CORTE DEI CONTI – Ordinanza 11 febbraio 2020

Trattamenti pensionistici diretti a carico del Fondo pensioni lavoratori dipendenti, delle gestioni speciali dei lavoratori autonomi, delle forme sostitutive, esclusive ed esonerative dell’assicurazione generale obbligatoria e della Gestione separata di cui all’articolo 2, comma 26, della legge 8 agosto 1995, n. 335, i cui importi complessivamente considerati superano 100.000 euro lordi su base annua – Intervento di decurtazione percentuale, per la durata di cinque anni, dell’ammontare lordo annuo – Legge 30 dicembre 2018, n. 145 (Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2019 e bilancio pluriennale per il triennio 2019-2021), art. 1, comma 261 e seguenti

Ritenuto in fatto

Con atto depositato in data 31 luglio 2019 i ricorrenti, hanno chiesto: a) in via principale, che venga accertato il loro diritto alla integrale corresponsione del trattamento pensionistico, senza l’applicazione della decurtazione percentuale prevista dall’art. 1, comma 261 della legge 30 dicembre 2018, n. 145, recante «Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2019 e bilancio pluriennale per il triennio 2019-2021»; b) in subordine, che sia accertato che l’Inps non possa sottoporre al prelievo di cui all’art. 1, comma 261, le pensioni erogate ai ricorrenti se non previa verifica che, ricalcolate virtualmente le pensioni con il metodo contributivo, con l’utilizzo dei parametri per il tempo in cui i singoli ricorrenti sono stati collocati a riposo, la pensione che sarebbe stata corrisposta non è inferiore a quella attualmente in godimento.

A tali domande è connessa quella di condanna dell’INPS alla restituzione delle somme trattenute, in ogni caso con vittoria di spese ed onorari del giudizio, con distrazione a favore del difensore, dichiaratosi antistatario.

E’ stata, altresì, eccepita la illegittimità costituzionale della norma indicata e, conseguentemente, è stato richiesto che, ritenuta la rilevanza e la non manifesta infondatezza della questione come prospettata (e per altri motivi di incostituzionalità meglio visti dal Giudice) siano rimessi gli atti alla Corte costituzionale per lo scrutinio di costituzionalità, rilevando che nella denegata ipotesi in cui la Corte costituzionale ritenesse le norme impugnate conformi a Costituzione, previa, occorrendo, consulenza tecnica, sia comunque dichiarato che i ricorrenti non possono essere assoggettati al prelievo di cui si tratta perché le loro pensioni, calcolate con il metodo contributivo risulteranno pari o addirittura superiori a quelle in godimento e, quindi, non soggette al prelievo ai sensi dell’art. 1, comma 263 ultimo periodo della legge n. 145 del 2018.

I ricorrenti hanno premesso di essere stati magistrati, ordinari (C., A., A., F., R., C.), militari (L.), e contabili (L., L.), ovvero avvocati distrettuali dello Stato (C.), e di essere stati collocati in quiescenza dopo il compimento degli anni settanta e, taluno, alla soglia del compimento di anni settantacinque, ad eccezione del dott. L., collocato a riposo ai sensi della legge 24 dicembre 2007, n. 247, con decorrenza dal 1° luglio 2010, con anni 37 e mesi 1 di servizio e, comunque, all’età di 62.

La pensione in godimento è stata liquidata con il sistema retributivo e, per i ricorrenti L., A., R., C. e C., collocati a riposo dal 1° gennaio 2012, in parte con il sistema misto (posto che dal 2012 in poi il calcolo del trattamento viene effettuato, per tutti, con il sistema contributivo).

Con la legge 30 dicembre 2018, n. 145 (legge di bilancio per il 2019), è stato, per l’ennesima volta, introdotto un sistema di riduzione dei trattamenti pensionistici loro attribuiti, avendo il Legislatore disposto all’art. 1, commi 261 – 268, testualmente, quanto segue:

261. A decorrere dalla data di entrata in vigore della presente legge e per la durata di cinque anni, i trattamenti pensionistici diretti a carico del Fondo pensioni lavoratori dipendenti, delle gestioni speciali dei lavoratori autonomi, delle forme sostitutive, esclusive ed esonerative dell’assicurazione generale obbligatoria e della Gestione separata di cui all’art. 2, comma 26, della legge 8 agosto 1995, n. 335, i cui importi complessivamente considerati superino 100.000 euro lordi su base annua, sono ridotti di un’aliquota di riduzione pari al 15 per cento per la parte eccedente il predetto importo fino a 130.000 euro, pari al 25 per cento per la parte eccedente 130.000 euro fino a 200.000 euro, pari al 30 per cento per la parte eccedente 200.000 euro fino a 350.000 euro, pari al 35 per cento per la parte eccedente 350.000 euro fino a 500.000 euro e pari al 40 per cento per la parte eccedente 500.000 euro.

262. Gli importi di cui al comma 261 sono soggetti alla rivalutazione automatica secondo il meccanismo stabilito dall’art. 34, comma 1, della legge 23 dicembre 1998, n. 448.

263. La riduzione di cui al comma 261 si applica in proporzione agli importi dei trattamenti pensionistici, ferma restando la clausola di salvaguardia di cui al comma 267. La riduzione di cui al comma 261 non si applica comunque alle pensioni interamente liquidate con il sistema contributivo.

264. Gli organi costituzionali e di rilevanza costituzionale, nell’ambito della loro autonomia, si adeguano alle disposizioni di cui ai commi da 261 a 263 e 265 dalla data di entrata in vigore della presente legge.

265. Presso l’Inps e gli altri enti previdenziali interessati sono istituiti appositi fondi denominati «Fondo risparmio sui trattamenti pensionistici di importo elevato» in cui confluiscono i risparmi derivati dai commi da 261 a 263. Le somme ivi confluite restano accantonate.

266. Nel Fondo di cui al comma 265 affluiscono le risorse rivenienti dalla riduzione di cui ai commi da 261 a 263, accertate sulla base del procedimento di cui all’art. 14 della legge 7 agosto 1990, n. 241.

267. Per effetto dell’applicazione dei commi da 261 a 263, l’importo complessivo dei trattamenti pensionistici diretti non può comunque essere inferiore a 100.000 euro lordi su base annua.

268. Sono esclusi dall’applicazione delle disposizioni di cui ai commi da 261 a 263 le pensioni di invalidità, i trattamenti pensionistici di invalidità di cui alla legge 12 giugno 1984, n. 222, i trattamenti pensionistici riconosciuti ai superstiti e i trattamenti riconosciuti a favore delle vittime del dovere o di azioni terroristiche, di cui alla legge 13 agosto 1980, n. 466, e alla legge 3 agosto 2004, n. 206.

Le norme censurate si porrebbero, ad avviso dei ricorrenti, nel solco di una serie di manovre, ripetute nel corso del decennio, dirette ad intervenire sui trattamenti pensionistici più elevati, in un’ottica quasi punitiva, giacché accompagnate da dichiarazioni, rese da diversi esponenti della classe politica, in forza delle quali parrebbe che le pensioni elevate non siano assistite da un congruo versamento di contributi che ne avrebbe giustificato la liquidazione.

Per tale aspetto, considerato il disposto di cui all’art. 1, comma 263, i ricorrenti hanno precisato di aver chiesto all’Istituto previdenziale di provvedere al ricalcolo delle singole pensioni in godimento, applicando il metodo contributivo, per verificare se sussistessero le condizioni per non applicare le riduzioni contenute al comma 261, senza ricevere risposta alcuna dall’INPS.

Difatti, l’applicazione dei criteri collegati al calcolo contributivo e, soprattutto, della speranza di vita al momento del pensionamento, porterebbe ad escludere per molti di loro, se non per tutti, la riduzione prevista dal comma 261.

Pur non ignorando che ad alcune pensioni di importo particolarmente elevato, calcolate con il sistema retributivo e con il criterio dell’ultimo stipendio, non sia corrisposto il versamento di contributi adeguati, hanno ribadito che non si potrebbe, in virtù di pochi casi clamorosi, colpire un rilevante numero di pensionati che hanno, invece, regolarmente pagato i contributi in una lunga attività lavorativa, con un’anzianità contributiva maggiore rispetto ai quaranta anni di servizio considerati per il calcolo della pensione (nella specie, i ricorrenti Angloni, L. e L. avrebbero versato contributi rispettivamente per 49 e oltre 48 anni; il dott. C. e l’avvocato C. addirittura per circa 52 anni).

In ogni modo, nessuno dei ricorrenti avrebbe potuto scegliere il sistema di calcolo della propria pensione (ed optare, quindi, per il calcolo con il sistema contributivo) in quanto, seppure la legge n. 335 del 1995 avesse previsto la possibilità di scelta, il decreto-legge 28 settembre 2001, n. 355 (convertito dalla legge n. 417 del 27 novembre 2001) aveva eliminato questa possibilità, stabilendo che l’art. 1, comma 23, secondo periodo, della legge 8 agosto 1995, n. 335, si interpreta nel senso che l’opzione ivi prevista è concessa limitatamente ai lavoratori di cui al comma 12 del predetto art. 1 che abbiano maturato un’anzianità contributiva pari o superiore a quindici anni, di cui almeno cinque nel sistema contributivo. 2. La liquidazione del trattamento pensionistico esclusivamente con le regole del sistema contributivo è comunque concessa a coloro che abbiano esercitato il diritto di opzione, entro la data di entrata in vigore del presente decreto.

Ad avviso dei ricorrenti, l’eliminazione della possibilità di tale opzione risiederebbe nella circostanza che molte pensioni elevate, completamente retributive, derivanti da carriere sin dall’inizio caratterizzate da un’alta retribuzione, potrebbero avvantaggiarsi del calcolo tutto contributivo, considerazione supportata dall’intervenuta emanazione dell’art. 1, comma 707, della legge n. 190 del 2014 (legge di stabilità per il 2015), in forza del quale la pensione calcolata con il sistema contributivo non potrebbe superare l’importo che si sarebbe ottenuto con il sistema retributivo.

Nell’atto di ricorso sono state svolte ampie considerazioni anche sulla misura concernente il mancato adeguamento delle pensioni all’andamento del costo della vita (comma 260 dell’art. 1 della legge n. 145 del 2018), anch’essa, ad avviso di parte attrice, connotata da irrazionalità e irragionevolezza, non consentendo alle pensioni superiori a tre volte il minimo INPS, e in misura decrescente al salire della pensione, il recupero dell’inflazione. Peraltro, è stata resa palese la volontà di non sollevare questione di illegittimità costituzionale della norma, né è stata formulata domanda di restituzione delle somme a tal fine trattenute, volendo circoscrivere la domanda alla riduzione prevista dal comma 261, ma formulando le più ampie riserve anche in ordine a tale riduzione o mancato adeguamento.

E’ stato, poi, ricostruito il quadro generale nel quale le norme sospettate di illegittimità sono venute ad incidere, a partire dalla riforma del sistema pensionistico, attuata con la legge 8 agosto 1995, n. 335, che aveva previsto il graduale passaggio, per il calcolo della pensione, dal sistema retributivo al sistema contributivo, sistema contributivo esteso alle anzianità contributive maturate a decorrere 1° gennaio 2012 dalla c.d. legge Fornero (decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214), e accompagnato dal progressivo spostamento nel tempo dell’età pensionabile.

In seguito, peraltro, il Legislatore, nonostante quanto stabilito con la riforma da ultimo citata, aveva adottato provvedimenti con i quali si stabiliva l’anticipazione del pensionamento per i magistrati ancora in servizio (decreto-legge 24 giugno 2014, n. 90, convertito con modificazioni dalla legge 11 agosto 2014, n. 114; decreto-legge 27 giugno 2015, n. 83, convertito con modificazioni dalla legge 6 agosto 2015, n. 132; e decreto-legge 31 agosto 2016, n. 168, convertito dalla legge 25 ottobre 2016, n. 197) e si anticipava, altresì (decreto-legge n. 90/2014), il pensionamento dei dipendenti dello Stato, con costi e aggravi a carico del sistema previdenziale.

Tali disposizioni sono state precedute e accompagnate da diversi interventi diretti a incidere sui trattamenti pensionistici elevati. Così: a) l’art. 37 della legge 23 dicembre 1999, n. 488, aveva introdotto un contributo di solidarietà nella misura del 2 per cento. Le somme così prelevate confluivano in un fondo, di cui alla legge n. 196 del 1997 (articoli 5 e 9, comma 3), per la copertura previdenziale di lavoratori in formazione; b) la legge 24 dicembre 2003, n. 350, all’art. 3, comma 102 prevedeva, per un periodo di tre anni, un contributo di solidarietà nella misura del 3 per cento; c) la legge di conversione del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98 (legge 15 luglio 2011, n. 111) disponeva, in considerazione della eccezionalità della situazione economica internazionale e tenuto conto delle esigenze prioritarie di raggiungimento degli obiettivi di finanza pubblica, a decorrere dal 1° agosto 2011 e fino al 31 dicembre 2014, un contributo di perequazione, pari al 5 per cento per i trattamenti pensionistici superiori a 90.000 euro lordi annui fino a 150.000 euro, nonché pari al 10 per cento per la parte eccedente 150.000 euro; tale soglia veniva elevata al 15 per cento, per la parte eccedente 200.000 euro, con il decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214 (la norma veniva dichiarata costituzionalmente illegittima con la sentenza n. 116 del 2013); d) con il decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138 (convertito, con modificazioni dalla legge 14 settembre 2011, n. 148), veniva introdotto un contributo di solidarietà del 3 per cento per i redditi complessivi di importo superiore a 300.000 euro lordi annui, sulla parte eccedente il predetto importo, a decorrere dal 1° gennaio 2011 e fino al 31 dicembre 2013, poi prorogato a 31 dicembre 2016 con la legge n. 147 del 2013 (legge di stabilità per il 2014); e) la stessa legge, art. 1, commi 486 e 487, prevedeva, a decorrere dal 10 gennaio 2014 e per un periodo di tre anni, sugli importi dei trattamenti pensionistici corrisposti da enti gestori di forme di previdenza obbligatorie, complessivamente superiori a quattordici volte il trattamento minimo INPS, un contributo di solidarietà a favore delle gestioni previdenziali obbligatorie. La norma veniva impugnata davanti alla Corte costituzionale che, con sentenza n. 173 del 2016, dichiarava non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 486, e inammissibile la questione di legittimità costituzionale del comma 487. Nel descritto contesto, e proprio mentre si approvavano le norme di riduzione delle pensioni, il Governo adottava misure espansive della spesa con il decreto-legge 28 gennaio 2019, n. 4, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 marzo 2019, n. 126, recante disposizioni urgenti in materia di reddito di cittadinanza e di pensioni, tra cui la c.d. «quota 100». Le risorse occorrenti per far fronte alle misure introdotte sono state quantificate, per la sola pensione a quota 100, in euro 4.719,1 milioni per il 2019, in euro 8.717,1 milioni per il 2020 e,·infine, in 9.266,5 milioni di euro per il 2021.

La legge di bilancio per l’anno 2019, nel ridurre i trattamenti pensionistici, ha introdotto (art. 1, commi 255 e 256) il c.d. reddito di cittadinanza, stanziando a tali fini 7.100 milioni di euro per l’anno 2019, 8.055 milioni di euro per l’anno 2020, e 8.317 milioni di euro annui a decorrere dall’anno 2021 e, al comma 256, al fine di dare attuazione a interventi in materia pensionistica finalizzati all’introduzione di ulteriori modalità di pensionamento anticipato e misure per incentivare l’assunzione di lavoratori giovani, ha istituito un «Fondo per la revisione del sistema pensionistico, attraverso l’introduzione di ulteriori forme di pensionamento anticipato e misure per incentivare l’assunzione di lavoratori giovani», con una dotazione pari a 3.968 milioni di euro per l’anno 2019, a 8.336 milioni di euro per l’anno 2020, a 8.684 milioni di euro per l’anno 2012.

Tutte tali misure, ad avviso dei ricorrenti, andrebbero finanziate con la fiscalità generale, non essendo a tal fine sufficiente, all’evidenza, il gettito derivante dalla riduzione di poche decine di migliaia di pensioni.

Peraltro, i provvedimenti così adottati, dimostrerebbero le palesi irrazionalità e irragionevolezza delle norme censurate in ricorso, le quali non rispetterebbero, per distinti profili, i principi costituzionali sanciti dagli articoli 2, 3, 23, 35, 36, 38 e 53, della Costituzione, come interpretati dal Giudice delle leggi, in ragione delle considerazioni che di seguito sinteticamente si espongono.

1. In primo luogo, sarebbe stato violato l’art. 23 della Costituzione, data l’inosservanza sostanziale del procedimento di cui all’art. 72 della Costituzione, circostanza resa palese, ad avviso di parte attrice, dall’impugnativa effettuata da trentasette senatori, i quali avevano sollevato conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato, per la grave compressione dei tempi di discussione della legge stessa, dopo la presentazione al Senato, da parte del Governo, del c.d. maxiemendamento.

In particolare, si sarebbe impedita l’osservanza del procedimento ordinario di approvazione delle leggi, caratterizzato da una fase necessaria di esame in commissione referente; si sarebbe violato il principio di leale collaborazione che deve informare i rapporti tra gli organi che costituiscono espressione dei poteri dello Stato; sarebbe stato votato un testo non nella disponibilità dei senatori, non essendo stato fornito alcun testo definitivo, né in formato cartaceo, né in formato elettronico; infine, vi sarebbe stata un’inaccettabile totale compressione del ruolo delle Camere e delle loro articolazioni, in favore di un’accelerazione del procedimento legislativo, senza che il testo del disegno di legge potesse essere discusso in aula e approvato articolo per articolo e con votazione finale (cfr. punti da 5 a 8 dell’ordinanza della Corte costituzionale n. 17, dell’8 febbraio 2019, con cui il ricorso per conflitto di attribuzione è stato dichiarato inammissibile, richiamata in ricorso). Peraltro, è stato osservato, detto emendamento, non accompagnato da alcuna nota tecnica, avrebbe recepito, per la materia pensionistica, il contenuto di due progetti di legge, di iniziativa parlamentare, uno presentato alla Camera e dovuto all’iniziativa di deputati della maggioranza parlamentare, ed un altro, presentato al Senato, dovuto all’iniziativa di senatori di minoranza, i quali, in sostanza, miravano ad incidere sull’annosa questione delle cosiddette «pensioni d’oro», il cui elevato importo appariva stridente nell’attuale contesto socio-economico e di sacrifici imposti alla generalità della popolazione, accomunando pensioni e vitalizi, senza però considerare la differente natura degli emolumenti (i trattamenti pensionistici si diversificherebbero sotto il profilo della contribuzione, della durata del servizio prestato, e degli importi corrisposti);

2. Sarebbe stato del pari violato il principio di uguaglianza, sancito dall’art. 3 della Costituzione, laddove si è inteso stabilire un limite massimo della pensione ritenuto equo, pari a 100.000 euro, al di sopra del quale sia possibile effettuare decurtazioni non giustificate. Neppure potrebbe invocarsi la natura solidaristica del prelievo, alla luce dei principi dettati dalla Corte costituzionale, in forza dei quali il contributo di solidarietà, per superare lo scrutinio «stretto» di costituzionalità, e palesarsi dunque come misura improntata effettivamente alla solidarietà previdenziale (articoli 2 e 38 della Costituzione), deve operare all’interno del complessivo sistema della previdenza; essere imposto dalla crisi contingente e grave del predetto sistema; incidere sulle pensioni più elevate (in rapporto alle pensioni minime); presentarsi come prelievo sostenibile; rispettare il principio di proporzionalità; essere comunque utilizzato come misura una tantum (sentenze nn. 223/20 12; 116/2013; 173/2016, delle quali sono stati riportati stralci in ricorso). In particolare, anche un’asserita natura solidaristica del prelievo si porrebbe in contrasto con i precetti costituzionali di cui agli articoli 3, 23 e 53 della Costituzione. Difatti, per un verso, la solidarietà del sistema tributario è realizzata con la progressività del tributo sui redditi mentre, per altro verso, parrebbe non sussistere una precipua esigenza di far fronte al pagamento delle pensioni minime, alla luce delle dichiarazioni rese dal Presidente dell’INPS, esplicative del fatto che qualora il bilancio dell’INPS venisse opportunamente depurato dagli strumenti di assistenza e, lato senso, non pensionistici, si scoprirebbe che il sistema pensionistico italiano è solido, la spesa in linea con la media dei Paesi europei, circa il 12%. Pertanto, ad avviso dei ricorrenti, si tratterebbe di prelievo da porsi a carico della fiscalità generale, non operando nello stretto ambito del sistema pensionistico. Né le somme derivanti dalle illegittime decurtazioni potrebbero far fronte alla rappresentata esigenza di aumentare le pensioni inferiori a 780,00 euro mensili; per tale profilo, sarebbe palese l’irrazionalità e irragionevolezza della legge, non avendo considerato che, a fronte della necessità di alcuni miliardi di euro, il gettito derivante dal prelievo sembra non superi 76 – 80 milioni di euro. A non voler considerare che, a fronte di alcuni milioni di pensioni di minimo importo non sarebbero stati versati contributi sufficienti alla base. Conseguentemente, violerebbe certamente il principio di ragionevolezza l’assoggettamento a prelievo di pensioni solo perché di importo più elevato, dal momento che provvedimenti di (maggiore) equità sociale dovrebbero essere posti a carico della fiscalità generale.

Analoghe considerazioni andrebbero fatte in merito al pagamento delle prestazioni di natura assistenziale, o che beneficiano di integrazione al minimo, o di «maggiorazioni sociali», gravanti sul bilancio dell’INPS, sprovviste alla base di contribuzione (o al massimo dotate di contribuzioni modeste e per pochi anni).

2.1 Anche il comma 263 della norma violerebbe il principio di uguaglianza, esonerando dal prelievo i pensionati le cui pensioni, di pari o superiore importo, siano state interamente liquidate con il sistema contributivo. Sarebbero evidenti la disparità di trattamento e la irragionevolezza della norma, in relazione ai pensionati che hanno avuto la pensione calcolata con il sistema retributivo, qualora non dovesse essere effettuato il calcolo, virtuale, di tali pensioni con il sistema contributivo per verificarne l’importo, tenendo altresì conto della speranza di vita dei pensionati al momento del pensionamento.

Ciò a prescindere dalla considerazione che, allo stato, non sembra che possano esservi pensioni interamente liquidate con il sistema contributivo, applicabile alle pensioni di soggetti iscritti dal 1° gennaio 1996, considerazione che porterebbe ad attribuire quale unico significato, alla norma richiamata, l’effettuazione del ricalcolo con il sistema contributivo e, qualora l’importo della pensione risulti non inferiore, la impossibilità di applicare il prelievo.

3. La norma censurata si porrebbe in contrasto anche con gli articoli 35, 36 e 38 della Costituzione, essendo la pensione dei ricorrenti proporzionata alla elevata qualità e alla quantità – lunga durata nel tempo – del lavoro svolto, così come dovrebbero essere assicurati mezzi adeguati alle esigenze di vita dei lavoratori in caso di vecchiaia (art. 38 della Costituzione).

4. Il comma 265 dell’art. 1, nel prevedere che presso l’INPS e gli altri enti previdenziali interessati sono istituiti appositi fondi denominati «Fondo risparmio sui trattamenti pensionistici di importo elevato» in cui confluiscono i risparmi derivati dai commi da 261 a 263, senza indicare la effettiva destinazione delle somme, semplicemente accantonate, rivelerebbe, ad avviso dei ricorrenti, la natura meramente confiscatoria del prelievo, il che condurrebbe ad escludere la natura tributaria del medesimo. Al riguardo, hanno osservato che se è costituzionalmente consentita – e non senza condizioni – l’espropriazione della proprietà privata, non è certamente consentita la confisca dei legittimi emolumenti frutto, nel caso delle pensioni, del prelievo contributivo durante l’attività lavorativa. Difatti, in mancanza della nota tecnica della legge, non sarebbe possibile conoscere le motivazioni del prelievo e, poiché la stessa legge nulla dispone sulla destinazione delle somme, semplicemente accantonate nel Fondo di cui si è detto, queste, sulla base delle norme giuscontabilistiche, non potrebbero essere impegnate.

5. Inoltre, poiché il comma 261 avrebbe aumentato la durata del prelievo a ben cinque anni e aumentato, in maniera esorbitante, le aliquote di riduzione il disposto normativo contrasterebbe anche con l’art. 136 della Costituzione, per violazione / elusione del giudicato costituzionale (sentenze n. 173 del 2016 n. 223 del 2012 e n. 116 del 2013), essendo ammesso un contributo sulle pensioni solo come misura del tutto eccezionale, che non si potrebbe tradurre in un meccanismo di alimentazione del sistema previdenziale (sentenza n. 173 del 2016 cit.).

6. Infine, qualora si volesse ritenere la natura tributaria del prelievo, sarebbe palese la contrarietà ai parametri costituzionali e, fondamentalmente, agli articoli 3 e 53 Costituzione. Difatti, la norma tasserebbe in maniera diversa, a parità di importi e di qualità dei redditi, i pensionati con pensioni superiori a 100.000,00 euro e non tutti gli altri soggetti dell’ordinamento con redditi anche più elevati.

La difesa dei ricorrenti, alla luce delle molteplici argomentazioni contenute in ricorso, e più sopra sommariamente descritte, ha conclusivamente osservato che la sollevata questione di costituzionalità sia da ritenersi rilevante e non manifestamente infondata, anche alla luce dei precedenti della giurisprudenza della Corte costituzionale.

In via istruttoria, è stato chiesto che sia disposta CTU al fine di verificare l’importo del trattamento pensionistico dei ricorrenti, laddove calcolato con il sistema retributivo, e che sia ordinato all’INPS di depositare i provvedimenti di liquidazione della pensione in godimento.

L’INPS, costituitosi in giudizio con il ministero degli avvocati A.D. e S.S., ha depositato memoria difensiva in data 20 gennaio 2020, con la quale, nel merito, sono state formulate conclusioni di rigetto del ricorso, con ogni conseguenza di legge in ordine alle spese di lite.

In via preliminare, è stato sottolineato che la Sezione giurisdizionale della Corte dei conti per il Friuli-Venezia Giulia, con ordinanza del 16 ottobre 2019, ha rimesso gli atti di analogo giudizio alla Corte costituzionale e, per motivi di opportunità, è stata chiesta la sospensione del presente procedimento, in attesa della decisione del Giudice delle leggi.

Nel merito è stato sostenuto che l’azione dell’istituto previdenziale sarebbe pienamente legittima, giacché effettuata sulla base delle norme di legge vigenti.

Disposizioni con le quali il legislatore avrebbe perseguito una maggiore equità del sistema previdenziale, in un periodo di risaputa grave crisi economica del paese, incidendo, con scelta certamente ragionevole, solo sui trattamenti che, per il metodo di calcolo applicato, retributivo o misto, non assicurano il perfetto equilibrio tra pensione e contributi versati.

Inoltre, la ritenuta di cui alla legge n. 145/2018 avrebbe natura provvisoria, giacché destinata ad avere effetto per il periodo predeterminato (5 anni), con carattere di transitorietà e non di definitività; vi sarebbe la finalizzazione dei risparmi di spesa ottenuti, destinati all’apposito fondo istituito presso l’INPS.

Si tratterebbe, dunque, di una forma di riequilibrio «momentanea» dell’importo dei trattamenti all’interno dello stesso sistema pensionistico, in quanto le somme prelevate dai soggetti incisi vengono acquisite in apposito fondo presso l’INPS e non sono destinate alla fiscalità generale, come riconosciuto, in fattispecie analoga, dalla stessa Corte costituzionale, secondo cui «il contributo di solidarietà, non potendo essere configurato come un contributo previdenziale in senso tecnico, va inquadrato nel genus delle prestazioni patrimoniali imposte per legge, di cui all’art. 23 della Costituzione, costituendo una prestazione patrimoniale avente la finalità di contribuire agli oneri finanziari del regime previdenziale dei lavoratori, con la conseguenza che l’invocato parametro di cui all’art. 53 della Costituzione deve ritenersi inconferente, siccome riguardante la materia della imposizione tributaria in senso stretto» (Corte costituzionale, ordinanza 30 gennaio 2003, n. 22, nonché ordinanza n. 160/2007, meramente confermativa della precedente).

Negli stessi sensi si sarebbe pronunciata anche la più recente sentenza, n. 173 del 2016, nel ritenere legittimo, in quanto non riconducibile a un tributo, il prelievo disposto dall’art. 1, comma 486 della legge n. 147/2013.

In conclusione, il sacrificio imposto ai pensionati, proprio in ragione della limitata incidenza temporale, e della finalizzazione delle risorse alla gestione pensionistica e non anche al pubblico erario, non solo non integrerebbe un prelievo tributario, ma sarebbe pienamente rispettoso dei precetti costituzionali citati dai ricorrenti. Il prelievo, in quanto imposto dalla crisi contingente e grave del sistema, e incidendo solo sulle pensioni più elevate in misura incontestabilmente sostenibile e, quindi, nel pieno rispetto del principio di proporzionalità, rappresenterebbe, per espressa disposizione normativa, una misura una tantum. A conferma della legittimità costituzionale della norma censurata da parte attrice è stato fatto integrale riferimento alla sentenza n. 194/19 della Corte dei conti, Sezione giurisdizionale Veneto, con la quale è stata respinta analoga pretesa, ritenendosi manifestamente infondata la prospettata questione di costituzionalità.

All’udienza del 30 gennaio 2020, il difensore dei ricorrenti, avvocato L., ha depositato memoria di replica alle difese dell’INPS, alla cui acquisizione agli atti non si è opposto il rappresentante dell’istituto, illustrandone il contenuto, che può così riassumersi.

Non sarebbero condivisibili le affermazioni dell’istituto in relazione alla maggiore equità perseguita dal legislatore. Difatti, tutte le pensioni, sia quelle superiori a 100.000,00 euro, sia quelle di importo inferiore, sarebbero state calcolate con lo stesso sistema, di talché nessuna di esse potrebbe assicurare il perfetto equilibrio tra pensione e contributi. Non si comprenderebbe, pertanto, perché solo quelle di importo più elevato, proporzionate alla quantità e qualità del lavoro prestato, dovrebbero subire decurtazioni, anche qualora, come nel caso dei ricorrenti, abbiano visto contributi versati per molti anni oltre i quaranta, sui quali le pensioni stesse risultano calcolate.

Privo di riscontro obiettivo sarebbe, altresì, il riferimento alla difficile situazione economica in cui versa il Paese, elemento non posto in evidenza alcuna dallo stesso Legislatore, mentre nessuna finalità specifica sarebbe riconducibile al Fondo presso cui le somme derivanti dalle decurtazioni sono state accantonate; operazione questa, diretta, ad avviso della difesa di parte attrice, ad escludere che al prelievo possa ascriversi natura tributaria.

Nel corso della discussione l’avvocato L. ha anche precisato di non condividere le pronunce emesse dalla Sezione Veneto, n. 194/2019, e dalla Sezione Calabria, n. 434/2019, con le quali sono state respinte analoghe pretese e, pur condividendo le censure di incostituzionalità delle norme impugnate, contenute nelle ordinanze di rimessione alla Corte costituzionale, n. 6/2019 della Sezione Friuli-Venezia Giulia, e n. 308/2019 della Sezione Lazio, ha ulteriormente evidenziato che certamente tali norme violano gli articoli 3, 36 e 38 della Costituzione, ma che non si porrebbe un problema di adeguatezza alle esigenze di vita, ma di rapporto tra contributi versati e attività lavorativa svolta.

Inoltre, sarebbe stato assolto il dovere di solidarietà di cui all’art. 2 della Costituzione, attraverso il pagamento dell’IRPEF e degli altri tributi, indiretti, data l’elevata pressione fiscale che grava sui redditi di importo elevato, mentre una reale applicazione del principio imporrebbe un’attenta revisione della spesa pubblica; un vero e rigoroso perseguimento dell’evasione fiscale; l’allargamento della platea dei contribuenti, non limitabile a una determinata categoria, con manovre che assumerebbero una valenza puramente punitiva.

Nel richiamare, infine, la sentenza n. 173/2016 della Consulta e i principi ivi affermati al fine di rendere conformi alla Carta fondamentale eventuali prelievi sui trattamenti pensionistici, la difesa dei ricorrenti ha ribadito che la riduzione operata sarebbe irragionevole e non sostenibile e che le disposizioni impugnate violerebbero, oltre agli articoli 3, 36 e 38, anche gli articoli 3, 23 e 42 della Costituzione, poiché la riduzione sine causa si configurerebbe quale vero e proprio esproprio senza alcuna giustificazione di pubblica utilità.

L’Avvocato D., nell’interesse dell’INPS, ha ribadito che, se si analizza la sola norma in questione, l’istituto ha già espresso in memoria le proprie considerazioni. La manovra inciderebbe sulle sole pensioni elevate, mentre il prelievo avrebbe, certamente, natura transitoria, essendo previsto per soli cinque anni. Ha, pertanto, insistito in via principale per il rigetto del ricorso e, in subordine, per la sospensione del giudizio in attesa della pronuncia della Corte costituzionale.

Considerato in diritto

Come traspare dalla narrativa del fatto, i ricorrenti hanno chiesto che venga dichiarato il diritto alla integrale corresponsione del trattamento pensionistico, senza l’applicazione della decurtazione percentuale prevista dall’art. 1, comma 261 della legge 30 dicembre 2018, n. 145, recante «Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2019 e bilancio pluriennale per il triennio 2019-2021», ovvero, in subordine, che sia accertato che l’INPS non possa sottoporre al prelievo di cui all’art. 1, comma 261, le pensioni erogate ai ricorrenti se non previa verifica che, ricalcolate virtualmente le pensioni con il metodo contributivo, con l’utilizzo dei parametri per il tempo in cui i singoli ricorrenti sono stati collocati a riposo, la pensione che sarebbe stata corrisposta non è inferiore a quella attualmente in godimento, chiedendo implicitamente, per tale aspetto, la sostanziale applicazione dell’art. 1, comma 263, della legge richiamata.

A tali domande è connessa quella di condanna dell’INPS alla restituzione delle somme trattenute.

Nell’atto introduttivo del giudizio è stata, inoltre, prospettata la illegittimità costituzionale della norma de qua per diversi profili, che verranno partitamente esaminati, dovendosi sin d’ora precisare che le pretese avanzate, qualora decise in conformità alle disposizioni vigenti, non potrebbero trovare accoglimento.

Per un verso, difatti, è chiaro il disposto dell’art. 1, comma 261 della legge di stabilità 2019, laddove ha previsto le decurtazioni mentre, per altro aspetto, la domanda formulata in via subordinata, sarebbe priva di fondamento, ponendosi in netto contrasto con il disposto del successivo comma 263, che nella formulazione «secca» adottata dal legislatore, non ammette interpretazioni differenti da quella fatta palese dal significato delle parole secondo la connessione di esse (art. 12 preleggi), non potendosi, pertanto, dare ingresso a diversi criteri ermeneutici, quali quelli implicitamente invocati da parte attrice ed accedere, per tale via, ad un «ricalcolo virtuale» delle pensioni, liquidate con il sistema retributivo e/o misto, con l’utilizzo del sistema contributivo.

Se dunque, da un lato, non si può prescindere, per la soluzione della controversia, dall’applicazione delle norme censurate, dal che la rilevanza della prospettata questione, ai sensi dell’art. 23 secondo comma della legge costituzionale n. 1 dell’11 marzo 1953, dall’altro le disposizioni da ultimo introdotte con la legge n. 145 del 30 dicembre 2018 non paiono conformi a diversi principi espressi nella Carta costituzionale, di talché la questione posta, considerata nel suo complesso, deve ritenersi non manifestamente infondata.

Ciò premesso, nell’esaminare partitamente le varie censure di incostituzionalità, va rilevato quanto segue.

1. Violazione dell’art. 23 della Costituzione, data l’inosservanza sostanziale del procedimento di cui all’art. 72 della Costituzione, a fondamento della quale la difesa dei ricorrenti ha fatto richiamo al conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato, promosso da trentasette senatori, in ragione della grave compressione dei tempi di discussione della legge, dopo la presentazione, da parte del Governo, al Senato, del c.d. maxiemendamento n. 1.9000, il quale aveva modificato in larga misura il disegno di legge su cui le Camere avevano lavorato, senza che venisse dato modo alla Commissione bilancio di svolgere l’esame di merito sul provvedimento in sede referente.

Tali argomentazioni non possono essere condivise. Al riguardo va osservato che il principio di autonomia delle Camere, costituzionalmente garantito, in particolare dagli articoli 64 e 72 della Costituzione, non ammette un sindacato giudiziale esteso al procedimento di formazione e approvazione delle leggi, ma consente, nei limiti apprestati, una legittimazione a sollevare conflitto di attribuzione in capo agli appartenenti alle Camere, anche singolarmente considerati, qualora si sia in presenza di atti e comportamenti che incidano negativamente sulle funzioni dei singoli parlamentari e che pregiudichino il corretto svolgimento dei lavori, come espressamente riC.to dalla Consulta nell’ordinanza n. 17/2019 dell’8 febbraio 2019, con cui il prefato ricorso è stato dichiarato inammissibile.

Orbene, la Corte (cfr. ordinanza cit.), pur richiamando l’attenzione sulla necessità che il ruolo riservato dalla Costituzione al Parlamento nel procedimento di formazione delle leggi sia non solo osservato nominalmente, ma rispettato nel suo significato sostanziale, ha evidenziato che la prassi dell’approvazione dei disegni di legge attraverso il voto di fiducia apposto su un maxi-emendamento governativo si è consolidata nel tempo e che se ne è fatto frequente uso sin dalla metà degli anni Novanta anche per l’approvazione delle manovre di bilancio da parte dei governi di ogni composizione politica, in cerca di risposte alle esigenze di governabilità, riconoscendo nel contempo che una perdurante usanza costituisce un fattore non privo di significato all’interno del diritto parlamentare, contrassegnato da un elevato tasso di flessibilità e di consensualità.

In definitiva, non ha ravvisato un abuso da parte delle maggioranze a tutela delle attribuzioni costituzionali del singolo parlamentare, anche in ragione dell’esistenza di due fattori concomitanti: da un lato, la lunga interlocuzione con le istituzioni dell’Unione europea ha portato a una rideterminazione dei saldi complessivi della manovra economica in un momento avanzato del procedimento parlamentare e ha comportato un’ampia modificazione del disegno di legge iniziale e, dall’altro, le riforme apportate al regolamento del Senato della Repubblica nel dicembre 2017 – applicate al procedimento per l’approvazione del bilancio dello Stato per la prima volta nel caso di specie.

Nessuna lesione dell’art. 23 della Costituzione può, pertanto, ricollegarsi alla mancata osservanza del procedimento di formazione/approvazione della legge, il quale opera sul distinto piano politico istituzionale, in cui dovrebbero trovare conciliazione, in forma pubblica e democratica, i diversi interessi di cui i rappresentanti eletti sono portatori. Tale profilo di censura deve, conseguentemente, ritenersi infondato.

2. Diverso discorso è a farsi in relazione alla dedotta violazione degli articoli 3, 23 e 53 della Costituzione.

Al riguardo, va in primo luogo precisato che analoga questione è stata rimessa al sindacato della Consulta con ordinanze n. 6, del 19 ottobre 2019, emessa dalla Sezione giurisdizionale della Corte dei conti per il Friuli-Venezia Giulia, e n. 308, del 22 ottobre 2019, adottata dalla Sezione giurisdizionale per il Lazio.

I giudici remittenti, con argomentazioni pienamente condivisibili, hanno ritenuto che, al prelievo attuato dall’art. 1, commi da 261 a 268, della legge n. 145/2018, sia da ascriversi natura sostanzialmente tributaria atteso che, in concreto: determina una decurtazione patrimoniale arbitrariamente duratura del trattamento pensionistico, con acquisizione al bilancio statale del relativo gettito, e costituisce un prelievo coattivo correlato ad uno specifico indice di capacità contributiva, che esprime l’idoneità del soggetto passivo all’obbligazione tributaria (cfr., in particolare, ordinanza n. 6/2019, cit.).

Ciò alla luce delle seguenti motivazioni:

a) non risulta enunciata alcuna destinazione «vincolata» delle risorse, attinte con l’intervento in discussione, a finalità solidaristiche endo-previdenziali, non essendo sufficienti, né significativi, la previsione dell’accantonamento in fondi tematici presso gli istituti previdenziali coinvolti, e il richiamo allo strumento della conferenza di servizi per l’accertamento del quantum conseguito (commi 265 e 266);

b) non è rinvenibile alcun riferimento in ordine alla destinazione da dare ai risparmi conseguiti sia nel documento redatto dai Servizi studi e bilancio di Camera e Senato, contenente la descrizione ed il commento delle modifiche al disegno di legge di bilancio, approvate in sede di esame al Senato (il quale atto richiama il mero dato testuale della norma, per cui le somme trattenute confluiscono e restano accantonate presso i Fondi di cui all’art. 1, comma 265; cfr. Dossier 23 dicembre 2018 – legge di bilancio 2019 – Le modifiche approvate dal Senato della Repubblica – Il maxiemendamento del Governo 1.9000, pagg. 192 e ss.), sia nel Dossier sulla legge di bilancio 2019 della Camera dei deputati, Servizio bilancio dello Stato (recante Modifiche approvate dal Senato – dicembre 2018, pagg. 75 e ss.), nel quale ultimo sono solo riportati i risparmi attesi, al lordo ed al netto delle minori entrate tributarie, mentre il prelievo è stato indicato come «contributo di solidarietà», denominazione non riportata nel testo definitivo della legge di bilancio, approvato dal Parlamento, ove il contributo è inserito tout court nella Parte I Sezione I, recante «Misure quantitative per la realizzazione degli obiettivi programmati», insieme indistintamente a tutti gli altri interventi rientranti nella manovra finanziaria deliberata: con ciò risultandone suffragata la connotazione finanziariamente «neutra» (cfr., sempre, ordinanza n. 6/2019);

c) ancora, l’analisi della composizione e degli effetti sui saldi di finanza pubblica della manovra di bilancio 2019/2021, contenuta nel Dossier sulla Manovra di bilancio 2019-2021, redatto nel gennaio 2019, ovvero dopo l’approvazione della legge n. 145/2018 (cfr. Servizio bilancio del Senato e Servizio bilancio dello Stato della Camera, – Effetti sui saldi e conto risorse e impieghi), riporta in apposito quadro aggiornato l’indicazione del definitivo livello delle spese previste: tra queste la riduzione dei trattamenti pensionistici è semplicemente indicato come intervento di riduzione della spesa (come «minor adeguamento delle pensioni di importo più elevato» e «riduzione dei trattamenti pensionistici più elevati», senza alcuna caratterizzazione teleologica) e, in tali termini, rappresentato nella pertinente tabella illustrativa dell’impatto finanziario di ciascuna misura (qui indicato come «contributo pensioni di importo più elevato», mentre nella tabella che espone gli interventi previsti dalla manovra di bilancio e i relativi mezzi di copertura, le misure a carico delle pensioni più elevate sono comprese tra questi ultimi (in questi sensi, ordinanza n. 6/2019);

d) tali aspetti, unitamente al carattere complessivamente «espansivo» della manovra di bilancio per il 2019 (e per il triennio fino al 2021) per il comparto previdenziale, in ragione della introdotta riforma dei requisiti di accesso alla pensione (c.d. quota 100), fanno conclusivamente ritenere che le riduzioni non siano ricollegabili ad una situazione emergenziale del sistema pensionistico, ma si configurino come previsioni volte ad individuare mezzi di copertura aggiuntivi delle spese pubbliche mediante imposizione, tuttavia, di un prelievo «selettivo» a carico di alcune categorie di pensionati. Conclusione, questa, avvalorata dalla previsione della durata quinquennale del prelievo, protratta oltre l’arco temporale di sviluppo della programmazione pluriennale di bilancio, con la prospettiva di un più marcato consolidamento nel tempo degli effetti di decurtazione delle pensioni più elevate, che risponde ad una logica di tendenziale revisione in pejus definitiva di tali trattamenti e rende, dunque, non solo significativamente più incisiva la lesione dei diritti patrimoniali dei destinatari, ma anche più marcato l’effetto discriminatorio rispetto ai non incisi, a parità di condizioni reddituali.

 Per tali profili, dunque, è stato ritenuto che la norma censurata si appalesi confliggente con i principi di cui agli articoli 3 e 53 della Costituzione, gravando soltanto su alcune categorie di pensionati e non su tutti i cittadini, in violazione dei fondamentali canoni di uguaglianza a parità di reddito e di universalità dell’imposizione, non avendo i redditi derivanti dai trattamenti pensionistici, una natura diversa e minoris generis rispetto agli altri redditi presi a riferimento, ai fini dell’osservanza dell’art. 53 della Costituzione, il quale non consente trattamenti in pejus di determinate categorie di redditi da lavoro (cfr. sentenze n. 223 del 2012 e n. 116 del 2013).

Peraltro, ad avviso di questo Giudice, qualora si volesse escludere la natura tributaria delle misure adottate, il prelievo in tal guisa operato si porrebbe, comunque, in contrasto con i precetti di cui agli articoli 3, 23 e 53 della Costituzione, non potendo invocarsi la natura solidaristica del prelievo, ex art. 2 della Costituzione.

A escludere siffatta evenienza appare sufficiente il raffronto tra le disposizioni di cui all’art. 1, comma 486, della legge 27 dicembre 2013, n. 147, ritenute conformi a Costituzione (sentenza 13 luglio 2016, n. 173), e le norme oggetto di censura in questa sede.

Il Legislatore del 2013 aveva così disposto: a decorrere dal 1° gennaio 2014 e per un periodo di tre anni, sugli importi dei trattamenti pensionistici corrisposti da enti gestori di forme di previdenza obbligatorie complessivamente superiori a quattordici volte il trattamento minimo INPS, è dovuto un contributo di solidarietà a favore delle gestioni previdenziali obbligatorie, pari al 6 per cento della parte eccedente il predetto importo lordo annuo fino all’importo lordo annuo di venti volte il trattamento minimo INPS, nonché pari al 12 per cento per la parte eccedente l’importo lordo annuo di venti volte il trattamento minimo INPS e al 18 per cento per la parte eccedente l’importo lordo annuo di trenta volte il trattamento minimo INPS. Ai fini dell’applicazione della predetta trattenuta è preso a riferimento il trattamento pensionistico complessivo lordo per l’anno considerato. L’INPS, sulla base dei dati che risultano dal casellario centrale dei pensionati, istituito con decreto del Presidente della Repubblica 31 dicembre 1971, n. 1388, è tenuto a fornire a tutti gli enti interessati i necessari elementi per l’effettuazione della trattenuta del contributo di solidarietà, secondo modalità proporzionali ai trattamenti erogati. Le somme trattenute vengono acquisite dalle competenti gestioni previdenziali obbligatorie, anche alfine di concorrere al finanziamento degli interventi di cui al comma 191 del presente articolo».

Traspare, dal dato testuale della norma, che il prelievo aveva riguardato tutte le forme di previdenza obbligatorie, ed era stato disposto anche per concorrere al finanziamento degli interventi in favore dei c.d. «esodati» (come si evince dal richiamo, contenuto nel comma 191 della legge n. 147/2013, all’art. 1, commi 231 e 233, della legge 24 dicembre 2012, n. 228).

Tali aspetti sono valsi ad escludere la natura di tributo del contributo di solidarietà, in quanto non acquisito allo Stato e non destinato alla fiscalità generale, ma prelevato direttamente dall’INPS e dagli altri enti previdenziali, che lo trattengono all’interno delle proprie gestioni con specifiche finalità solidaristiche endo-previdenziali.

E’ stato, altresì, affermato che il contributo di solidarietà, rispondeva a criteri di ragionevolezza e proporzionalità, trattandosi di misura contingente, straordinaria e temporalmente circoscritta; infine, «incidendo in base ad aliquote crescenti (del 6, 12 e 18 per cento), secondo una misura che rispetta il criterio di proporzionalità e, in ragione della sua temporaneità, non si appalesa di per sé insostenibile, pur innegabilmente comportando un sacrificio per i titolari di siffatte pensioni» (cfr. sentenza n. 173/2016, cit.).

Le disposizioni di cui all’art. 1, commi 261-268, della legge 30 dicembre 2018 n. 145, non paiono aver rispettato tali criteri.

Difatti, in primo luogo, la riduzione dei trattamenti pensionistici non riguarda «tutti gli enti gestori di forme di previdenza obbligatoria», essendo limitata ai trattamenti pensionistici diretti a carico del Fondo pensioni lavoratori dipendenti, delle gestioni speciali dei lavoratori autonomi, delle forme sostitutive, esclusive ed esonerative dell’assicurazione generale obbligatoria e della Gestione separata di cui all’art. 2, comma 26, della legge 8 agosto 1995, n. 335 (cfr. comma 261) e rimanendo, pertanto, esentati dal prelievo: a) i liberi professionisti, in quanto titolari di trattamenti erogati dagli enti previdenziali di diritto privato, istituiti con decreto legislativo 30 giugno 1994, n. 509, nonché tutti i soggetti titolari di pensioni da totalizzazione o da cumulo, nelle quali sia presente anche un solo periodo contributivo a carico delle Casse professionali (cfr. circolare n. 116 del 9 agosto 2019, emessa dall’INPS); b) i titolari di pensione interamente calcolata con il sistema contributivo, cfr. comma 263; c) i titolari di pensioni di invalidità ed i trattamenti pensionistici di invalidità di cui alla legge 12 giugno 1984, n. 222 (comma 268); d) i titolari di trattamenti pensionistici riconosciuti ai superstiti (comma 268); e) i titolari di trattamenti riconosciuti a favore delle vittime del dovere o di azioni terroristiche, di cui alla legge 13 agosto 1980, n. 466, e alla legge 3 agosto 2004, n. 206 (comma 268); tali ultime categorie, a prescindere dalle modalità di calcolo, se contributivo o retributivo, del trattamento goduto.

In secondo luogo, va ribadito che, come già precisato, è mancata del tutto la individuazione dello scopo del prelievo, ovvero la sua destinazione a fini endo-previdenziali (tale non potendosi considerare il semplice accantonamento di cui al comma 265), di talché tali somme parrebbero destinate a confluire nella fiscalità generale, circostanza avvalorata dagli atti, successivi all’approvazione della legge, predisposti congiuntamente dal Servizio del bilancio del Senato e dal Servizio bilancio dello Stato, cui si è già fatto riferimento (cfr. Dossier intitolato «Effetti sui saldi e conto risorse e impieghi, del gennaio 2019, il quale, alla Tabella 8, nello specificare i «Principali interventi e mezzi di finanziamento», ricomprende tra i «mezzi di copertura» la voce «Misure sulle pensioni più elevate»).

Inoltre, come correttamente posto in luce dalla difesa dei ricorrenti, non parrebbe sussistere la situazione di grave crisi del sistema pensionistico, indotta da vari fattori – endogeni ed esogeni, da ponderarsi attentamente, che consente di derogare al principio di affidamento in ordine al mantenimento del trattamento pensionistico già maturato (tra le altre, sentenze n. 69 del 2014, n. 166 del 2012, n. 302 del 2010, n. 446 del 2002).

Difatti, a fronte del prelievo imposto, sono state adottate misure espansive della pubblica spesa e, in particolare nel comparto previdenziale, con il D.L. 28 gennaio 2019, n. 4, recante Disposizioni urgenti in materia di reddito di cittadinanza e di pensioni, convertito in legge, con modificazioni dall’art. 1, comma 1, legge 28 marzo 2019, n. 26 che, nel riformare i requisiti di accesso alla pensione, ha consentito un significativo aumento degli aventi diritto al collocamento in quiescenza, con conseguenti oneri per il bilancio statale, per la cui copertura sono stati previsti stanziamenti annuali per il 2019, di euro 4.719,1 milioni, per il 2020, di euro 8.717,1 milioni e, infine, per il 2021, di euro 9.266,5 milioni (cfr. art. 28, decreto-legge richiamato).

Infine, forti dubbi sussistono sul carattere della temporaneità del contributo, sia in ragione della età dei ricorrenti e della durata del prelievo, pari a cinque anni, sia alla luce degli interventi, susseguitisi negli anni, diretti a incidere sui trattamenti pensionistici elevati, tra i quali vanno annoverati: a) l’art. 37 della legge 23 dicembre 1999, n. 488, che aveva introdotto un contributo di solidarietà nella misura del 2 per cento. Le somme così prelevate confluivano in un fondo, di cui alla legge n. 196 del 1997 (articoli 5 e 9, comma 3), per la copertura previdenziale di lavoratori in formazione; b) la legge 24 dicembre 2003, n. 350 che, all’art. 3, comma 102 prevedeva, per un periodo di tre anni, un contributo di solidarietà nella misura del 3 per cento; c) la legge di conversione del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98 (legge 15 luglio 2011, n. 111) che, in considerazione della eccezionalità della situazione economica internazionale e tenuto conto delle esigenze prioritarie di raggiungimento degli obiettivi di finanza pubblica, a decorrere dal 1° agosto 2011 e fino al 31 dicembre 2014, disponeva un contributo di perequazione, a decorrere dal 1° agosto 2011 e fino al 31 dicembre 2014, pari al 5 per cento per i trattamenti pensionistici superiori a 90.000 euro lordi annui fino a 150.000 euro, nonché pari al 10 per cento per la parte eccedente 150.000 euro; tale soglia veniva elevata al 15 per cento, per la parte eccedente 200.000 euro, con il decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214 (la norma veniva dichiarata costituzionalmente illegittima con la sentenza n. 116 del 2013); d) il decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138 (convertito, con modificazioni dalla legge 14 settembre 2011, n. 148), che aveva introdotto un contributo di solidarietà del 3 per cento per i redditi complessivi di importo superiore a 300.000 euro lordi annui, sulla parte eccedente il predetto importo, a decorrere dal 1° gennaio 2011 e fino al 31 dicembre 2013; la misura veniva poi prorogata al 31 dicembre 2016 con la legge n. 147 del 2013 (legge di stabilità per il 2014); la stessa legge, art. 1, commi 486 e 487, prevedeva, a decorrere dal 10 gennaio 2014 e per un periodo di tre anni, sugli importi dei trattamenti pensionistici corrisposti da enti gestori di forme di previdenza obbligatorie, complessivamente superiori a quattordici volte il trattamento minimo INPS, un contributo di solidarietà a favore delle gestioni previdenziali obbligatorie. La norma veniva impugnata davanti alla Corte costituzionale che, con sentenza n. 173 del 2016, dichiarava non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 486, e inammissibile la questione di legittimità costituzionale del comma 487.

Il riferito quadro normativo rafforza l’eventualità che le decurtazioni via via attuate sui trattamenti pensionistici più elevati vadano assumendo una connotazione di stabilità, venendo per tale via a costituire una delle fonti di finanziamento del sistema previdenziale o, financo, della fiscalità generale, attuata in maniera non conforme ai dettami costituzionali di cui agli articoli 3, 23 e 53 della Costituzione.

In conclusione, anche a voler ascrivere al prelievo in esame natura di prestazione patrimoniale imposta per legge, in conformità al modello di cui all’art. 23 della Costituzione, le relative disposizioni normative confliggerebbero, comunque, con i principi di ragionevolezza e proporzionalità, in virtù dello scrutinio «stretto» di costituzionalità, che vuole che il contributo di solidarietà debba: operare all’interno del complessivo sistema della previdenza; essere imposto dalla crisi contingente e grave del predetto sistema; incidere sulle pensioni più elevate (in rapporto alle pensioni minime); presentarsi come prelievo sostenibile; rispettare il principio di proporzionalità; essere comunque utilizzato come misura una tantum (sentenze nn. 223/2012; 116/2013; 173/2016).

3. Violazione degli articoli 3, 23, 36 e 38 della Costituzione.

Sempre a voler escludere la natura tributaria del prelievo, non verrebbero meno i dubbi di costituzionalità della misura adottata anche per altro aspetto.

Difatti, atteso il nesso inscindibile esistente tra gli articoli 36, comma 1, e 38, comma 2 della Costituzione, ovvero tra retribuzione (legata alla quantità e qualità del lavoro prestato) e pensione, ancorata alla retribuzione percepita in costanza di servizio, il legislatore deve operare un corretto bilanciamento tra gli interessi contrapposti, previa un’adeguata valutazione della situazione finanziaria, basata su dati oggettivi, tutte le volte in cui si voglia conseguire un risparmio di spesa in materia pensionistica (Corte costituzionale sentenza n. 250 del 2017), data l’esigenza fondamentale di bilanciare la garanzia del legittimo affidamento nella sicurezza giuridica, da una parte, con altri valori costituzionalmente rilevanti, dall’altra (cfr. Corte costituzionale 30 aprile 2015, n. 70).

Nel caso in esame tale valutazione sembra essere del tutto assente, non emergendo dai lavori preparatori della legge n. 145/2018 una adeguata ponderazione delle esigenze finanziarie, e non risultando evidenziate le ragioni che ne giustifichino la prevalenza sui diritti oggetto di bilanciamento.

Ma anche a voler riconoscere la sottesa esigenza di «una maggiore equità del sistema previdenziale» (cfr. documento di Aggiornamento del quadro macroeconomico e di finanza pubblica – Dicembre 2018, predisposto dal MEF, «Misure correttive per il conseguimento dei nuovi obiettivi»), innegabile appare che questa sia stata perseguita attraverso strumenti che, limitando le misure restrittive ad alcune categorie di pensionati, si appalesano non rispettosi dei criteri di proporzionalità e ragionevolezza di cui all’art. 3 Costituzione.

Difatti, se lo scopo del Legislatore andasse ricercato nella necessità di ricondurre il sistema previdenziale ad un sostanziale equilibrio tra contributi versati e pensione percepita, si dovrebbe tenere nel debito conto, come correttamente argomentato da parte attrice, della contribuzione effettivamente versata nel corso dell’attività lavorativa.

Ragioni di equità e di giustizia sostanziale, cioè, imporrebbero una valutazione non in base al criterio di calcolo utilizzato per determinare il trattamento pensionistico, ma in base alla corrispondenza tra contribuzione versata e pensione percepita, rimanendo irrazionale e discriminatorio il diverso criterio utilizzato dal legislatore, che prescinde totalmente dalla durata del rapporto lavorativo e, appunto, dalla contribuzione versata.

Se, infatti, il sistema di calcolo contributivo assicura una effettiva rispondenza tra contributi versati e pensione percepita, non può assiomaticamente affermarsi che, per contro, la pensione calcolata con il sistema retributivo si traduca, sempre e comunque, in un trattamento di miglior favore per il pensionato. In particolare, nel caso di specie, tenuto conto dell’età media in cui i ricorrenti sono stati collocati in quiescenza, e della durata dell’attività lavorativa espletata (da tal uno per oltre cinquanta anni), è lecito presumere che la pensione percepita sia stata preceduta dal versamento di idonea e sufficiente contribuzione.

A smentire siffatto preconcetto, valga altresì l’introduzione, nell’ordinamento, dell’art. 1, comma 707, della legge n. 190/2014, il quale ha stabilito che il passaggio al sistema contributivo, previsto dalla «riforma Fornero», non può comportare il riconoscimento di un importo di pensione superiore a quello che sarebbe spettato applicando il previgente sistema di calcolo retributivo (anche per le pensioni, eventualmente, già liquidate, come disposto dal successivo comma 708).

Stridente appare il contrasto con gli insegnamenti della Corte costituzionale, in forza dei quali qualunque riforma, mirata a puntellare il sistema pensionistico, e di sostegno previdenziale ai più deboli, anche in un’ottica di mutualità intergenerazionale, deve essere assistita da quella incontestabile ragionevolezza, a fronte della quale soltanto può consentirsi di derogare (in termini accettabili) al principio di affidamento in ordine al mantenimento del trattamento pensionistico già maturato (sentenze n. 69 del 2014, n. 166 del 2012, n. 302 del 2010, n. 446 del 2002, ex plurimis).

Sotto altro profilo, non può essere dimenticato che un contributo sulle pensioni, che non deve essere sganciato dalla realtà economico-sociale, di cui i pensionati stessi sono partecipi e consapevoli, deve costituire una misura del tutto eccezionale, nel senso che non può essere ripetitivo e tradursi in un meccanismo di alimentazione del sistema di previdenza. Seppure, per essere solidale e ragionevole, e non infrangere la garanzia costituzionale dell’art. 38 della Costituzione, non può che essere diretto ad incidere sulle pensioni più elevate, ma tale incidenza deve essere contenuta in limiti di sostenibilità e non superare livelli apprezzabili: per cui, le aliquote di prelievo non possono essere eccessive e devono rispettare il principio di proporzionalità, che è esso stesso criterio, in sé, di ragionevolezza della misura (cfr. sentenza n. 173 del 2016).

Orbene, ritiene lo scrivente giudice che, nel caso, sia venuta meno anche la tutela della proporzionalità e dell’adeguatezza (articoli 36 e 38 della Costituzione), posto che il prelievo attuato incide con percentuali importanti, ben più elevate di quelle previste nel corso degli anni precedenti, sui trattamenti pensionistici in considerazione (l’aliquota di riduzione varia, difatti, dal 15 al 40 per cento).

Il prelievo che, per quanto finora argomentato, non appare correlato né a particolari esigenze finanziarie, né alla salvaguardia della sostenibilità del sistema previdenziale, compromessa in maniera ben più elevata dalle contestuali riforme inerenti il requisito di accesso alla pensione (cd quota 100), nella sostanza altera in maniera consistente il nesso di tendenziale equilibrio che deve sussistere tra le pensioni, da un lato, e le retribuzioni e la contribuzione versata dall’altra.

Pur se non deve ritenersi sussistente un rapporto di indefettibile corrispondenza tra le pensioni e le retribuzioni e tra le pensioni e l’ammontare della contribuzione versata, ma una tendenziale correlazione, che salvaguardi l’idoneità del trattamento previdenziale a soddisfare le esigenze di vita (cfr. sentenza n. 104/2018 del 23 maggio 2018), non appare consentita, in ragione dei dettami della Costituzione, una definitiva compromissione di tale correlazione.

Difatti, l’art. 36 della Costituzione, applicabile alle prestazioni previdenziali per il tramite e nella misura tracciata dall’art. 38 della Costituzione, costituisce il parametro per la valutazione delle esigenze di vita, in cui vanno ricompresi non solo «i bisogni elementari e vitali», ma anche le esigenze relative al tenore di vita conseguito dallo stesso lavoratore in rapporto al reddito ed alla posizione sociale raggiunta in seno alla categoria di appartenenza, per effetto dell’attività lavorativa svolta (cfr. sentenza 7 luglio 1986, n. 173, richiamata da Corte costituzionale sentenza 7 dicembre 2017, n. 259, del 1° dicembre 2017).

Risultano conseguentemente lesi i principi posti dagli articoli 2, 3, 36 e 38 della Costituzione, che impongono la preservazione di un rapporto di corrispondenza tra pensioni e retribuzioni, mediante meccanismi di raccordo atti a scongiurare il rischio di un irragionevole scostamento, sintomatico dell’inadeguatezza del trattamento previdenziale corrisposto (sentenza n. 226 del 1993), giacché il prelievo: incide sulle situazioni sostanziali poste in essere da leggi precedenti, frustrando l’affidamento del pensionato nella certezza delle situazioni giuridiche acquisite; incide su redditi ormai consolidati nel loro ammontare, e percepiti da cittadini rispetto ai quali non risulta più possibile neppure ridisegnare sul piano sinallagmatico il rapporto di lavoro» (cfr. sentenza del 5 giugno 2013, n. 116); data la durata quinquennale e la sequenza dei provvedimenti che lo hanno preceduto, non pare rispettare il requisito della «temporaneità», indicato come un elemento essenziale, ai fini del rispetto dei criteri di proporzionalità e ragionevolezza di cui all’art. 3 Costituzione (sentenza n. 173/2016 cit.); impone un sacrificio ad una ristretta cerchia di soggetti, in maniera ingiustificata e discriminatoria, che si rivela impropriamente sostitutivo di un intervento di fiscalità generale nei confronti di tutti i cittadini (ordinanza Sezione Friuli n. 6/2019, cit.); incide, in modo consistente e non proporzionato, sui trattamenti pensionistici, così consistentemente alterando la tendenziale correlazione tra retribuzione e pensione.

Si impone, infine, un’ultima notazione.

La norma sospettata di incostituzionalità giunge al termine di una lunga sequenza di provvedimenti diretti ad incidere sui trattamenti pensionistici elevati, in ordine ai quali il Giudice delle leggi si è plurime volte pronunciato, dettando e individuando principi e criteri idonei a circoscrivere e rendere conformi ai dettami della Carta costituzionale gli interventi in subiecta materia, criteri da ultimo compiutamente. delineati nella sentenza n. 173 del 2016.

E’ stato così ribadito che, affinché un intervento ablativo possa essere configurato come sicuramente ragionevole, non imprevedibile e sostenibile, debba operare all’interno dell’ordinamento previdenziale, come misura di solidarietà «forte», mirata a puntellare il sistema pensionistico, e di sostegno previdenziale ai più deboli, anche in un’ottica di mutualità intergenerazionale, siccome imposta da una situazione di grave crisi del sistema stesso, indotta da vari fattori – endogeni ed esogeni …che devono essere oggetto di attenta ponderazione da parte del legislatore, in modo da conferire all’intervento quella incontestabile ragionevolezza, a fronte della quale soltanto può consentirsi di derogare (in termini accettabili) al principio di affidamento in ordine al mantenimento del trattamento pensionistico già maturato (sentenze n. 69 del 2014, n. 166 del 2012, n. 302 del 2010, n. 446 del 2002, ex plurimis).

Orbene, alla luce di tali criteri pare possibile ravvisare, nelle decurtazioni operate dall’art. 1, comma 261, della legge n. 145/2018, anche la violazione dell’art. 136 primo comma della Costituzione, con elusione del giudicato costituzionale, rinvenibile non solo quando il legislatore emana una norma che costituisce una «mera riproduzione» (sentenze n. 73 del 2013 e n. 245 del 2012) di quella già ritenuta lesiva della Costituzione, ma anche se la nuova disciplina mira a «perseguire e raggiungere, «anche se indirettamente», esiti corrispondenti» (cfr. Corte costituzionale, sentenze n. 73 del 2013, n. 245 del 2012, n. 922 del 1988, n. 223 del 1983, n. 88 del 1966).

Difatti, il disposto prelievo non pare conforme ai principi di ragionevolezza, di affidamento e della tutela previdenziale, oggetto di uno scrutinio «stretto» di costituzionalità; non appaiono individuate condizioni atte a configurare l’intervento ablativo come sicuramente ragionevole, non imprevedibile e sostenibile; non appare diretto a puntellare il sistema pensionistico, e di sostegno previdenziale ai più deboli, anche in un’ottica di mutualità intergenerazionale; non risulta essere stato oggetto di attenta ponderazione da parte del legislatore; non si palesa come misura improntata effettivamente alla solidarietà previdenziale, né quale misura una tantum.

Alla luce di tutte le argomentazioni che precedono, il presente giudizio, non potendo essere definito nel merito, se non previa risoluzione delle prospettate questioni di legittimità costituzionale, deve essere sospeso, con rimessione degli atti alla Corte costituzionale.

P.Q.M.

In composizione monocratica, visto l’art. 23, comma 2, della legge 11 marzo 1953, n. 87, ritenute rilevanti e non manifestamente infondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 261 e seguenti, della legge 30 dicembre 2018, n. 145, recante «Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2019 e bilancio pluriennale per il triennio 2019-2021», per contrasto con gli articoli 3, 23, 36, 38, 53 e 136 della Costituzione.

Sospende il presente giudizio e dispone l’immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale, unitamente alla prova delle notificazioni e comunicazioni prescritte dall’art. 23, comma 2, della legge 11 marzo 1953, n. 87.

Dispone, altresì, che a cura della segreteria di questa sezione la presente ordinanza venga notificata alle parti costituite ed al Presidente del Consiglio dei ministri, nonché comunicata ai Presidenti della Carnera dei deputati e del Senato.