CORTE COSTITUZIONALE – Sentenza 23 maggio 2013, n. 98

Straniero – Norme della Regione Lombardia – Regolamentazione dell’accesso di extracomunitari ad attività commerciali – Requisiti professionali – Possesso, in via alternativa, di un certificato di conoscenza della lingua italiana, di un titolo di studio conseguito presso una scuola italiana legalmente riconosciuta, di un attestato di frequenza di un corso professionale regionale relativo al settore merceologico di riferimento – Ricorso del Governo – Asserita violazione dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario – Asserita lesione dell’assetto concorrenziale del mercato – Insussistenza – Carattere alternativo dei requisiti che esclude la configurabilità di effetti discriminatori – Non fondatezza della questione – Legge della Regione Lombardia 27 febbraio 2012, n. 3, artt. 2, comma 2, e 19 – Costituzione, art. 117, primo e secondo comma, lettere a) ed e) – Violazione della competenza legislativa statale nella materia concorrente delle  professioni – Illegittimità costituzionale

Ritenuto in fatto

 1. – Con ricorso notificato il 27 aprile 2012 e depositato il successivo 3 maggio, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha impugnato in via principale gli articoli 2, comma 2, 3, comma 4, 14, 18 e 19 della legge della Regione Lombardia 27 febbraio 2012, n. 3, recante «Disposizioni in materia di artigianato e commercio e attuazioni della direttiva 2006/123/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 12 dicembre 2006 relativa ai servizi nel mercato interno. Modifiche alla legge regionale 30 aprile 2009, n. 8 (Disciplina della vendita da parte delle imprese artigiane di prodotti alimentari di propria produzione per il consumo immediato nei locali dell’azienda) e alla legge regionale 2 febbraio 2010, n. 6 (Testo unico delle leggi regionali in materia di commercio e fiere)» [pubblicata nel BUR del 29 febbraio 2012, n. 9, Supplemento].   1.1. – In primo luogo, le censure si appuntano sull’articolo 2, comma 2, che, introducendo il comma 4-bis all’art. 2 della legge regionale 30 aprile 2009, n. 8 (Disciplina della vendita da parte delle imprese artigiane di prodotti alimentari di propria produzione per il consumo immediato nei locali dell’azienda), richiede per i cittadini europei ed extracomunitari l’attestazione del possesso, nella comunicazione di inizio attività, di uno dei documenti previsti dall’art. 67, comma 2-bis, della legge regionale 2 febbraio 2010, n. 6 (Testo unico delle leggi regionali in materia di commercio e fiere), a sua volta inserito dall’altrettanto impugnato art. 19 della legge regionale n. 3 del 2012 (ossia un certificato di

conoscenza della lingua italiana, Certificazione Italiano Generale, ovvero un attestato che dimostri di aver conseguito un titolo di studio presso una scuola italiana legalmente riconosciuta, o di aver svolto un corso professionale per il commercio relativo al settore merceologico alimentare o per la somministrazione di alimenti e bevande istituito dalla Regione Lombardia o dalle altre Regioni), disponendo che in caso di mancata attestazione il cittadino extracomunitario o comunitario è tenuto a superare positivamente un corso di lingua italiana presso la Camera di Commercio territorialmente competente (o altro riconosciuto dalla Regione o dalle altre Regioni).

 Secondo il ricorrente i predetti artt. 2, comma 2, e 19, configurando una evidente diretta discriminazione nei confronti di soggetti stranieri sia comunitari che extracomunitari in ragione della loro cittadinanza, si pongono in contrasto: a) con l’art. 117, primo comma, della Costituzione, in quanto disattendono i vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e l’art. 49 Trattato UE che vieta restrizioni alla libertà di stabilimento, stabilendo l’accesso alle attività autonome e al loro esercizio alle condizioni definite dalla legislazione del paese di stabilimento nei confronti dei propri cittadini, nonché l’art. 15 della Direttiva Servizi 2006/123/CE (attuata dal decreto legislativo 9 novembre 2007, n. 206, recante «Attuazione della direttiva 2005/36/CE relativa al riconoscimento delle qualifiche professionali, nonché della direttiva 2006/100/CE che adegua determinate direttive sulla libera circolazione delle persone a seguito dell’adesione di Bulgaria e Romania») che richiede, qualora lo Stato membro subordini l’accesso a un’attività di servizi o il suo esercizio al rispetto di determinati requisiti, la garanzia che tali requisiti non siano discriminatori, e che siano informati ai criteri di necessità e proporzionalità; b) con l’art. 117, secondo comma, lettera a), Cost., che riserva allo Stato la competenza in materia di condizione giuridica dei cittadini di Stati non appartenenti all’Unione Europea; c) con l’art. 117, secondo comma, lettera e), che riconosce allo Stato la competenza in materia di tutela della concorrenza, lesa dalla introduzione di un ingiustificato ostacolo all’esercizio delle attività di somministrazione di alimenti e bevande per i cittadini extracomunitari e dell’Unione europea.

1.2. – Viene, poi, censurato l’art. 3, comma 4, nella parte in cui prevede un trattamento differenziato tra operatori delle attività finalizzate al benessere fisico ed al miglioramento estetico della persona o alla cura del corpo senza scopi terapeutici a seconda della iscrizione o meno al registro istituito dalla legge regionale 1° febbraio 2005, n. 2 (Norme in materia di discipline bio-naturali), prevedendo che solo le attività svolte da chi non sia iscritto vadano ricondotte nell’ambito della legge statale 4 gennaio 1990, n. 1 (Disciplina dell’attività di estetista), che prevede espressamente il possesso della qualifica professionale di estetista. Secondo il ricorrente si determina la violazione della potestà concorrente in materia di professioni (ex art. 117, terzo comma, Cost.), giacché in tal modo la legge regionale lombarda conferirebbe valore abilitativo all’esercizio di una professione all’iscrizione in un registro regionale; così ponendosi in contrasto con l’orientamento giurisprudenziale della Corte costituzionale (di cui vengono citate le sentenze n. 11 del 2008, n. 300, n. 93 e n. 57 del 2007, n. 424 e n. 153 del 2006) che ha tradizionalmente vietato alle Regioni l’istituzione di fatto di nuove figure professionali o l’istituzione di un registro professionale regionale e le condizioni per potersi iscrivere ad esso.

1.3. – Altra impugnazione riguarda l’art. 14, avente ad oggetto il rilascio e il rinnovo delle concessioni dei posteggi per l’esercizio del commercio su aree pubbliche, nella parte in cui prevede la possibilità di individuarli anche in deroga a quanto disposto dall’art. 16 del decreto legislativo 26 marzo 2010, n. 59 (Attuazione della direttiva 2006/123/CE relativa ai servizi nel mercato interno). Il ricorrente osserva come tale possibilità derogatoria dei principi comunitari sia idonea a introdurre criteri potenzialmente restrittivi della concorrenza, in special modo con riferimento alla richiamata normativa statale che stabilisce che le autorizzazioni debbano essere concesse per durata limitata, senza rinnovo automatico e individuazione di vantaggi in favore del prestatore uscente; con ciò venendo in contrasto con l’art. 117, primo comma e secondo comma, lettera e).

1.4. – L’ultima censura riguarda l’art. 18, nella parte in cui prevede che il possesso del requisito professionale per l’esercizio delle attività di commercio de quibus sia comprovato non solo dall’iscrizione all’INPS, ma anche dall’attestazione degli adempimenti contributivi minimi previsti da parte della previdenza sociale nazionale. Per il ricorrente, tale requisito ulteriore, non previsto dalla legge statale, introducendo un elemento restrittivo per il riconoscimento del titolo professionale si porrebbe in contrasto con l’art. 117, primo comma, Cost., per violazione dei vincoli derivanti dal diritto comunitario; con le lettere a), b) e) ed o) del secondo comma dello stesso articolo, per invasione delle competenze esclusive dello Stato su condizione giuridica dello straniero, previdenza sociale e tutela della concorrenza; nonché con il terzo comma dell’art. 117 Cost. per contrasto con la norma statale di principio in materia di professioni.

2. – Si è costituita la Regione Lombardia, in persona del Presidente pro tempore della Giunta, concludendo per l’inammissibilità e l’infondatezza di tutte le censure.

 2.1. – Premesso che l’esplicito intento della legge è quello di assicurare la libertà di stabilimento e la libera prestazione dei servizi nel territorio, anche al fine di garantire la trasparenza del mercato, la difesa della Regione osserva – quanto agli impugnati artt. 2, comma 2, e 19 – che i requisiti che il cittadino comunitario o extra deve attestare di possedere sono in realtà previsti in alternativa tra loro a scelta dello straniero, e che (quanto a quello della frequenza con esito positivo di un corso professionale per il commercio) tale requisito è identico a quello previsto anche per il cittadino italiano dall’art. 66 della legge regionale n. 6 del 2010. Pertanto le disposizioni normative non conterrebbero alcuna discriminazione rilevante ai sensi dell’art. 49 del Trattato; laddove, in subordine, secondo la Regione, un eventuale riconoscimento del carattere discriminatorio delle norme de quibus dovrebbe condurre (secondo una interpretazione conforme al diritto comunitario) da un lato, a ritenerne la non applicabilità nei confronti dei cittadini dell’Unione europea, e dall’altro lato ad affermare che, per i cittadini extracomunitari, il requisito minimo della conoscenza, almeno di base, della lingua italiana – richiesta per lo stesso rilascio del permesso di soggiorno, ai sensi dell’art. 1, comma 22, lettera i), della legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica), lungi dall’essere discriminatorio, è volto non solo a favorirne l’integrazione nel Paese di accoglienza, ma nello specifico settore a garantire la tutela dei consumatori e la valorizzazione delle identità territoriali (come prescritto dall’Unione Europea).   2.2. – Quanto alla censura riferita all’art. 3, comma 4, la Regione (analizzate le vigenti normative statali e regionali che disciplinano le attività di estetista e quelle bio-naturali) ne sottolinea la radicale diversità (le prime essendo finalizzate alla cura del corpo, le seconde al benessere psico-fisico della persona) e deduce che la norma impugnata mira non già ad individuare una nuova  professione, quanto ad impedire una commistione di attività subordinate o meno ad un titolo abilitativo.

 2.3. – Riguardo all’art. 14, la Regione rileva che tale norma è quasi testualmente riproduttiva di quanto disposto nello stesso richiamato d.lgs. n. 59 del 2010, che, al comma 5 dell’art. 70, prevede espressamente la possibilità di individuare i criteri di rilascio delle autorizzazioni dei posteggi sulle aree pubbliche in deroga ai criteri individuati dal diritto comunitario.   2.4. – Infine, riguardo all’art. 18, la Regione – premessa l’inconferenza dell’evocato parametro di cui alla lettera a) del secondo comma dell’art. 117 Cost., poiché la norma si applica indistintamente a tutti e non solo agli stranieri – osserva che l’ulteriore attestazione (rispetto alla iscrizione all’INPS) degli adempimenti contributivi minimi, richiesta a riprova del requisito professionale, non incide sulla disciplina della previdenza sociale, di competenza statale, ma costituisce espressione della potestà legislativa concorrente in materia di «tutela e sicurezza del lavoro».

3. – Nell’imminenza dell’udienza, il Governo ricorrente e la Regione costituita hanno depositato memorie in cui ribadiscono ed illustrano ulteriormente le proprie argomentazioni difensive, insistendo per l’accoglimento delle rispettive conclusioni.

Considerato in diritto

 1. – Il Presidente del Consiglio dei ministri impugna in via principale gli articoli 2, comma 2, 3, comma 4, 14, 18 e 19 della legge della Regione Lombardia 27 febbraio 2012, n. 3, recante «Disposizioni in materia di artigianato e commercio e attuazioni della direttiva 2006/123/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 12 dicembre 2006 relativa ai servizi nel mercato interno. Modifiche alla legge regionale 30 aprile 2009, n. 8 (Disciplina della vendita da parte delle imprese artigiane di prodotti alimentari di propria produzione per il consumo immediato nei locali dell’azienda) e alla legge regionale 2 febbraio 2010, n. 6 (Testo unico delle leggi regionali in materia di commercio e fiere)».

 2. – In primo luogo vengono censurati gli artt. 2, comma 2, e 19 della citata legge regionale n. 3 del 2012.

L’art. 2, comma 2 (sotto la rubrica «Disciplina della vendita da parte delle imprese artigiane di prodotti alimentari di propria  produzione per il consumo immediato nei locali dell’azienda – Modifiche alla L.R. 30 aprile 2009, n. 8»), prevede che: «Dopo il comma 4 dell’articolo 2 della L.R. 8/2009 è inserito il seguente:

“4-bis. Nella comunicazione di cui al comma 4, in caso di avvio della attività in zone sottoposte a tutela, deve essere anche attestato il rispetto dei criteri qualitativi eventualmente previsti, a fronte di motivi imperativi di interesse generale, in particolare la tutela dei consumatori e della sanità pubblica, nella programmazione di cui all’articolo 4-bis della L.R. 6/2010. Nel caso di cittadini dei paesi non europei e dell’Unione Europea, nella comunicazione di avvio dell’attività deve essere altresì attestato il possesso da parte del soggetto che esercita effettivamente l’attività, a fronte di motivi imperativi di interesse generale, in particolare tutela dei consumatori e sanità pubblica, di uno dei documenti di cui all’articolo 67, comma 2-bis, della L.R. 6/2010. Qualora il soggetto richiedente che esercita effettivamente l’attività non attesti il possesso di nessuno dei documenti di cui all’articolo 67, comma 2-bis, della L.R. 6/2010, è tenuto a frequentare e superare positivamente un corso per valutare il grado di conoscenza di base della lingua italiana presso la Camera di Commercio territorialmente competente per il comune dove intende svolgere l’attività di somministrazione non assistita, o comunque un corso istituito o riconosciuto dalla Regione Lombardia, dalle altre regioni o dalle Province autonome di Trento e Bolzano. La Giunta regionale delibera i criteri, la durata e la modalità del corso.”».

 A sua volta l’art. 19 della medesima legge regionale n. 3 del 2012, dispone quanto segue: «Dopo il comma 2 dell’articolo 67 della L.R. 6/2010 per i motivi imperativi d’interesse generale di cui al comma 1 dell’articolo 4 della L.R. 6/2010 e in particolare per i motivi attinenti la sanità pubblica, la tutela dei lavoratori, la tutela dei consumatori, dei destinatari dei servizi, sono aggiunti i seguenti: “2-bis. Per il rilascio dell’autorizzazione per l’esercizio delle attività di somministrazione di alimenti e bevande è necessario che il soggetto, titolare o delegato, che esercita effettivamente l’attività presenti uno dei seguenti documenti: a) un certificato di conoscenza della lingua italiana, Certificazione Italiano Generale (CELI), a tal fine è sufficiente un CELI di livello A2 Common European Framework: livello di contatto definibile in termini di competenza relativa a routine memorizzate; b) un attestato che dimostri di aver conseguito un titolo di studio presso una scuola italiana legalmente riconosciuta o in alternativa un attestato che dimostri di avere frequentato, con esito positivo, un corso professionale per il commercio relativo al settore merceologico alimentare o per la somministrazione di alimenti e bevande istituito o riconosciuto dalla Regione Lombardia, dalle altre regioni o dalle Province autonome di Trento e di Bolzano. (omissis)».   Secondo l’Avvocatura dello Stato, le norme sarebbero discriminatorie nei confronti degli stranieri in ragione della loro cittadinanza. Per i cittadini comunitari esse concretizzerebbero una violazione dell’art. 49 del Trattato UE, e dunque del primo comma dell’art. 117 della Costituzione, che vieta restrizioni alla libertà di stabilimento ed impone l’accesso alle attività autonome e al loro esercizio alle condizioni definite dalla legislazione del paese di stabilimento nei confronti dei propri cittadini. La previsione regionale non sarebbe neanche compatibile con la direttiva servizi 2006/123/CE, secondo cui gli eventuali requisiti in base ai quali l’ordinamento interno può subordinare l’accesso ad un’attività di servizi non possono comunque essere discriminatori e devono osservare i caratteri della necessità e della proporzionalità, con ciò ledendo anche l’art. 117, secondo comma, lettera a), Cost., che riserva allo Stato la competenza in materia di condizione giuridica dei cittadini di Stati non appartenenti all’Unione Europea. Infine, la normativa impugnata, nell’imporre la presentazione della suddetta documentazione, costituirebbe un ostacolo per gli stranieri all’esercizio delle attività, alterando dunque la concorrenza con

violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost.

 2.1. – La questione non è fondata.

Premesso infatti che il Governo non contesta che al legislatore regionale, nella regolamentazione dell’accesso alle attività in esame (riconducibile, in termini generali, alla materia del commercio ex art. 117, quarto comma, Cost.) sia consentito di prevedere, in capo a chi richieda il rilascio della autorizzazione ad esercitare detta attività, il possesso di requisiti professionali (che evidentemente costituiscono elementi atti a dimostrare la affidabilità dell’operatore e la sua capacità professionale in rapporto alla concorrente esigenza di garantire la tutela del consumatore), va rilevato che il censurato art. 2, comma 2, richiede la produzione da parte dell’interessato «di uno dei» documenti previsti dall’art. 67, comma 2-bis, della legge regionale 2 febbraio 2010, n. 6, recante il «Testo unico delle leggi regionali in materia di commercio e fiere» (comma aggiunto dall’art. 19 della legge regionale n. 3 del 2012, congiuntamente impugnato). Trattasi di una previsione che lascia al soggetto interessato la scelta di presentare o un certificato di conoscenza della lingua italiana, Certificazione Italiano Generale (CELI) (art. 67, comma 2-bis, le ttera a); ovvero un attestato che dimostri il conseguimento di un titolo di studio presso una scuola italiana legalmente riconosciuta o ancora, in alternativa, un attestato che dimostri l’avvenuta frequenza, con esito positivo, di un corso professionale per il commercio relativo al settore merceologico alimentare o per la somministrazione di alimenti e bevande istituito o riconosciuto dalla Regione Lombardia, dalle altre Regioni o dalle Province autonome di Trento e Bolzano (lettera b).   Alla esclusione dell’asserito effetto discriminatorio  derivante (direttamente o indirettamente) dalla cittadinanza dell’operatore (che viene posto a base delle singole censure mosse dal ricorrente alla normativa impugnata), si perviene, dunque, muovendo dalla constatazione che la conoscenza della lingua italiana non è dal legislatore regionale prevista quale unico imprescindibile requisito (imposto agli stranieri) richiesto per avviare l’attività commerciale, giacché la stessa norma prevede che l’interessato possa in alternativa attestare anche la frequenza ed il superamento del corso professionale per il commercio relativo al settore merceologico di riferimento. Ed in ordine a tale possibilità, va rilevato che l’art. 66, comma 1, lettera a), dello stesso testo unico regionale in materia di commercio – nel fissare i requisiti professionali per l’esercizio dell’attività di somministrazione di alimenti e bevande, con previsioni sostanzialmente identiche a quelle di cui al comma 6 dell’art. 71 del decreto legislativo 26 marzo 2010, n. 59 (Attuazione della direttiva 2006/123/CE relativa ai servizi nel mercato interno) – prevede (sempre in via alternativa) proprio la medesima condizione dell’«avere frequentato con esito positivo un corso professionale per il commercio, la preparazione o la somministrazione degli alimenti, istituito o riconosciuto dalle regioni o dalle province autonome di Trento e di Bolzano». La sostanziale identità di uno dei requisiti stabiliti tanto per gli italiani quanto per gli stranieri (siano essi comunitari o non) rappresenta ulteriore riprova della non configurabilità del lamentato effetto discriminatorio (peraltro non censurato in termini di ingiustificata disparità di trattamento di situazioni asseritamente uguali, ex art. 3 Cost.) derivante dalla applicazione delle norme censurate.

Dunque, il carattere meramente alternativo del requisito (individuato in un contesto normativo di disciplina del commercio, di competenza regionale residuale: sentenze n. 299 del 2012, n. 247 del 2010 e n. 430 del 2007), fa sì che esso, in quanto tale, sia inidoneo ad incidere negativamente sull’assetto concorrenziale dei mercati, ovvero sulla condizione giuridica dei cittadini di Stati non appartenenti all’Unione Europea, ovvero infine sui vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario; con la conseguenza che le disposizioni censurate  non vulnerano alcuno dei parametri evocati.

 3 – Il ricorrente impugna, altresì, l’art. 3, comma 4, della legge regionale n. 3 del 2012 che, nel disciplinare l’attività di estetista, prevede che: «Ogni attività che comporti  prestazioni, trattamenti e manipolazioni sulla superficie del corpo umano, ivi compresi i massaggi estetici e rilassanti, finalizzate al benessere fisico, al miglioramento estetico della persona o alla cura del corpo priva di effetti terapeutici, con esclusione delle attività esercitate dagli operatori iscritti al registro di cui all’articolo 2 della legge regionale 1 febbraio 2005, n. 2 (Norme in materia di discipline bio-naturali) è da intendersi attività ai sensi della L. 1/1990 sia che si realizzi con tecniche manuali e corporee sia che si realizzi con l’utilizzo di specifici apparecchi».   La difesa erariale – sul presupposto che l’operata esclusione delle attività bionaturali dal novero di quelle proprie della professione di estetista consentirebbe agli operatori delle prime di esercitarla con la sola iscrizione nel registro regionale e, dunque, senza necessità del titolo abilitativo richiesto dalla normativa statale – lamenta (ai sensi del terzo comma dell’art. 117 Cost.) la lesione della competenza concorrente della Regione in materia di professioni, in quanto la disposizione impugnata conferirebbe valore abilitativo all’esercizio di un’attività professionale alla iscrizione ad un registro introdotto da una legge regionale.

3.1. – La questione è fondata.

 L’art. 1 della legge 4 gennaio 1990, n. 1 (Disciplina dell’attività di estetista), prevede che «L’attività di estetista comprende tutte le prestazioni ed i trattamenti eseguiti sulla superficie del corpo umano il cui scopo esclusivo o prevalente sia quello di mantenerlo in perfette condizioni, di migliorarne e proteggerne l’aspetto estetico, modificandolo attraverso l’eliminazione o l’attenuazione degli inestetismi presenti» (comma 1); e che «Tale attività può essere svolta con l’attuazione di tecniche manuali, con l’utilizzazione degli apparecchi elettromeccanici per uso estetico, di cui all’elenco allegato alla presente legge, e con l’applicazione dei prodotti cosmetici definiti tali dalla legge 11 ottobre 1986, n. 713» (comma 2). Il successivo art. 2 (premesso che «L’attività professionale di cui all’articolo 1 è esercitata in forma di impresa, individuale o societaria, ai sensi delle norme vigenti») stabilisce che «Non è consentito l’esercizio dell’attività ai soggetti non iscritti all’Albo delle imprese artigiane di cui all’articolo 5 della legge 8 agosto 1985, n. 443, o nel Registro delle imprese di cui all’articolo 8 della legge 29 dicembre 1993, n. 580»; e che «L’esercizio dell’attività di estetista è soggetto a segnalazione certificata di inizio di attività ai sensi dell’articolo 19 della legge 7 agosto 1990, n. 241, da presentare allo sportello unico di cui all’articolo 38 del decreto legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133». Inoltre, l’art. 3 prevede che «1. La qualificazione professionale di estetista si intende conseguita, dopo l’espletamento dell’obbligo scolastico, mediante il superamento di un apposito esame teorico-pratico preceduto dallo svolgimento: a) di un apposito corso regionale di qualificazione della durata di due anni, con un minimo di 900 ore annue; tale periodo dovrà essere seguito da un corso di specializzazione della durata di un anno oppure da un anno di inserimento presso una impresa di estetista; b) oppure di un anno di attività lavorativa qualificata in qualità di dipendente, a tempo pieno, presso uno studio medico specializzato oppure una impresa di estetista, successiva allo svolgimento di un rapporto di apprendistato presso una impresa di estetista, come disciplinato dalla legge 19 gennaio 1955, n. 25, e successive modificazioni ed integrazioni, della durata prevista dalla contrattazione collettiva di categoria, e seguita da appositi corsi regionali, di almeno 300 ore, di formazione teorica, integrativi delle cognizioni pratiche acquisite presso l’impresa di estetista; c) oppure di un periodo, non inferiore a tre anni, di attività lavorativa qualificata, a tempo pieno, in qualità di dipendente o collaboratore familiare, presso una impresa di estetista, accertata attraverso l’esibizione del libretto di lavoro o di documentazione equipollente, seguita dai corsi regionali di formazione teorica di cui alla lettera b). Il periodo di attività di cui alla presente lettera c) deve essere svolto nel corso del quinquennio antecedente l’iscrizione ai corsi di cui alla lettera b)» (comma 1). Infine, il comma 4 dell’art. 4 dispone che «Lo svolgimento dell’attività di estetista, dovunque tale attività sia esercitata, in luogo pubblico o privato, anche a titolo gratuito, è subordinato al possesso della qualificazione professionale di cui all’articolo 3».   A sua volta, l’art. 1 della legge della Regione Lombardia 1° febbraio 2005, n. 2 (Norme in materia di discipline bio-naturali), stabilisce che «La presente legge ha lo scopo di valorizzare l’attività degli operatori in discipline bio-naturali, al fine di garantire una qualificata offerta delle prestazioni e dei servizi che ne derivano» (comma 1); e che «Le prestazioni afferenti l’attività degli operatori in discipline bio-naturali consistono in attività e pratiche che hanno per finalità il mantenimento del recupero dello stato di benessere della persona. Tali pratiche, che non hanno carattere di prestazioni sanitarie, tendono a stimolare le risorse vitali dell’individuo attraverso metodi ed elementi naturali la cui efficacia sia stata verificata nei contesti culturali e geografici in cui le discipline sono sorte e si sono sviluppate» (comma 2).

All’art. 2, la medesima legge regionale dispone che «Per le finalità di cui all’articolo 1, comma 1, è istituito il registro regionale degli operatori in discipline bio-naturali, suddiviso in sezioni corrispondenti alle diverse discipline, di seguito denominato registro» (comma 1); che «Al registro possono iscriversi coloro i quali abbiano seguito percorsi formativi riconosciuti dalla Regione in base a criteri definiti dal comitato tecnico scientifico di cui all’articolo 4» (comma 2); e che «L’iscrizione nel registro non costituisce comunque condizione necessaria per l’esercizio dell’attività sul territorio regionale da parte degli operatori» (comma 3).

3.2. – La norma censurata non si limita ad operare una generica ricognizione (da ritenersi priva di autonomo valore dispositivo) delle attività proprie della professione di estetista (già individuate dalla legge statale n. 1 del 1990 che ha istituito la relativa figura professionale) e di quelle esercitate dagli operatori iscritti al registro delle discipline bio-naturali previsto e disciplinato dalla legge regionale n. 2 del 2005. La previsione regionale, infatti, da un lato, individua autonomamente le attività tipiche della professione di estetista (in modo oltretutto diverso da quanto indicato dal legislatore statale nell’art. 1, comma 1, della legge n. 1 del 1990); e, dall’altro lato, attraverso l’esclusione dai compiti, propri dell’estetista, delle attività esercitate dagli operatori bio-naturali iscritti al registro regionale, di fatto ridisegna (per sottrazione) la figura professionale dei primi (a tutto vantaggio delle competenze dei secondi), e contestualmente conferisce alla iscrizione nel predetto registro regionale un valore dirimente (quantomeno al fine di regolamentare i confini tra le due professioni), che trasmoda dalla originaria irrilevanza dell’iscrizione stessa rispetto all’esercizio dell’attività sul territorio regionale da parte degli operatori (stabilita dal citato art. 2, comma 3, della legge reg. n. 2 del 2005).

 Orbene, proprio in tema di regolamentazione da parte delle Regioni delle discipline bio-naturali (che ha dato origine a ripetuti scrutini di costituzionalità), questa Corte ha costantemente affermato che la potestà legislativa regionale nella materia concorrente delle “professioni” deve rispettare il principio secondo cui l’individuazione delle figure professionali, con i relativi profili e titoli abilitanti, è riservata, per il suo carattere necessariamente unitario, allo Stato, rientrando nella competenza delle Regioni la disciplina di quegli aspetti che presentano uno specifico collegamento con la realtà regionale; e che tale principio, al di là della particolare attuazione ad opera dei singoli precetti normativi, si configura infatti quale limite di ordine generale, invalicabile dalla legge regionale, da ciò derivando che non è nei poteri delle Regioni dar vita a nuove figure professionali (sentenze n. 138 del 2009, n. 93 del 2008, n. 300 del 2007, n. 40 del 2006 e n. 424 del 2005). E, tra gli indici sintomatici della istituzione di una nuova professione, è stato ritenuto esservi quello della previsione di appositi elenchi, disciplinati dalla Regione, connessi allo svolgimento della attività che la legge regolamenta, giacché «l’istituzione di un registro professionale e la previsione delle condizioni per la iscrizione in esso hanno, già di per sé, una funzione individuatrice della professione, preclusa alla competenza regionale» (sentenze n. 93 del 2008, n. 300 e 57 del 2007 e n. 355 del 2005), prescindendosi dalla circostanza che tale iscrizione si caratterizzi o meno per essere necessaria ai fini dello svolgimento della attività cui l’elenco fa riferimento (sentenza n. 300 del 2007).

Poiché, anche il presente intervento del legislatore regionale, peraltro incidente sia sulla legge statale che su quella regionale, comporta una ridefinizione tanto delle attività di estetista, quanto di quelle di operatore bio-naturale, oltre ad una diversa e più ampia valenza degli effetti dell’iscrizione nel registro regionale (essendo priva di rilievo la circostanza che la legge regionale n. 2 del 2005 non sia stata, a suo tempo, impugnata dal Governo), l’art. 3, comma 4, della legge regionale n. 3 del 2012 si pone in contrasto con l’art. 117, terzo comma, Cost. e, di conseguenza, deve essere dichiarato costituzionalmente illegittimo.

4. – Il ricorrente censura, ancora, l’art. 14 della legge regionale n. 3 del 2012 che, nel disciplinare i criteri per il rilascio e rinnovo delle concessioni dei posteggi per l’esercizio del commercio su aree pubbliche, prevede che «Con intesa in sede di Conferenza unificata, ai sensi dell’articolo 8, comma 6, della legge 5 giugno 2003, n. 131 (Disposizioni per l’adeguamento dell’ordinamento della Repubblica alla L. Cost. 18 ottobre 2001, n. 3), anche in deroga al disposto di cui all’articolo 16 del decreto  legislativo 26 marzo 2010, n. 59 (Attuazione della direttiva 2006/123/CE relativa ai servizi nel mercato interno), vengono individuati, senza discriminazioni basate sulla forma giuridica dell’impresa, i criteri per il rilascio e il rinnovo della concessione dei posteggi per l’esercizio su aree pubbliche e le disposizioni transitorie da applicare, con le decorrenze previste, anche alle concessioni in essere alla data di entrata in vigore del D.Lgs. 59/2010 ed a quelle prorogate durante il periodo intercorrente fino all’applicazione di tali disposizioni transitorie».

Il Governo denuncia la violazione dell’art. 117, primo comma e secondo comma, lettera e), Cost., essendo la previsione del potere di deroga idonea a introdurre criteri potenzialmente restrittivi della concorrenza, in special modo con riferimento alle richiamate norme statali che stabiliscono che le autorizzazioni debbano essere concesse per durata limitata, senza rinnovo automatico e individuazione di vantaggi in favore del prestatore uscente.

4.1. – La questione è fondata.

 Come questa Corte ha, di recente, affermato (sentenza n. 291 del 2012), la direttiva 2006/123/CE, relativa ai servizi nel mercato interno – seppure si ponga, in via prioritaria, finalità di massima liberalizzazione delle attività economiche (tra queste, la libertà di stabilimento di cui all’art. 49 [ex art. 43] del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea) e preveda, quindi, soprattutto disposizioni tese alla realizzazione di tale scopo – consente, comunque, di porre dei limiti all’esercizio della tutela di tali attività, nel caso che questi siano giustificati da motivi imperativi di interesse generale. E tali limiti sono individuati, in termini generali, dagli artt. 14, 15 e 16 del decreto legislativo n. 59 del 2010 (attuativo della citata direttiva). In particolare, l’art. 14 prevede la possibilità di introdurre limitazioni all’esercizio dell’attività economica istituendo o mantenendo regimi autorizzatori «solo se giustificati da motivi di interesse generale, nel rispetto dei principi di non discriminazione, di proporzionalità, nonché delle disposizioni di cui al presente titolo». La stessa disposizione, poi, fissa i requisiti a cui subordinare la sussistenza di tali motivi imperativi (definiti, peraltro, come «ragioni di pubblico interesse»); mentre l’art. 15 indica le condizioni alle quali è subordinato l’accesso e l’esercizio alle attività di servizi, ove sia previsto un regime autorizzatorio. Infine, il successivo art. 16 dispone che le autorità competenti – nel caso in cui il numero delle autorizzazioni disponibili per una determinata attività di servizi sia limitato «per ragioni correlate alla scarsità delle risorse naturali o delle capacità tecniche disponibili» – debbano attuare una procedura di selezione tra i potenziali candidati, garantendo «la predeterminazione e la pubblicazione, nelle forme previste dai propri ordinamenti, dei criteri e delle modalità atti ad assicurarne l’imparzialità, cui le stesse devono attenersi» (comma 1), con un titolo che deve essere «rilasciato per una durata limitata e non può essere rinnovato automaticamente, né possono essere accordati vantaggi al prestatore uscente o ad altre persone, ancorché giustificati da particolari legami con il primo» (comma 4).

A questo regime autorizzatorio – che, come sottolineato, consente allo Stato di limitare la finalità di massima liberalizzazione,  perseguita dalla direttiva servizi e dal decreto legislativo attuativo della stessa, solo ove sussistano motivi imperativi di interesse generale (quali appunto anche quelli derivanti dalla scarsità delle risorse naturali, che determina la necessità della selezione tra i diversi candidati) – l’art. 70, comma 5, dello stesso decreto legislativo n. 59 del 2010 (con una disposizione sostanzialmente identica a quella regionale impugnata) consente, a sua volta, espressamente di derogare, con specifico riferimento al  commercio al dettaglio su aree pubbliche, prevedendo che, «Con intesa in sede di Conferenza unificata, ai sensi dell’articolo 8, comma 6, della legge 5 giugno 2003, n. 131, anche in deroga al disposto di cui all’articolo 16 del presente decreto, sono individuati, senza discriminazioni basate sulla forma giuridica dell’impresa, i criteri per il rilascio e il rinnovo della concessione dei posteggi per l’esercizio del commercio su aree pubbliche e le disposizioni transitorie da applicare, con le decorrenze previste, anche alle concessioni in essere alla data di entrata in vigore del presente decreto ed a quelle prorogate durante il periodo intercorrente fino all’applicazione di tali disposizioni transitorie».

4.2. – Trattandosi di regolamentazione normativa indiscutibilmente riconducibile alla materia “tutela della concorrenza” (che si attua anche attraverso la previsione e la correlata disciplina delle ipotesi in cui viene eccezionalmente consentito di apporre dei limiti all’esigenza di tendenziale massima liberalizzazione delle attività economiche: sentenza n. 291 del 2012), è alla competenza esclusiva dello Stato che spetta tale regolamentazione, ex art. 117, secondo comma, lettera e), Cost.   L’impugnata norma regionale (che riproduce testualmente il  citato, e già vigente, art. 70), oltre che pleonastica, si pone in contrasto con il principio ripetutamente affermato da questa Corte, secondo cui, in presenza di una materia attribuita alla competenza esclusiva dello Stato, alle Regioni è inibita la stessa riproduzione della norma statale (sentenze n. 18 del 2013, n. 271 del 2009, n. 153 e n. 29 del 2006); affermazione, questa, che nella fattispecie è estensibile anche rispetto alle regole di tutela della concorrenza (la quale, pur se caratterizzate dalla portata “trasversale” e dal contenuto finalistico delle relative statuizioni, tuttavia non priva le Regioni, delle competenze legislative e amministrative loro spettanti, ma le orienta ad esercitarle in base ai principi indicati dal legislatore statale: sentenza n. 8 del 2013). Infatti, rispetto alla norma censurata, il criterio formale di esclusione della  possibilità di novazione della fonte ad opera della Regione deriva, appunto, direttamente dalla incompetenza della Regione a regolamentare una materia certamente ascrivibile alla tutela della concorrenza, in particolare stabilendo essa la censurata possibilità di derogare al regime dettato dalla norma statale. E la circostanza che, nel frattempo, in data 5 luglio 2012 sia intervenuta l’intesa in sede di Conferenza unificata conferma tale conclusione, là dove, come affermato testualmente nella stessa intestazione, l’intesa medesima risulta adottata «in attuazione dell’articolo 70, comma 5, del decreto legislativo 26 marzo 2010, n. 59, di recepimento della direttiva 2006/123/CE relativa ai servizi nel mercato interno».   Pertanto, l’art. 14 della legge regionale n. 3 del 2012 deve essere dichiarato costituzionalmente illegittimo, per violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost., restando assorbito l’ulteriore profilo, evocato dal ricorrente in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost.

 5. – Infine, il Presidente del Consiglio dei ministri impugna l’art. 18 della legge regionale n. 3 del 2012, che, in materia di attestazione degli adempimenti contributivi ai fini del riconoscimento del requisito professionale, prevede che: «L’avere prestato la propria opera, ai fini del riconoscimento del requisito di cui agli articoli 20, comma 6, lett. b), e 66, comma 1, lett. b), della L.R. 6/2010, per i motivi imperativi d’interesse generale di cui all’articolo 8, lettera h), del D.Lgs. 59/2010 e in particolare per i motivi attinenti la tutela dei lavoratori e la protezione sociale dei lavoratori, deve essere comprovato, oltre che dalla iscrizione all’Istituto nazionale previdenza sociale, dalla attestazione degli adempimenti contributivi minimi previsti da parte della previdenza sociale nazionale».

Il ricorrente – ritenuto che l’ulteriore requisito, non previsto dalla legge statale, dell’attestazione degli adempimenti contributivi minimi previsti da parte della previdenza sociale nazionale, introduce un elemento restrittivo per il riconoscimento del titolo professionale – censura la norma per violazione: a) dell’art. 117, primo comma, Cost., per violazione dei vincoli derivanti dal diritto comunitario; b) delle lettere a), b), e) ed o) del secondo comma dello stesso articolo 117 Cost., per invasione delle competenze esclusive dello Stato su condizione giuridica dello straniero, tutela della concorrenza e previdenza sociale; c) del terzo comma dell’art. 117 Cost., per contrasto con la «norma statale di principio in materia di professioni».

Orbene – a prescindere dalla erroneità del presupposto da cui muove il ricorrente, secondo cui la norma impugnata introdurrebbe un «elemento restrittivo ulteriore» rispetto alla iscrizione, elemento che determinerebbe la lesione dei sopra menzionati parametri, «nella misura in cui incide sulla condizione giuridica del cittadino non italiano, al quale si richiede un quid pluris rispetto a quanto è chiesto al cittadino italiano per l’attività di lavoro da svolgere in Italia», essendo viceversa evidente (anche in ragione dello specifico richiamo della norma ai requisiti indicati negli artt. 20 e 66 della legge regionale n. 6 del 2010) come anch’essa sia rivolta alla generalità degli operatori commerciali del settore (italiani e stranieri) – questa Corte, per economia di giudizio, e facendo ricorso al suo potere di decidere l’ordine delle questioni da affrontare in sentenza (eventualmente dichiarando assorbite le altre: sentenza n. 262 del 2009), ritiene di dovere innanzitutto analizzare la denunciata violazione della competenza esclusiva dello Stato in materia di previdenza sociale, ex art. 117, secondo comma, lettera o), Cost., la cui proposizione non viene basata sulla predetta erronea premessa interpretativa.

 5.1. – La questione è fondata.

 La previsione, secondo la quale – affinché l’interessato possa ottenere il riconoscimento del requisito di cui agli articoli 20, comma 6, lettera b), e 66, comma 1, lettera b), della legge regionale n. 6 del 2010 (ossia dell’avvenuta prestazione della propria opera, per almeno due anni, anche non continuativi, nel quinquennio precedente nel settore commerciale de quo) -, il possesso di detto requisito debba essere comprovato, oltre che dalla iscrizione all’Istituto nazionale previdenza sociale, anche dalla attestazione degli adempimenti contributivi minimi previsti da parte della previdenza sociale nazionale, esula infatti dalla invocata competenza regionale in tema di tutela e protezione sociale dei lavoratori (evocata dalla resistente quale specifica ratio dell’intervento normativo). Infatti, per dimostrare la sussistenza di un requisito che consente all’interessato l’accesso alla attività lavorativa commerciale, il legislatore regionale richiama ed utilizza del tutto impropriamente istituti tipici di previdenza sociale, congegnati dallo Stato (nell’esercizio della sua competenza esclusiva) appunto per soddisfare altre finalità.

Poiché solo lo Stato può estendere l’ambito soggettivo e/o oggettivo di applicazione di disposizioni che rientrano in materie di competenza legislativa esclusiva statale, tra cui specificamente quello della previdenza sociale (sentenza n. 325 del 2011), potendo altrimenti le previsioni regionali determinare difformità in una disciplina che deve essere applicata in modo necessariamente unitario (sentenza n. 184 del 2011), la norma impugnata si pone in contrasto con il richiamato parametro, e conseguentemente deve essere dichiarata costituzionalmente illegittima.

Restano assorbite le ulteriori censure di illegittimità costituzionale.

P.Q.M.

 1) dichiara l’illegittimità costituzionale degli articoli 3, comma 4, 14 e 18 della legge della Regione Lombardia 27 febbraio 2012, n. 3, recante «Disposizioni in materia di  artigianato e commercio e attuazioni della direttiva 2006/123/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 12 dicembre 2006 relativa ai servizi nel mercato interno. Modifiche alla legge regionale 30 aprile 2009, n. 8 (Disciplina della vendita da parte delle imprese artigiane di prodotti alimentari di propria produzione per il consumo immediato nei locali dell’azienda) e alla legge regionale 2 febbraio 2010, n. 6 (Testo unico delle leggi regionali in materia di commercio e fiere)»; 

2) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale degli articoli 2, comma 2, e 19 della medesima legge della Regione Lombardia n. 3 del 2012, proposta – in riferimento all’articolo 117, primo e secondo comma, lettere a) ed e), della Costituzione – dal Presidente del Consiglio dei ministri, con il ricorso indicato in epigrafe.

Provvedimento pubblicato nella G.U. della Corte Costituzionale 29 maggio 2013, n. 22.