CORTE D’APPELLO DI ROMA – Ordinanza 27 aprile 2021
Previdenza e assistenza – Indennità di buonuscita prevista per i dipendenti civili e militari dello Stato – Provvedimento adottato dall’amministrazione del Fondo di previdenza (INPS) – Applicazione anche all’errore di calcolo determinato da fatto imputabile all’amministrazione di appartenenza del pubblico dipendente – Decreto del Presidente della Repubblica 29 dicembre 1973, n. 1032 (Approvazione del testo unico delle norme sulle prestazioni previdenziali a favore dei dipendenti civili e militari dello Stato), art. 30, comma primo, lettera b), e comma secondo
Rilevato che
l’appellante è stato professore associato presso l’Università «La Sapienza» di Roma fino al 1° novembre 2011, quando è cessato dal servizio;
con provvedimenti dell’8 febbraio 2012 e del 1° marzo 2012 l’Inps gli ha liquidato il trattamento di fine servizio;
con lettera del 12 aprile 2017, prot. 75156, l’Inps gli ha comunicato di aver proceduto alla riliquidazione del trattamento di fine servizio, precisando che dal nuovo conteggio era derivato un conguaglio a suo debito di euro 75.509,64;
detta missiva è stata preceduta da due lettere ell’Università «La Sapienza» di Roma del 1° marzo 2017 e del 10 marzo 2017, con cui all’appellante è stata comunicata la rideterminazione dei compensi erogati ed all’Inps è stato inoltrato il modello PA04-TS ai fini della rideterminazione del trattamento di fine servizio;
il P. ha contestato la pretesa restitutoria eccependo – logicamente in via preliminare – l’intervenuta decadenza del potere di modifica. in quanto sarebbe spirato il termine di un anno previsto dall’art. 30, decreto del Presidente della Repubblica n. 1032/1973;
il Tribunale ha rigettato questa eccezione, sostenendo che il dies a quo del termine annuale di decadenza è da individuare nel giorno in cui l’ex amministrazione di appartenenza ha comunicato all’Inps i nuovi dati retributivi rettificati, ai fini dell’esatto calcolo del trattamento di fine servizio;
con il primo motivo di appello il P. si duole dell’errata individuazione del dies a quo del termine di decadenza;
ad avviso dell’appellante, il tenore della norma è chiaro nello stabilire che, in caso di «errore di calcolo», come nella specie, il termine di decadenza di un anno per la modifica del provvedimento di liquidazione dell’indennità di buonuscita o del trattamento di fine servizio decorre «dalla data di emanazione» del provvedimento errato;
se tale fosse l’interpretazione della norma, effettivamente il termine di decadenza sarebbe ampiamente decorso (v. supra) e l’appello dovrebbe essere accolto, trattandosi di motivo che assorbe tutti gli altri, relativi al contenuto ed ai limiti della pretesa restitutoria dell’Inps.
Tutto ciò rilevato,
Osserva
1. Il decreto del Presidente della Repubblica n. 1032/1973 ha valore di legge ordinaria, in quanto emanato ai sensi dell’art. 6, legge n. 775/1970, che delegò il Governo ad emanare testi unici – espressamente «aventi valore di leggi ordinarie» – delle disposizioni in vigore concernenti le singole materie. La materia qui ordinata in testo unico è quella delle «prestazioni previdenziali in favore dei dipendenti civili e militari dello Stato».
2. Per la liquidazione dell’indennità di buonuscita (nel caso in esame trattamento di fine servizio), l’art. 26, comma 2, decreto del Presidente della Repubblica cit. prevede che l’amministrazione di appartenenza del dipendente trasmetta all’amministrazione del Fondo di previdenza (ora all’Inps) un «progetto di liquidazione».
L’art. 30, comma 1, lettera b), e comma 2, decreto del Presidente della Repubblica cit. prevede che, qualora vi sia stato un errore nel calcolo dell’indennità di buonuscita, il provvedimento errato è revocato, modificato o rettificato non oltre il termine di un anno dalla data di sua emanazione.
L’ultimo comma dell’art. 30, decreto del Presidente della Repubblica cit. individua però un diverso termine di decadenza. Precisamente, dispone che «Nel caso previsto dall’art. 26, comma sesto, il provvedimento è revocato, modificato o rettificato nel termine di sessanta giorni dalla ricevuta comunicazione dell’amministrazione statale».
A sua volta, l’art. 26, sesto comma, decreto del Presidente della Repubblica cit. dispone: «Eventuali modifiche relative a provvedimenti dell’amministrazione statale, che comportino variazioni concernenti l’indennità di buonuscita già erogata, saranno comunicate alla amministrazione del Fondo di previdenza, ai fini del pagamento di supplementi dell’indennità predetta ovvero del recupero, mediante trattenute sul trattamento di quiescenza, delle somme non dovute».
Se dunque il caso concreto rientrasse in quest’ultima previsione, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 30 cit. perderebbe la sua rilevanza e, risultando rispettato questo diverso termine di decadenza (sessanta giorni dal ricevimento della nuova comunicazione dell’Università), il primo (ed assorbente) motivo di appello del P. dovrebbe essere rigettato.
Tuttavia, questa Corte ritiene che – come argomenta anche la difesa dell’Inps – l’art. 26, comma 6, decreto del Presidente della Repubblica cit. non sia applicabile al caso concreto.
Infatti, tale norma si riferisce a modifiche dei provvedimenti dell’amministrazione di appartenenza adottati come «datore di lavoro» e che quindi incidano sul rapporto di lavoro (ad esempio una ricostruzione di carriera), dai quali derivi, come conseguenza ulteriore, una diversa quantificazione dell’indennità di buonuscita.
E’ questo il significato – logico prima che giuridico – del predicato verbale «comportino», utilizzato nella norma.
Nel caso in esame, invece, il provvedimento originario (poi modificato da quello successivo), adottato dall’Università, è inerente proprio al calcolo del trattamento di fine servizio, il cui obbligo grava però sull’Inps. Dunque non è un provvedimento che attenga ad altra materia, dal quale discenda, come conseguenza ulteriore, una diversa quantificazione del trattamento di fine servizio. Sicché l’errore commesso dall’Inps nella liquidazione di questo trattamento è dipeso proprio da un errore commesso a suo tempo dall’Università – a rapporto di lavoro del P. ormai estinto – nell’elaborazione del «progetto di liquidazione» del t.f.s. (ex art. 26, comma 2, decreto del Presidente della Repubblica cit.) sulla base di una determinata (ma risultata poi errata) quantificazione dell’indennità di perequazione ex art. 31 decreto del Presidente della Repubblica n. 761/1979 utile ai fini del trattamento di fine servizio.
Il successivo provvedimento dell’Università è stato «modificativo» di tale quantificazione e, quindi, è in realtà da intendersi come «correttivo» proprio di quell’errore a suo tempo commesso e, pertanto, costituisce un diverso «progetto di liquidazione». In definitiva, l’oggetto immediato e diretto della «modifica» è stato proprio uno dei dati (id est l’indennità di perequazione ex art. 31, decreto del Presidente della Repubblica n. 761/1979) necessari per la liquidazione del trattamento di fine servizio spettante all’appellante.
Ne deriva che, non vertendosi nell’ambito applicativo dell’art. 26, comma 6, decreto del Presidente della Repubblica n. 1032/1973, torna ad essere applicabile il regime previsto dai primi due commi dell’art. 30, decreto del Presidente della Repubblica cit., con il conseguente termine di decadenza di un anno, decorrente dalla data di emanazione dell’originario provvedimento (errato) di liquidazione del trattamento di fine servizio da parte dell’Inps (succeduto ex lege all’Inpdap).
Sul punto il dato testuale della norma è talmente chiaro, da non lasciare adito a dubbi. Di conseguenza, il primo (e assorbente) motivo di appello del P. dovrebbe essere accolto.
3. Né può accedersi alla tesi (sostenuta da una parte della giurisprudenza capitolina di merito), secondo cui il potere di rettifica dell’Inps, previsto dall’art. 30, decreto del Presidente della Repubblica cit., sarebbe limitato solo agli errori di fatto e/o di calcolo, mentre quello in esame sarebbe un errore «di diritto», che resterebbe pertanto imputabile all’Inps senza possibilità di rimedio.
Va infatti considerato che, in mancanza di ulteriori specificazioni, l’errore di calcolo considerato dalla norma può essere determinato anche da un errore di diritto circa le voci computabili nella base di calcolo del t.f.s., perché anche in tal caso si verifica – appunto – un errore di calcolo. Quindi, nella sua nozione onnicomprensiva (e in difetto di ulteriori specificazioni e/o limitazioni), la norma dell’art. 30 cit. prende in considerazione solo l’aspetto finale ed omnicomprensivo dell’errore «a valle» e non anche le ragioni «a monte» che lo hanno determinato. Resta pertanto irrilevante la natura – di fatto o di diritto – dell’errore commesso «a monte», causativo, a sua volta, dell’errore di calcolo «a valle».
4. Posta dunque l’astratta applicabilità dell’art. 30, decreto del Presidente della Repubblica cit., anche su sollecitazione della difesa dell’Inps articolata nella memoria di costituzione nel presente grado di giudizio, questa Corte dubita della sua legittimità costituzionale.
4.1. Con riguardo all’art. 3 della Costituzione, va evidenziato che il tertium comparationis è rappresentato:
sia dal t.f.r. nel lavoro subordinato privato, sebbene il relativo obbligo gravi sullo stesso datore di lavoro;
sia nelle altre tipologie previste per il pubblico impiego, come ad esempio l’indennità premio di servizio dei dipendenti degli enti locali, il cui obbligo grava anche in tal caso sull’ente previdenziale.
In entrambe queste fattispecie l’eventuale eccedenza dell’importo liquidato, rispetto a quello effettivamente spettante al dipendente, può essere sempre chiesto in ripetizione secondo la disciplina dell’indebito oggettivo (art. 2033 del codice civile), sottoposto unicamente all’ordinario termine decennale di prescrizione (per l’indennità premio di servizio per i dipendenti degli enti locali, v. in tal senso la Cassazione 24 maggio 2005, n. 10915).
La predetta questione si pone anche rispetto al t.f.r. nel lavoro subordinato privato, sebbene in tal caso il soggetto obbligato sia lo stesso datore di lavoro e, quindi, eventuali errori sarebbero a lui attribuibili. Questo profilo non è tale, però, da giustificare la diversità di trattamento.
Anzi, proprio laddove – come nel pubblico impiego – non vi sia coincidenza fra soggetto obbligato a pagare il t.f.s. e datore di lavoro, l’imposizione di un termine di decadenza a carico del primo (id est l’ente previdenziale) per eventuali rettifiche dipese e/o disposte tardivamente dal secondo si rivela irragionevole, in quanto pone il debitore (Inps) alla mercè dei possibili errori e/o omissioni del datare di lavoro (amministrazione statale o altre amministrazioni soggette alla disciplina di cui al decreto del Presidente della Repubblica n. 1032/1973), sulle quali il primo non ha alcun potere di incidenza. Quindi la decadenza finisce per perdere il suo autentico significato di sanzione per un comportamento inerte imputabile al soggetto che ha il potere di rettificare il debito. Nella fattispecie descritta dalla norma, infatti, l’inerzia rilevante finisce per essere non quella dell’Inps, bensì quella dell’amministrazione datrice di lavoro, che comunichi con anni di ritardo la rettifica dell’originario «progetto di liquidazione». E ciononostante la conseguenza sarebbe la decadenza che colpisce l’Inps, soggetto obbligato a pagare il t.f.s., al quale verrebbe in tal modo impedito di recuperare l’eccedenza corrisposta illegittimamente per errore, anche di diritto, dipeso da un fatto ad esso non imputabile.
Potrebbe obiettarsi che questo sistema non escluderebbe in tal caso il diritto dell’Inps di chiedere all’amministrazione di appartenenza dell’ex dipendente il risarcimento del danno, rappresentato dalla somma indebitamente corrisposta per fatto imputabile a quell’amministrazione (autrice dell’errato «progetto di liquidazione» originario) e divenuta irripetibile a causa della decadenza imputabile a quella stessa amministrazione.
Ma è agevole replicare che questo rimedio, pur laddove configurabile, non escluderebbe l’irragionevolezza della disparità di trattamento e, quindi, la violazione dell’art. 3 della Costituzione.
4.2. Con riguardo all’art. 97 della Costituzione, si palesa certamente contrario al principio di buona amministrazione di un ente pubblico previdenziale – e, quindi, di buona gestione del pubblico danaro, istituzionalmente affidato a quell’ente – un regime, come quello qui scrutinato, che tuteli esclusivamente l’affidamento del beneficiario del t.f.s., senza alcuna giustificazione legata alle peculiarità del suo rapporto di pubblico impiego. Al riguardo si consideri che per altre categorie di pubblici dipendenti (come quelli degli enti locali), nonché per i dipendenti privati, l’ordinamento giuridico non prevede alcun termine di decadenza, ma solo quello ordinario di prescrizione (v. supra).
5. La predetta questione è «rilevante», in quanto dalla sua soluzione dipende l’esito dell’appello e, in particolare, del suo primo motivo, avente carattere preliminare ed assorbente.
La medesima questione è altresì «non manifestamente infondata» per tutte le ragioni sopra esposte ed illustrate.
Visto l’art. 23 della legge n. 83/1957;
P.Q.M.
a) dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 30, comma 1, lettera b), e comma 2, decreto del Presidente della Repubblica n. 1032/1973 per contrasto con gli articoli 3 e 97 della Costituzione, nella parte in cui sia applicabile all’errore di calcolo determinato da fatto imputabile all’amministrazione di appartenenza del pubblico dipendente;
b) dispone l’immediata trasmissione di tutti gli atti di causa alla Corte costituzionale;
c) sospende il giudizio in corso;
d) dispone che a cura della cancelleria la presente ordinanza sia notificata alle parti in causa ed al Presidente del Consiglio dei ministri, nonché comunicata ai Presidenti delle due Camere del Parlamento.
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