629, 2632, 2633 e 2634 cod. civ., richiamati dalla norma incriminatrice – è del tutto diverso da quello che caratterizza le condotte vietate dall’art. 216 della stessa legge, richiamato invece dal citato art. 223, comma 1» (Cass., Sez. V, n. 232/2013 del 09/10/2012, Sistro). Il collegio ritiene di aderire alla consolidata e “tradizionale” giurisprudenza, anche in ragione delle indicazioni delle Sezioni Unite di questa Corte che nell’analisi del reato di bancarotta hanno avallato «l’abbandono definitivo della concezione del fallimento come evento» (v. Cass., Sez. U, n. 21039 del 27/01/2011, Loy), per poi giungere alla rinnovata affermazione secondo cui «ai fini della sussistenza del reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale non è necessaria l’esistenza di un nesso causale tra i fatti di distrazione ed il successivo fallimento, essendo sufficiente che l’agente abbia cagionato il depauperamento dell’impresa, destinandone le risorse ad impieghi estranei alla sua attività» (Cass., Sez. U, n. 22474 del 31/03/2016, Passarelli, Rv 266804, dove si ribadisce espressamente, in motivazione, che «i fatti di distrazione, una volta intervenuta la dichiarazione di fallimento, assumono rilievo in qualsiasi momento siano stati commessi e, quindi, anche se la condotta si è realizzata quando ancora l’impresa non versava in condizioni di insolvenza»). Uno degli elementi fondamentali, per orientare l’esegesi nel senso indicato, si rinviene in effetti nelle già ricordate divergenze strutturali tra la fattispecie disegnata dall’art. 216, legge fall., e quella risultante dalle varie ipotesi previste dal successivo art. 223, comma 2: solo in queste ultime, infatti, il legislatore ha inteso conferire immediato rilievo a condotte che cagionino il fallimento, ovvero cagionino o concorrano a cagionare il dissesto della società. Ergo, laddove il legislatore ha inteso individuare la necessità di un nesso causale, prima ancora di una riferibilità psicologica, fra il comportamento del soggetto attivo del reato ed il successivo dissesto, od il fallimento che ne sia derivato, ciò è espressamente prescritto. Né pare possibile interpretare l’art. 223, comma 2, legge fall., come una sorta di norma di chiusura, con funzioni interpretative dell’intero sistema sanzionatorio: da un lato, si tratta di una previsione recentemente modificata (nel 2002), e se si fosse avvertita l’esigenza di uniformare le varie previsioni , incriminatrici in tema di bancarotta (volendo intendere, come si sostiene nella sentenza Corvetta, che «i fatti di bancarotta di tipo patrimoniale in tanto rilevano in quanto abbiano in qualche modo rilevanza nella produzione del dissesto»), il legislatore ben avrebbe potuto porre mano anche al precedente art. 216; dall’altro, se è vero che la lettura delle plurime ipotesi di rilievo penale di cui alla legge fallimentare rende palesi alcuni difetti di coordinamento, è ancor più evidente che non vi sarebbe necessità di reprimere la condotta di chi abbia “cagionato con dolo il fallimento della società” (art. 223, comma 2, n. 2) se già il comma precedente venisse a sanzionare, per le società commerciali, condotte di distrazione ex art. 216, di cui possa affermarsi la rilevanza penale soltanto qualora siano fattore causale del fallimento medesimo. Deve perciò ritenersi che, tornando ad esaminare il precetto normativo, la condotta sanzionata dall’art. 216 legge fall. – e, per le società, dall’art. 223, comma 1 – non sia quella di avere cagionato lo stato di insolvenza o di avere provocato il fallimento, bensì – assai prima – quella di depauperamento dell’impresa, consistente nell’averne destinato le risorse ad impieghi estranei all’attività dell’impresa medesima. La rappresentazione e la volontà dell’agente debbono perciò inerire alla deminutio patrimonii (semmai, occorre la consapevolezza che quell’impoverimento dipenda da iniziative non giustificabili con il fisiologico esercizio dell’attività imprenditoriale): tanto basta per giungere all’affermazione del rilievo penale della condotta, per sanzionare la quale è sì necessario il successivo fallimento, ma non già che questo sia oggetto di rappresentazione e volontà – sia pure in termini di semplice accettazione del rischio di una sua verificazione – da parte dell’autore. E’ del resto innegabile che ci si trovi dinanzi ad una fattispecie disegnata come reato di pericolo concreto, dove la concretezza del pericolo assume una sua dimensione effettiva soltanto nel momento in cui interviene la dichiarazione di fallimento, condizione peraltro neppure indispensabile per l’esercizio dell’azione penale o per l’adozione di provvedimenti de libertate, ai sensi del combinato disposto degli artt. 7 e 238 legge fall. Ed è per questo che rimane esente da pena il soggetto che impoverisca una società di risorse enormi, quando questa può comunque continuare a disporne di ben più rilevanti, idonee a fornire garanzia per le possibili pretese creditorie: perché in quel caso, a differenza dell’ipotesi dell’imprenditore che si renda responsabile di una distrazione modesta (ma a fronte di un patrimonio suscettibile di risentirne significativamente), il pericolo di un pregiudizio per i creditori non avrà assunto la concretezza richiesta dal dato normativo. In sostanza, e in definitiva, l’imprenditore deve considerarsi sempre tenuto ad evitare l’assunzione di condotte tali da esporre a possibile pregiudizio le ragioni dei creditori, non nel senso di doversi astenere da comportamenti che abbiano in sé margini di potenziale perdita economica, ma da quelli che comportino diminuzione patrimoniale senza trovare giustificazione nella fisiologica gestione dell’impresa. Ne deriva, perciò, che appare emergere in re ipsa la rilevanza penale di condotte – quali le cessioni di beni o marchi per centinaia di migliaia di euro, senza trattenerne i corrispettivi a tutela delle aspettative dei creditori – che comportino un immediato, ed immediatamente percepibile come tale anche ai fini della prova dell’elemento soggettivo, effetto di radicale impoverimento.

4. Non può convenirsi con la difesa laddove reputa non affrontato il tema della sollecitata derubricazione degli addebiti, avendo la Corte di merito espressamente chiarito che i motivi di appello sulla prospettata riqualificazione dei reati contestati e sulla sussistenza del dolo avrebbero costituito oggetto di trattazione unitaria. Stante la diffusa analisi circa la evidente preordinazione delle condotte distrattive, appare dunque congruamente chiarito perché al EC non possano ascriversi comportamenti di mera superficialità o negligenza, neppure con riguardo alle omissioni nella tenuta della contabilità (che, ove fosse stata regolarmente curata, avrebbe giocoforza dato contezza della destinazione delle somme giammai rinvenute).

5. In punto di mancata concessione delle attenuanti invocate, va rilevato che la consulenza tecnica di parte, nelle conclusioni evidenziate dai giudici di merito e non contestate ai fini della presente impugnazione, aveva comunque portato a quantificare il valore delle rimanenze di magazzino (il corrispettivo della cui cessione non era stato rinvenuto dagli organi della procedura) in oltre 156.000,00 euro: si tratta di un dato che non sembra affatto potersi conciliare con una valutazione del delitto di bancarotta in termini di lieve entità del danno cagionato.Inoltre, la giurisprudenza di questa Corte è consolidata nel senso che «la sussistenza di circostanze attenuanti rilevanti ai fini dell’art. 62-bis cod. pen. è oggetto di un giudizio di fatto e può essere esclusa dal giudice con motivazione fondata sulle sole ragioni preponderanti della propria decisione, non sindacabile in sede di legittimità, purché non contraddittoria e congruamente motivata, neppure quando difetti di uno specifico apprezzamento per ciascuno dei pretesi fattori attenuanti indicati nell’interesse dell’imputato» (Cass., Sez. VI, n. 42688 del 24/09/2008, Caridi, Rv 242419). Si è anche affermato che «ai fini della concessione o del diniego delle circostanze attenuanti generiche il giudice può limitarsi a prendere in esame, tra gli elementi indicati dall’art. 133 cod. pen., quello che ritiene prevalente ed atto a determinare o meno il riconoscimento del beneficio, sicché anche un solo elemento attinente alla personalità del colpevole o all’entità del reato ed alle modalità di esecuzione di esso può essere sufficiente in tal senso» (Cass., Sez. II, n. 3609 del 18/01/2011, Sermone, Rv 249163). Nella fattispecie concreta, già la sentenza di primo grado chiariva come il EC non meritasse le attenuanti de quibus «in ragione della particolare gravità del fatto, delle modalità della sua realizzazione, della fraudolenta e manifesta intenzione di svuotare la società dichiarata fallita in favore di altra di nuova costituzione, solo formalmente intestata ad altri»; elementi confermati dalla decisione impugnata, anche al di là del possibile ridimensionamento della complessiva entità delle condotte di bancarotta patrimoniale e del parziale rinvenimento (comunque, all’esito di perquisizioni disposte, e non già per iniziativa dell’imputato) delle scritture contabili.

6. Come accennato inizialmente, il computo della pena va tuttavia corretto, dal momento che la Corte territoriale ha inteso operare un non consentito aumento a titolo di continuazione, mentre la già citata giurisprudenza delle Sezioni Unite insegna che «in tema di reati fallimentari, nel caso di consumazione di una pluralità di condotte tipiche di bancarotta nell’ambito del medesimo fallimento, le stesse mantengono la propria autonomia ontologica, dando luogo ad un concorso di reati, unificati, ai soli fini sanzionatori, nel cumulo giuridico previsto dall’art. 219, comma secondo, n. 1, legge fall., disposizione che pertanto non prevede, sotto il profilo strutturale, una circostanza aggravante, ma detta per i reati fallimentari una peculiare disciplina della continuazione derogatoria di quella ordinaria di cui all’art. 81 cod. pen.» (Cass., Sez. U, n. 21039 del 27/01/2011, Loy, Rv 249665). L’aumento di mesi 4 di reclusione, operato prima della definitiva riduzione per effetto della scelta del rito abbreviato, va pertanto espunto, con la conseguente rideterminazione del trattamento sanzionatorio nei termini appresso indicati: atteso che la pena complessiva risulta inferiore ad anni 3, deve parimenti espungersi la condanna del EC alla pena accessoria dell’interdizione temporanea dai pubblici uffici.

P. Q. M.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata imitatamente al trattamento  sanzionatorio, che determina in anni 2, mesi 9 e giorni 10 di reclusione, eliminando la pena accessoria dell’interdizione temporanea dai pubblici uffici.
Rigetta nel resto il ricorso.