CORTE COSTITUZIONALE – Sentenza 21 ottobre 2021, n. 196
Assistenza e solidarietà sociale – Reddito di inclusione (ReI) – Requisiti per gli stranieri – Possesso del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo – Denunciata violazione dei principi di uguaglianza e ragionevolezza, anche in via convenzionale – Inammissibilità delle questioni. – Decreto legislativo 15 settembre 2017, n. 147, art. 3, comma 1, lettera a), n. 1. – Costituzione, artt. 2, 3, 38 e 117, primo comma; Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, art. 14; Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, artt. 20, 21 e 34, paragrafo 3; Carta sociale europea, artt. 13 e 30.
Ritenuto in fatto
1.- Il Tribunale ordinario di Brescia, sezione lavoro, solleva questione di legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 1, lettera a), numero 1), del decreto legislativo 15 settembre 2017, n. 147 (Disposizioni per l’introduzione di una misura nazionale di contrasto alla povertà), nella parte in cui, fra i diversi requisiti necessari per l’ottenimento del reddito di inclusione (di seguito, anche: ReI), richiede agli stranieri il «possesso del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo», in riferimento agli artt. 2, 3, primo e secondo comma, 38 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 14 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, agli artt. 20, 21 e 34, paragrafo 3, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007, e agli artt. 13 e 30 della Carta sociale europea, riveduta, con annesso, fatta a Strasburgo il 3 maggio 1996, ratificata e resa esecutiva con la legge 9 febbraio 1999, n. 30.
Il rimettente riferisce che il giudizio a quo è stato promosso, con ricorso ex art. 702-bis del codice di procedura civile, da R. S., cittadina pakistana, che ha proposto un’azione civile contro la discriminazione ai sensi dell’art. 28 del decreto legislativo 1° settembre 2011, n. 150 (Disposizioni complementari al codice di procedura civile in materia di riduzione e semplificazione dei procedimenti civili di cognizione, ai sensi dell’articolo 54 della legge 18 giugno 2009, n. 69), contro l’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS) e il Comune di San Zeno Naviglio.
La ricorrente, titolare di un permesso di soggiorno per motivi familiari, era giunta in Italia nel 2010 per ricongiungersi con il marito, già titolare dello status di rifugiato. La coppia aveva avuto cinque figli, di cui tre nati in Italia. Il 14 gennaio 2019 R. S., nel frattempo rimasta vedova, aveva presentato al Comune domanda finalizzata ad ottenere il reddito di inclusione. Tale domanda è stata respinta dal Comune «per mancanza del titolo di soggiorno richiesto». R. S. si rivolgeva dunque al giudice a quo, facendo valere l’illegittimità costituzionale dell’art. 3, comma 1, lettera a), numero 1), del d.lgs. n. 147 del 2017 e chiedendo l’accertamento dell’avvenuta discriminazione e la condanna delle controparti al riconoscimento del beneficio e al risarcimento del danno derivante dal mancato accesso al progetto personalizzato.
Il rimettente si sofferma poi sulle eccezioni preliminari sollevate dall’INPS e dal Comune, argomentandone l’infondatezza; in particolare, nega il difetto di legittimazione passiva dell’INPS e osserva che, a fronte di una doglianza per condotta discriminatoria per ragioni di nazionalità, R. S. «risulta senz’altro legittimata» a proporre l’azione contro la discriminazione.
1.1.- Il Tribunale illustra poi la rilevanza delle questioni di legittimità costituzionale prospettate da R. S. in relazione all’art. 3, comma 1, lettera a), numero 1), del d.lgs. n. 147 del 2017, «nella formulazione vigente tra l’1.7.2018 e il 31.3.2019, ovverosia a seguito delle modifiche introdotte dalla l. 205/2017 e prima dell’abrogazione del Reddito di Inclusione ad opera del d.l. 4/2019».
Il rimettente osserva che R. S., al momento della domanda, risultava residente in Italia in via continuativa da almeno due anni e in possesso delle condizioni economiche richieste dall’art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 147 del 2017; da ciò deduce la rilevanza delle questioni relative alla norma censurata (che richiede agli stranieri il possesso del permesso di soggiorno di lungo periodo), in quanto l’accoglimento del ricorso dipende dalla loro fondatezza.
1.2.- Il rimettente argomenta poi la non manifesta infondatezza delle questioni. Osserva che il ReI è una «misura finalizzata all’affrancamento da una condizione di povertà e da una situazione di emarginazione sociale», strutturata «quale mezzo per la promozione di un’esistenza libera e dignitosa». Essendo destinato a fronteggiare situazioni di indigenza, il ReI sarebbe volto a favorire il pieno sviluppo della persona umana ai sensi dell’art. 3, secondo comma, Cost. e costituirebbe livello essenziale delle prestazioni concernenti i diritti sociali, in base all’art. 1, comma 1, lettera a), della legge 15 marzo 2017, n. 33 (Delega recante norme relative al contrasto della povertà, al riordino delle prestazioni e al sistema degli interventi e dei servizi sociali). Il giudice a quo cita due pronunce di questa Corte (sentenze n. 40 del 2013 e n. 187 del 2010) dalle quali risulterebbero precluse discriminazioni tra cittadini e stranieri regolarmente soggiornanti con riferimento alle prestazioni essenziali, volte a soddisfare bisogni primari dell’individuo.
Ciò premesso, il rimettente ritiene che la norma censurata violi l’art. 3 Cost., con riferimento sia al primo comma (per ingiustificata disparità di trattamento), sia al secondo comma (principio di uguaglianza sostanziale).
Inoltre, la norma in questione violerebbe l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 14 CEDU e agli artt. 20 e 21 CDFUE, «in tema di principi di eguaglianza e di non discriminazione».
Ancora, l’art. 3, comma 1, lettera a), numero 1), del d.lgs. n. 147 del 2017 contrasterebbe «con i doveri inderogabili di solidarietà imposti, in materia di assistenza sociale, dagli artt. 2, 38 e 117, c. 1, Cost.», quest’ultimo in relazione sia agli artt. 21 e 34, paragrafo 3, CDFUE (secondo cui a tutti coloro che non dispongono di risorse sufficienti deve essere garantita un’assistenza sociale volta ad assicurare un’esistenza dignitosa, al fine di contrastare l’esclusione sociale e la povertà), sia agli artt. 13 e 30 della Carta sociale europea, secondo cui ogni persona ha diritto all’assistenza sociale, là dove sia sprovvista di risorse sufficienti, nonché alla protezione dalla povertà e dall’emarginazione sociale.
1.3.- In ogni caso, anche qualora si ritenesse che il ReI non possa essere «qualificato alla stregua di una prestazione interna al nucleo dei bisogni essenziali della persona», la norma censurata si porrebbe comunque in contrasto con l’art. 3, primo comma, Cost.
Secondo il rimettente, il legislatore può circoscrivere la platea dei beneficiari di una certa prestazione sociale ma tale limitazione «deve pur sempre rispondere al principio di ragionevolezza ex art. 3 Cost.», e tale principio può ritenersi rispettato solo qualora sussista «una ragionevole correlazione» tra il requisito e «le situazioni di bisogno o di disagio, in vista delle quali le singole prestazioni sono state previste» (viene citata la sentenza di questa Corte n. 166 del 2018). Il giudice a quo osserva che l’accesso al ReI è comunque subordinato ad una residenza biennale nel territorio nazionale, il che assicurerebbe un certo «radicamento territoriale», con la conseguenza che l’ulteriore requisito del permesso di soggiorno di lungo periodo sarebbe irragionevole. Inoltre, il permesso di soggiorno di lungo periodo presuppone la titolarità di un reddito minimo e la conoscenza della lingua italiana, ciò che non sarebbe compatibile «con situazioni di povertà e di emarginazione che il Legislatore ha dichiaratamente voluto contrastare con l’introduzione della prestazione in esame». La norma censurata finirebbe così per escludere dal ReI proprio gli stranieri maggiormente bisognosi, in contrasto con la funzione della misura stessa di affrancare da situazioni di povertà ed esclusione sociale.
Per il rimettente non vi sarebbe dunque alcuna ragionevole correlazione tra la residenza protratta per almeno un quinquennio (necessaria per il permesso di lungo periodo) e la condizione di indigenza che il ReI dovrebbe contrastare, come risulterebbe anche dal fatto che la sua erogazione ha durata limitata, in relazione sia al beneficio economico sia alla componente di servizi alla persona.
Il giudice a quo poi sottolinea la differenza tra il ReI e l’assegno sociale, oggetto della sentenza n. 50 del 2019 di questa Corte.
1.4.- Infine, il rimettente precisa che le questioni prospettate non sono superabili, né in via interpretativa, né sulla base della direttiva 2011/98/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 13 dicembre 2011 (relativa a una procedura unica di domanda per il rilascio di un permesso unico che consente ai cittadini di paesi terzi di soggiornare e lavorare nel territorio di uno Stato membro e a un insieme comune di diritti per i lavoratori di paesi terzi che soggiornano regolarmente in uno Stato membro).
Sotto il primo profilo, il dato testuale dell’art. 3, comma 1, lettera a), numero 1), del d.lgs. n. 147 del 2017 sarebbe «inequivoco» e non consentirebbe diverse interpretazioni della disposizione censurata.
Sotto il secondo, il giudice a quo esclude che il ReI ricada nell’ambito di applicazione dell’art. 12, paragrafo 1, della direttiva n. 2011/98/UE, che assicura agli stranieri lavoratori il diritto alla parità di trattamento (rispetto ai cittadini dello Stato membro in cui soggiornano) nei settori della sicurezza sociale di cui al regolamento (CE) 883/2004 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 29 aprile 2004 (relativo al coordinamento dei sistemi di sicurezza sociale). La misura in esame non sarebbe infatti riconducibile alle prestazioni familiari di cui all’art. 3, paragrafo 1, lettera j), del citato regolamento: da un lato, le sue finalità escludono che si tratti di una prestazione volta a compensare i carichi familiari; dall’altro, non si potrebbe sostenere che la sua erogazione prescinda da una valutazione individuale e discrezionale delle esigenze del nucleo familiare. Né il ReI sarebbe riconducibile ad altre ipotesi previste dall’art. 3 del regolamento (CE) n. 883/2004. Il giudizio a quo non potrebbe perciò essere deciso applicando direttamente norme europee.
In conclusione, il Tribunale di Brescia censura l’art. 3, comma 1, lettera a), numero 1), del d.lgs. n. 147 del 2017, là dove condiziona l’accesso degli stranieri al reddito di inclusione alla titolarità del permesso di soggiorno di lungo periodo, per violazione degli artt. 2, 3, 38 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo con riferimento all’art. 14 CEDU, agli artt. 20, 21 e 34, paragrafo 3, CDFUE e agli artt. 13 e 30 della Carta sociale europea.
2.- Il 24 settembre 2020 l’INPS si è costituito nel presente giudizio di legittimità costituzionale.
In primo luogo, la parte eccepisce il difetto di un’idonea motivazione sulla rilevanza, in quanto il giudice a quo non avrebbe motivato «circa la ritenuta applicazione al caso concreto della disciplina di cui al D. Lgs. n. 147/2017, nonostante la sua abrogazione a far data dal 29 gennaio 2019» (recte: dal 1° aprile 2019). Inoltre, il rimettente non avrebbe argomentato sulla possibilità di far rientrare la ricorrente nell’ambito di applicazione della normativa transitoria di cui all’art. 13 del decreto-legge 28 gennaio 2019, n. 4 (Disposizioni urgenti in materia di reddito di cittadinanza e di pensioni), convertito, con modificazioni, nella legge 28 marzo 2019, n. 26.
La parte ricorda la sentenza n. 146 del 2020 di questa Corte, che ha dichiarato inammissibili le questioni di legittimità costituzionale sollevate dal Tribunale di Bergamo con riguardo alla stessa norma, in quanto «[i]l rimettente omette completamente di dare conto dell’intervenuta abrogazione della norma censurata, così come di indicare le ragioni che lo inducono a ritenerla nondimeno applicabile», e non «prende in considerazione la norma transitoria contenuta nell’art. 13, comma 1, del d.l. n. 4 del 2019, come convertito, e la sua specifica portata in relazione al caso oggetto del suo giudizio». L’INPS ritiene che, per le stesse ragioni, anche le questioni sollevate dal Tribunale di Brescia siano inammissibili.
Secondo la parte, la motivazione sulla rilevanza sarebbe carente anche perché il rimettente non avrebbe argomentato sulla «possibilità di interpretare la norma in maniera costituzionalmente orientata».
L’INPS illustra poi la asserita non fondatezza dei dubbi di legittimità costituzionale sollevati dal rimettente. La parte riassume il quadro normativo di riferimento ed osserva che il ReI non potrebbe essere considerato né «un mero sussidio per l’affrancamento dalla povertà» né «una prestazione che afferisce a bisogni primari ed essenziali della persona». La misura non sarebbe solo un beneficio economico ma un più ampio progetto personalizzato, volto a garantire autonomia a chi è in condizioni di povertà e subordinato a specifici impegni del nucleo familiare; non si tratterebbe, dunque, di una «prestazione meramente assistenziale e generalizzata», corrisposta in presenza di un semplice stato di bisogno. Essa implicherebbe una valutazione individuale e discrezionale della situazione del richiedente e non verrebbe concessa in base ad una situazione legalmente definita. La realizzazione del progetto personalizzato comporterebbe una necessaria correlazione tra lo stesso ReI e un «più intenso radicamento del soggetto nel territorio dello Stato italiano», tale da rendere ragionevole la necessità del permesso di lungo periodo. Il ReI mirerebbe, dunque, a superare le criticità in cui è incorso il nucleo familiare già radicato sul territorio italiano, non a creare il radicamento sociale dei «nuclei familiari non radicati e versanti in difficoltà».
La parte sottolinea ancora la differenza tra il ReI e altri benefici (quali l’assegno di invalidità, l’indennità di accompagnamento e la pensione di inabilità), che riguardano i bisogni primari della persona.
L’INPS eccepisce inoltre la genericità delle questioni sollevate per violazione dell’art. 117, primo comma, Cost. (in relazione all’art. 14 CEDU e agli artt. 20 e 21 CDFUE) e degli artt. 2, 38 e 117, primo comma, Cost. (in relazione sia agli artt. 21 e 34, paragrafo 3, CDFUE sia agli artt. 13 e 30 della Carta sociale europea).
Tali questioni sarebbero non fondate anche perché il ReI si porrebbe al di fuori dei settori della sicurezza sociale tutelati dal diritto europeo; inoltre, la direttiva 2003/109/CE del Consiglio del 25 novembre 2003, relativa allo status dei cittadini di paesi terzi che siano soggiornanti di lungo periodo, attribuirebbe solo al soggiornante di lungo periodo il diritto alla parità di trattamento con riguardo alle prestazioni sociali. La materia del contrasto alla povertà rientrerebbe nella competenza degli Stati membri, per cui l’art. 34 CDFUE non sarebbe applicabile.
La parte ricorda infine la sentenza di questa Corte n. 50 del 2019, che ha fatto salvo il requisito del permesso di lungo periodo per l’assegno sociale: da essa risulterebbe che l’esigenza di pari trattamento tra cittadini italiani e stranieri sussiste solo per le prestazioni che soddisfano i bisogni primari della persona e i suoi diritti inviolabili.
Il requisito del permesso di lungo periodo si raccorderebbe con la previsione dell’art. 9 del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), in connessione con l’art. 80, comma 19, della legge 23 dicembre 2000, n. 388, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2001)».
3.- Il 5 ottobre 2020 si è costituita nel presente giudizio R. S., ricorrente nel giudizio a quo.
La parte si sofferma innanzitutto sulla già citata sentenza n. 146 del 2020 di questa Corte, osservando che la presente questione si pone in termini diversi, in quanto il rimettente avrebbe indicato «i due elementi essenziali ai fini della rilevanza», ossia l’intervenuta abrogazione della norma censurata e la presentazione della domanda nel periodo della sua vigenza. Di conseguenza sarebbe «evidente» che il giudice a quo ha ritenuto applicabile la norma in questione per il fatto che la domanda doveva essere esaminata in base alle norme vigenti al momento della presentazione.
La disposizione transitoria dell’art. 13 del d.l. n. 4 del 2019 sarebbe espressione di un principio generale, in forza del quale una legge che intendesse abolire una prestazione prevista alla data della domanda dovrebbe prevedere espressamente tale proprio effetto retroattivo. Nel caso di specie tale previsione «pacificamente non esiste», e dunque il giudice avrebbe «evidentemente» ritenuto che, per il periodo dal 14 gennaio 2019 (data della domanda) al 31 marzo 2019 (data oltre la quale il ReI non può più essere riconosciuto), R. S. avrebbe diritto alla prestazione (qualora la questione fosse fondata), essendo ciò sufficiente ai fini della rilevanza.
L’eventuale prolungamento del ReI oltre il 31 marzo 2019, in forza della norma transitoria, sarebbe questione rimessa al giudice comune, non decisiva ai fini del giudizio costituzionale.
Nel merito, R. S. argomenta innanzitutto a sostegno della questione sollevata in via principale, osservando che il ReI, avendo lo scopo di emancipare da una condizione di povertà assoluta, soddisfa bisogni essenziali, assimilabili a quelli in considerazione dei quali questa Corte ha censurato limitazioni a prestazioni sociali derivanti dal mancato possesso della cittadinanza. In particolare, la parte ricorda le norme che riconducono il ReI ai livelli essenziali delle prestazioni che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale. A suo giudizio, sarebbe evidente che l’uscita da una condizione di povertà assoluta rientra fra i bisogni primari ed essenziali della persona.
R. S. si sofferma poi sulla questione sollevata in via subordinata, mettendo in evidenza il «circolo vizioso» esistente tra un titolo di soggiorno (permesso di lungo periodo) che richiede due requisiti reddituali minimi (reddito pari all’assegno sociale e alloggio idoneo) e una prestazione destinata ai casi di povertà assoluta. La conseguenza sarebbe l’esclusione dal beneficio di chi si è sempre trovato in condizione di povertà. Anche a tale proposito la parte richiama la giurisprudenza costituzionale relativa alle prestazioni di invalidità.
La stessa parte osserva ancora che il ReI è condizionato dalla partecipazione del beneficiario a un progetto di inclusione, e che dunque la garanzia connessa al suo radicamento territoriale riguarda il futuro della prestazione, sicché sarebbe incoerente dare rilievo al radicamento passato. Rileva inoltre che il reddito necessario per conseguire il permesso di lungo periodo aumenta con l’aumentare del numero dei familiari, con la conseguenza di un ulteriore circolo vizioso, giacché più alto è il numero dei figli, più difficile è ottenere il permesso che serve a godere del sussidio di contrasto alla povertà. Una garanzia di stabilità deriverebbe già dal generale requisito della residenza biennale, sicché sarebbe illogico chiedere solo per gli stranieri la residenza quinquennale.
In definitiva, il requisito del permesso di lungo periodo sarebbe irragionevole, non proporzionato e discriminatorio verso gli stranieri.
R. S. richiama infine la disciplina esistente in altri Paesi europei, nei quali le prestazioni di sostegno al reddito sarebbero condizionali, come in Italia, e osserva che tuttavia in nessuno Stato dell’Unione europea esse sarebbero subordinate al permesso di lungo periodo.
4.- Il 5 ottobre 2020 è intervenuto nel presente giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato.
L’Avvocatura eccepisce in primo luogo l’inammissibilità delle questioni, perché il rimettente chiederebbe «una sentenza additiva, che modifichi la norma denunciata». Il giudice a quo proporrebbe di abolire per gli stranieri il requisito del permesso di lungo periodo, reputando per tali soggetti sufficiente il requisito della residenza biennale. Senonché, una cosa sarebbero i requisiti di residenza, un’altra i requisiti di soggiorno, che sarebbero richiesti anche per i cittadini europei, dovendo questi essere titolari del diritto di soggiorno o del diritto di soggiorno permanente (come previsto dalla stessa norma censurata). In base al diritto europeo (art. 11 della direttiva 2003/109/CE), l’accesso degli stranieri alle prestazioni sociali è limitato ai soggiornanti di lungo periodo, salvo l’ampliamento previsto dalla direttiva 2011/98/UE in relazione a determinati settori di sicurezza sociale, sicché la norma censurata avrebbe optato per «la sola possibilità» a disposizione del legislatore nazionale. Il rimettente propone che il reddito di inclusione sia concesso agli stranieri sulla base della sola residenza biennale continuativa, mentre ciò non sarebbe sufficiente per i cittadini europei. Ne conseguirebbe uno «stravolgimento dell’impianto della norma denunciata, che verrebbe trasformata in una disciplina sostanzialmente diversa, e non costituzionalmente obbligata; e anzi costituzionalmente vietata dall’art. 117 c. 1 Cost., nella misura in cui genererebbe una discriminazione a danno dei cittadini dell’Unione e a vantaggio dei cittadini di paesi terzi». Poiché quella proposta dal giudice a quo non è l’unica soluzione configurabile in alternativa a quella censurata, la questione sarebbe inammissibile per invasione della discrezionalità legislativa.
Inoltre, secondo l’Avvocatura l’ordinanza sarebbe «priva di idonea motivazione in punto di rilevanza». La ricorrente ha chiesto il ReI il 14 gennaio 2019, ma non ha impugnato il provvedimento di «immediato rigetto» ricevuto, proponendo invece l’azione anti-discriminazione al fine di ottenere l’attribuzione del reddito di inclusione. Tale misura, osserva la difesa erariale, è stata abrogata dal d.l. n. 4 del 2019, che ha introdotto il reddito di cittadinanza. L’art. 13, comma 1, del citato decreto stabilisce che, «[a] decorrere dal 1° marzo 2019, il Reddito di inclusione non può essere più richiesto e a decorrere dal successivo mese di aprile non è più riconosciuto, ne´ rinnovato», e regola altresì il caso in cui «il Reddito di inclusione sia stato riconosciuto in data anteriore al mese di aprile 2019». La disciplina non conterrebbe invece, secondo l’Avvocatura, «disposizioni di diritto transitorio che regolino in modo specifico l’applicabilità della disciplina del reddito di inclusione nelle cause, come quella pendente davanti al giudice a quo, che abbiano ad oggetto la richiesta di attribuzione del REI, ancora pendenti alla data di entrata in vigore della nuova disciplina». Il giudice a quo non argomenterebbe sull’applicabilità della norma abrogata ai fini della decisione; sarebbe invece chiaro che R. S. non rientra tra coloro ai quali il ReI è stato erogato prima della sua abrogazione e che possono perciò continuare a fruirne.
L’ordinanza non indicherebbe, inoltre, la data precisa di presentazione del ricorso, sicché non sarebbe possibile stabilire se esso sia precedente o successivo al 1° aprile 2019, data di abrogazione della norma censurata.
Tale eccezione di inammissibilità sarebbe stata accolta da questa Corte nella sentenza n. 146 del 2020, riguardante un caso analogo al presente.
Quanto al merito, la difesa erariale rileva che il reddito di inclusione sarebbe diverso dalle altre prestazioni assistenziali di cui all’art. 80, comma 19, della legge n. 388 del 2000, in relazione alle quali questa Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale, giacché in quei casi «si trattava del riconoscimento di benefici attinenti ai bisogni primari e vitali della persona». Il ReI avrebbe una ratio diversa – così come è diversa quella dell’assegno sociale, oggetto della pronuncia di infondatezza n. 50 del 2019 – trattandosi di una prestazione «genericamente di assistenza sociale», volta a fronteggiare situazioni di povertà per un periodo di tempo limitato, sulla base di un progetto personalizzato, e ciò giustificherebbe la necessità un certo radicamento dello straniero nella società italiana. Il permesso di lungo periodo offrirebbe la prova di tale radicamento, in mancanza del quale non potrebbe «parlarsi di una situazione di povertà che spetti all’ordinamento italiano soccorrere», né vi sarebbe «la base per predisporre e attuare nel tempo il progetto personalizzato». Il reddito di inclusione presupporrebbe un radicamento già esistente, non sarebbe lo strumento per crearlo. La norma censurata sarebbe diretta a scoraggiare il cosiddetto “turismo assistenziale”.
A sostegno dell’infondatezza, l’Avvocatura invoca la citata sentenza n. 50 del 2019, riguardante l’assegno sociale. Inoltre, proprio le sentenze della Corte costituzionale che hanno esteso a tutti gli stranieri regolari, a prescindere dal permesso di lungo periodo, diverse prestazioni assistenziali, condurrebbero ancor più a ritenere ragionevole la richiesta di tale permesso per il reddito di inclusione, trattandosi di un diritto “finanziariamente condizionato”, che impone un bilanciamento tra diritti individuali ed esigenze finanziarie. In conclusione, l’art. 3 Cost. non sarebbe violato.
L’interveniente nega poi che sia violato l’art. 31 Cost., che tutelerebbe la famiglia «nei limiti delle compatibilità finanziarie e sul presupposto che si tratti non della famiglia “in astratto”, bensì della famiglia specificamente riferibile alla società italiana». L’art. 31 lascerebbe alla discrezionalità del legislatore la scelta dei modi della tutela e non lo costringerebbe a prevedere proprio il reddito di inclusione e a individuare i requisiti auspicati dal rimettente.
Ancora, la difesa erariale nega che il reddito di inclusione sia una «prestazione essenziale», essendo esso diretto a contrastare una situazione di povertà, «per quanto difficile, comunque compatibile con lo svolgimento di attività lavorativa».
Sarebbe non fondata anche la questione riferita all’art. 117, primo comma, Cost., «per il tramite del principio di non discriminazione di cui agli artt. 20 e 21» CDFUE. La scelta di limitare la prestazione de qua ai soli stranieri lungosoggiornanti sarebbe in linea con il diritto europeo, in particolare con la direttiva 2003/109/CE.
Infine, sarebbe insussistente la violazione dell’art. 34 CDFUE, che non troverebbe applicazione nell’ipotesi di specie, essendo la materia del «contrasto alla povertà» di competenza degli Stati membri. Comunque, come già detto per l’art. 31 Cost., l’art. 34 CDFUE non costringerebbe il legislatore a prevedere proprio il reddito di inclusione né a individuare i requisiti auspicati dal rimettente.
5.- Il 31 agosto 2021 l’INPS ha depositato una memoria.
In essa, in primo luogo, ribadisce l’eccezione di inammissibilità delle questioni per difetto di motivazione sulla permanente applicabilità della norma censurata, nonostante l’abrogazione operata dal d.l. n. 4 del 2019.
Nel merito, la parte ripropone gli argomenti già svolti nell’atto di costituzione, richiamando in particolare la sentenza n. 50 del 2019, in tema di assegno sociale, e la sentenza n. 106 del 2018, dalla quale risulterebbe la legittimità di una previsione che richieda il permesso di lungo periodo per l’accesso all’edilizia residenziale pubblica.
6.- Il 31 agosto 2021 anche R. S. ha depositato una memoria.
Quanto alla sentenza n. 146 del 2020 di questa Corte, la parte osserva che la mancata motivazione sulla permanente applicabilità della norma censurata, nonostante la successiva abrogazione, si giustificherebbe per l’esistenza del principio generale di irretroattività. R. S. nota che non è contestata l’assenza di una norma che vieti l’erogazione del ReI a chi abbia presentato domanda prima dell’abrogazione. La parte richiama la sentenza della Corte di cassazione, sezione prima, del 19 febbraio 2019, n. 4890, osservando che la domanda della prestazione sarebbe il fatto generatore del diritto, cui non si applica la legge successiva, per cui il giudice sarebbe chiamato a decidere “ora per allora”. Essendo pacifica la non retroattività della norma abrogante, l’assenza di motivazione sul punto non sarebbe censurabile.
Secondo R. S. poi il giudice a quo non avrebbe chiesto una pronuncia additiva, ma semplicemente una sentenza che dichiari costituzionalmente illegittimo il requisito limitativo introdotto: di qui la non fondatezza della relativa eccezione di inammissibilità.
Nel merito, la parte osserva che le prestazioni volte a soddisfare bisogni primari dell’individuo non sono solo quelle attinenti a situazioni di disabilità e si sofferma sulla ratio del ReI, analizzando la «condizione sociale e reddituale» sulla quale interviene. Espone poi la situazione della ricorrente, rilevando che, nonostante lo status di vedova, i cinque figli a carico e l’ISEE di 254 euro, non potrà mai accedere al ReI né al reddito di cittadinanza.
Secondo R. S., inoltre, la norma censurata non potrebbe superare il controllo di ragionevolezza «per il carattere condizionale della prestazione»: nel caso del ReI (a differenza dell’assegno sociale oggetto della sentenza n. 50 del 2019), il concorso dei soggetti bisognosi al progresso della società si realizzerebbe «attraverso la corrispettività della prestazione», cioè dopo l’accesso alla misura, non prima. L’inserimento «stabile e attivo» del soggetto nella società sarebbe l’obiettivo della provvidenza e, dunque, non potrebbe esserne il presupposto. La componente del progetto personalizzato, valorizzata dall’INPS a sostegno del rigetto, farebbe propendere per l’irragionevolezza della norma. Inoltre, la parte evidenzia che, a differenza dell’assegno sociale, il ReI è una prestazione a tempo determinato e l’unico radicamento rilevante sarebbe quello (garantito dalla disciplina del ReI) relativo al periodo in cui la prestazione viene resa.
Ancora, R. S. osserva che, in caso di accoglimento della questione, si applicherebbe l’art. 41 t.u. immigrazione, che richiede il permesso almeno annuale per l’accesso alle prestazioni sociali, e tale permesso presupporrebbe «requisiti minimi di inserimento che vanno ben oltre la mera residenza». Sarebbe dunque illogico che l’ordinamento escluda una quota elevata di stranieri regolari dalla possibilità di uscire dalla povertà.
Considerato in diritto
1.- Nel giudizio iscritto al reg. ord. n. 106 del 2020, il Tribunale ordinario di Brescia, sezione lavoro, dubita della legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 1, lettera a), numero 1), del decreto legislativo 15 settembre 2017, n. 147 (Disposizioni per l’introduzione di una misura nazionale di contrasto alla povertà), nella parte in cui, fra i diversi requisiti necessari per l’ottenimento del reddito di inclusione, richiede agli stranieri il «possesso del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo».
Il rimettente solleva un primo ordine di questioni e, in via subordinata, una seconda questione. In primo luogo, la norma censurata violerebbe gli artt. 2, 3, primo e secondo comma, 38, e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 14 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, agli artt. 20, 21 e 34, paragrafo 3, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007, e agli artt. 13 e 30 della Carta sociale europea, riveduta, con annesso, fatta a Strasburgo il 3 maggio 1996, ratificata e resa esecutiva con la legge 9 febbraio 1999, n. 30, in quanto, costituendo il reddito di inclusione una prestazione essenziale volta al soddisfacimento di bisogni primari della persona umana, qualsiasi discriminazione tra cittadini e stranieri regolarmente soggiornanti nella sua concessione sarebbe incostituzionale.
Con la seconda censura il giudice a quo lamenta la violazione dell’art. 3, primo comma, Cost., in quanto, anche qualora il reddito di inclusione non fosse «prestazione interna al nucleo dei bisogni essenziali della persona», non esisterebbe una ragionevole correlazione tra il requisito richiesto e le situazioni di bisogno in vista delle quali la prestazione è prevista.
2.- Come esposto nel Ritenuto in fatto, l’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS) e il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, rispettivamente costituito e intervenuto in giudizio, hanno sollevato diverse eccezioni di inammissibilità. Con una di esse, in particolare, è lamentato un difetto di motivazione sulla rilevanza delle questioni, in quanto il rimettente non avrebbe argomentato sulla permanente applicabilità della norma censurata, nonostante la sua abrogazione ad opera del decreto-legge 28 gennaio 2019, n. 4 (Disposizioni urgenti in materia di reddito di cittadinanza e di pensioni), convertito, con modificazioni, nella legge 28 marzo 2019, n. 26, né avrebbe tenuto conto della disposizione transitoria di cui all’art. 13, comma 1, del d.l. n. 4 del 2019. Sia l’INPS che l’Avvocatura affermano che analoga eccezione di inammissibilità sarebbe stata accolta dalla sentenza n. 146 del 2020 di questa Corte.
La parte ricorrente nel giudizio a quo ha replicato a tale eccezione osservando – nell’atto di costituzione – che le questioni qui in esame si pongono in termini diversi rispetto a quelle oggetto della sentenza n. 146 del 2020, in quanto l’ordinanza del Tribunale di Brescia conterrebbe elementi ulteriori rispetto a quella del Tribunale di Bergamo, giudice a quo nel precedente giudizio. Nella memoria integrativa la parte ha poi rilevato che, essendo pacifica la non retroattività della norma abrogante, l’assenza di motivazione sulla permanente applicabilità dell’art. 3, comma 1, lettera a), numero 1), del d.lgs. n. 147 del 2017 non sarebbe censurabile.
2.1.- L’eccezione è fondata.
La sentenza n. 146 del 2020 di questa Corte ha dichiarato inammissibili questioni analoghe a quello oggetto del presente giudizio, in quanto, in quel caso, il rimettente aveva omesso «completamente di dare conto dell’intervenuta abrogazione della norma censurata, così come di indicare le ragioni che lo inducono a ritenerla nondimeno applicabile». Dopo aver ricordato che il Capo II del d.lgs. n. 147 del 2017 (comprendente la disposizione censurata) è stato abrogato a decorrere dal 1° aprile 2019 in virtù di quanto disposto dall’art. 11, comma 1, del d.l. n. 4 del 2019, e che l’art. 13 di questo stesso decreto contiene una disposizione transitoria che regola il passaggio dal ReI al reddito di cittadinanza, questa Corte ha rilevato che «[l]a totale mancanza di una benché minima argomentazione sulla portata della norma transitoria – come detto, neppure menzionata – e sulla permanente applicabilità della norma censurata nei giudizi pendenti si traduce in una omessa motivazione sulla rilevanza di tutte le questioni, con la conseguenza della loro inammissibilità (ex multis, sentenze n. 30 e n. 13 del 2020)».
Rispetto all’ordinanza che ha dato origine alla sentenza n. 146 del 2020 l’atto di rimessione qui in esame (precedente rispetto alla citata sentenza di questa Corte) si differenzia solo per un aspetto formale: mentre nella prima l’avvenuta abrogazione della norma censurata non era espressamente rilevata dal rimettente ma risultava implicitamente dall’ordinanza, come attestato dalla stessa sentenza n. 146 del 2020 («Dall’ordinanza si può solo indirettamente cogliere che il rimettente non era probabilmente inconsapevole dell’avvenuta abrogazione, per il riferimento al fatto che la norma censurata sarebbe stata “vigente ratione temporis” e per l’uso in vari punti dell’imperfetto nella descrizione della disciplina del reddito di inclusione»), nella presente vicenda il giudice a quo dà esplicitamente atto dell’avvenuta abrogazione della norma censurata ad opera del d.l. n. 4 del 2019.
Anche l’ordinanza del Tribunale di Brescia, nondimeno, presenta le due lacune che hanno indotto questa Corte a dichiarare inammissibili le analoghe questioni sollevate dal Tribunale di Bergamo. L’attuale rimettente, infatti: a) omette di argomentare sulla permanente applicabilità della norma censurata nei giudizi pendenti, nonostante l’abrogazione; b) non «prende in considerazione la norma transitoria contenuta nell’art. 13, comma 1, del d.l. n. 4 del 2019, […] e la sua specifica portata in relazione al caso oggetto del suo giudizio, come invece sarebbe stato necessario per dare conto della rilevanza della questione sottoposta a questa Corte» (sentenza n. 146 del 2020).
Nel presente giudizio, dunque, si può ribadire quanto affermato da questa Corte nella sentenza n. 146 del 2020, ossia che «[d]i fronte al silenzio del giudice a quo toccherebbe a questa Corte pronunciarsi direttamente sugli effetti dell’abrogazione della norma censurata sui giudizi pendenti, ricostruendo il significato della disposizione transitoria e applicando i criteri in ipotesi individuati dalla giurisprudenza per fattispecie simili, ma si tratterebbe di operazioni di spettanza del giudice a quo, sulle quali questa Corte esercita solo un controllo successivo di sufficienza e plausibilità in funzione della verifica della rilevanza».
Pertanto, tutte le questioni sollevate dal Tribunale di Brescia vanno dichiarate inammissibili per difetto di motivazione sulla rilevanza.
P.Q.M.
Dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 1, lettera a), numero 1), del decreto legislativo 15 settembre 2017, n. 147 (Disposizioni per l’introduzione di una misura nazionale di contrasto alla povertà), sollevate dal Tribunale ordinario di Brescia, sezione lavoro, con l’ordinanza indicata in epigrafe, in riferimento agli artt. 2, 3, 38 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 14 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, agli artt. 20, 21 e 34, paragrafo 3, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007, e agli artt. 13 e 30 della Carta sociale europea, riveduta, con annesso, fatta a Strasburgo il 3 maggio 1996, ratificata e resa esecutiva con la legge 9 febbraio 1999, n. 30.