CORTE DEI CONTI – Ordinanza 13 maggio 2019
Impiego pubblico – Previsione per le categorie di personale, di cui all’articolo 3 del d.lgs. n. 165 del 2001, che fruiscono di un meccanismo di progressione automatica degli stipendi, che gli anni 2011, 2012 e 2013 non sono utili ai fini della maturazione delle classi e degli scatti stipendiali previsti dai rispettivi ordinamenti – Proroga sino al 31 dicembre 2014 delle disposizioni che limitano la crescita dei trattamenti economici, anche accessori, del personale delle pubbliche amministrazioni – Decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78 – Decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98 – decreto del Presidente della Repubblica 4 settembre 2013, n. 122 (Regolamento in materia di proroga del blocco della contrattazione e degli automatismi stipendiali per i pubblici dipendenti)
Premesso che
la retribuzione dei ricorrenti ha subito il «blocco» stabilito dall’art. 9, comma 21, del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78, convertito con modificazioni dalla legge 30 luglio 2010, n. 122;
nel corso del quinquennio 2011-2015 tutti i ricorrenti sono cessati dal servizio e sono stati collocati in ausiliaria; alcuni sono già transitati in riserva;
il calcolo del trattamento pensionistico dei ricorrenti è stato quindi operato sulla base della retribuzione «bloccata», ossia sulla base della retribuzione congelata all’ultima classe o scatto maturati prima dell’inizio del «blocco», ossia anteriormente al 1° gennaio 2011;
essi chiedono a questa Corte di «accertarne e dichiararne il diritto ad ottenere la rideterminazione del trattamento di quiescenza [provvisorio (inclusa l’indennità di ausiliaria) e/o definitivo)], dalla data di cessazione dal servizio o, almeno, dal 1° gennaio 2016, da calcolare comprendendo nella base di computo anche tutti gli automatismi economici spettanti per ed in relazione al quinquennio 2011-2015 (inclusi quelli ex art. 24 della legge n. 448/1998 e ex art. 161 della legge n. 312/1980), e quindi voglia condannare il Ministero della difesa e l’I.N.P.S., per quanto di rispettiva competenza, a rideterminare come sopra il trattamento di quiescenza [provvisorio (inclusa l’indennità d’ausiliaria) e/o definitivo)] e a corrispondere le differenze spettanti a tale titolo, con interessi legali e rivalutazione monetaria come richiesti, previo annullamento di tutti gli atti ostativi e di diniego alla pretesa e previa, solo se ritenuto necessario, remissione degli atti del giudizio alla Corte costituzionale, per la decisione della questione di legittimità costituzionale, per violazione degli articoli 2, 3, 36, 38, 53 e 117 della Costituzione, dell’art. 9, comma 21, secondo periodo, del decreto-legge n. 78/2010 e successive proroghe»;
nel ricorso si ripercorrono diffusamente i precedenti della giurisprudenza costituzionale riguardanti casi similari (sentenza n. 154 del 4 giugno 2014; sentenza n. 304 del 12 dicembre 2013; sentenza n. 310 del 17 dicembre 2013 e ordinanza n. 113 del 5 maggio 2014), osservando in sintesi che «se si ritiene che l’art. 9, comma 21, secondo periodo, del decreto-legge n. 78/2010 non si sia limitato a differire l’operatività degli incrementi stipendiali per classi e scatti spettanti per e in relazione al quinquennio 2011-2015, bensì l’abbia esclusa, alla disposizione non può più riconoscersi la portata di misura di raffreddamento della dinamica retributiva che le ha permesso di superare il vaglio di ragionevolezza: in tal caso, essa palesemente viene a perdere quel «carattere eccezionale, transeunte, non arbitrario, consentaneo allo scopo prefissato, nonché temporalmente limitato, dei sacrifici richiesti», che la giurisprudenza costituzionale esige «per escludere l’irragionevolezza» degli interventi di contenimento della spesa pubblica incidenti sul trattamento economico dei dipendenti pubblici (cfr. Corte costituzionale, sentenza 17 dicembre 2013, n. 310)»;
si richiama, ancora, l’identità di situazione con l’art. 7, comma 3, del decreto-legge n. 384/1992, che è stato inteso ed applicato nel senso che la corresponsione degli incrementi stipendiali spettanti nel 1993 era da differire di un anno, senza corresponsione di arretrati, ma con salvezza dell’ordinaria decorrenza di maturazione dei successivi automatismi;
i ricorrenti rimarcano altresì che «per il personale dirigente ed equiparato ancora in servizio, e cioè per il personale «più giovane», il già pur minore pregiudizio derivato dalla qui avversata deteriore interpretazione ed applicazione dell’art. 9, comma 21, secondo periodo, del decreto-legge n. 78/2010 è stato ora interamente rimosso, attraverso il reinquadramento economico attuato in applicazione dell’art. 11, comma 7, del decreto legislativo n. 94/2017 di c.d. riordino, di modo che, i «sacrifici richiesti» dalla disposizione di «blocco» gravano ormai esclusivamente, e in via definitiva, sul solo personale cessato dal servizio nel corso del quinquennio 2011-2015»;
nella giurisprudenza contabile, constano precedenti favorevoli alla tesi dei ricorrenti, basati su un’interpretazione costituzionalmente orientata del quadro normativa (cfr. Corte dei conti, Sez. giur. Calabria, sentenza n. 13 del 1° febbraio 2018 e n. 210 del 20 settembre 2018; Sez. giur. Lazio, sentenza n. 278 del 9 ottobre 2017);
diversamente ragionando, sarebbe ravvisabile l’illegittimità costituzionale, per violazione degli articoli 2, 3, 36, 38, 53 e 117 della Costituzione, dell’art. 9, comma 21, del decreto-legge n. 78/2010, nella parte in cui stabilisce che «Per le categorie di personale di cui all’art. 3 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 e successive modificazioni, che fruiscono di un meccanismo di progressione automatica degli stipendi, gli anni 2011, 2012 e 2013 non sono utili ai fini della maturazione delle classi e degli scatti di stipendio previsti dai rispettivi ordinamenti», nonché dell’art. 16, comma 1, lettera b), del decreto-legge n. 98/2011 e dell’art. 1, comma 1, lettera a), del decreto del Presidente della Repubblica 4 settembre 2013, n. 122 e dell’articolo unico, comma 256, della legge 23 dicembre 2014, n. 190, nella parte in cui hanno prorogato, rispettivamente, al 31 dicembre 2014 ed al 31 dicembre 2015 il termine finale del «blocco»;
segnatamente, si ravvisa la violazione degli articoli 2 e 3 della Costituzione, per manifesta irragionevolezza e per ingiustificata disparità di trattamento, non avendo l’art. 9, comma 21, secondo periodo, del decreto-legge n. 78/2010 salvaguardato, neppure a fini pensionistici, la posizione del personale «più anziano» e, per ciò accidentalmente incappato nel «blocco» della operatività degli automatismi stipendiali, bensì solo quella del personale «più giovane», che, trovandosi per ciò ancora in servizio al termine del «blocco», ha potuto beneficiare del ripristino – ora, come detto, divenuto integrale – del «meccanismo di progressione… delle classi e degli scatti di stipendio»;
ad avviso dei ricorrenti, inoltre, è facile intendere che, pur a parità di posizione maturata, ad essi è stata preclusa, per via del «blocco», la possibilità di ottenere il trattamento di quiescenza commisurato al trattamento economico al quale avrebbero avuto diritto in servizio, che invece hanno avuto ed hanno i colleghi che quella stessa posizione hanno maturato prima dell’inizio o dopo il termine del «blocco»; il che, a parità di quantità e di qualità di lavoro prestato, si traduce in un evidente pregiudizio dell’eguale diritto a quel trattamento e, quindi, in un vulnus anche degli articoli 36 e 38 della Costituzione;
inoltre, sussisterebbe la violazione dell’art. 53 della Costituzione, in quanto ricorrerebbero simultaneamente i tre presupposti indicati nella sentenza della Corte costituzionale n. 223 dell’11 ottobre 2012, integrandosi una fattispecie di tributo anomalo;
ulteriore profilo di illegittimità risiederebbe nella «violazione dell’art. 117, comma 1, della Costituzione, per contrasto con il parametro interposto costituito dall’art. 1 del protocollo n. 1 e dell’art. 1 del protocollo n. 12 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali»;
«infatti, nel caso, la misura di definitiva sterilizzazione dell’ordinaria progressione stipendiale per gli anni 2011-2013, reiterata per gli anni 2014-2015, cancella, in violazione dell’art. 1 del protocollo n. 1 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali il “diritto di credito” scaturente dal realizzarsi della fattispecie ordinariamente determinante il diritto agli incrementi economici previsti»;
al riguardo, i ricorrenti ritengono di essere stati privati del «bene» costituito dagli incrementi retributivi ai quali avrebbero avuto ordinariamente diritto per il quinquennio dal 2011 al 2015, con effetti proiettati anche sul trattamento di quiescenza, e quindi in via completa e definitiva, e ciò, fra l’altro, senza che sia stato indicato e dimostrato specificamente cosa abbia reso necessaria la radicale misura assunta; l’intervento legislativo risulta, a loro avviso, «apportatore di un carico speciale, esorbitante e sproporzionato che grava sui soli ricorrenti, il che rompe qualunque giusto equilibrio tra esigenze d’interesse generale e tutela dei diritti fondamentali dell’individuo ed evidenzia un profilo discriminatorio che rileva in termini di violazione anche dell’art. 1 del protocollo n. 12 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali»; «tanto più ora, se si considera che, dopo l’intervento di riordino di cui al decreto legislativo n. 94/2017, la misura privativa continua a produrre effetti solo ed esclusivamente a carico dei ricorrenti e di quanti si sono trovati e si trovano in analoga situazione»;
Premesso inoltre che:
si è costituito il Ministero della difesa, osservando che «la pretesa rivendicata dagli odierni ricorrenti non può trovare accoglimento ostandovi il chiaro disposto normativa di cui dall’art. 9, comma 21, secondo periodo, del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78, il quale stabilisce che, per il personale in regime di diritto pubblico di cui all’art. 3 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, e successive modificazioni, destinatario di progressione automatica degli stipendi (e in tale ambito è riconducibile la posizione degli ufficiali dirigenti e di quelli provvisti di trattamento economico ‘dirigenzialè), gli anni 2011, 2012, 2013 (poi anche 2014 e 2015) non sono utili ai fini della maturazione delle classi e scatti di stipendio previsti dai rispettivi ordinamenti»;
aggiunge il Ministero che difetterebbe anche la copertura contributiva e che con particolare riferimento alla posizione dei ricorrenti B., M. e R. l’aggancio al trattamento dei colleghi in servizio sarebbe stato comunque operato mediante l’indennità di ausiliaria;
infine, si richiama la sentenza n. 200/2018, intervenuta nelle more del giudizio, con cui la Corte costituzionale ha già ritenuto infondate le sollevate questioni di legittimità costituzionale, peraltro riguardanti la «distinta problematica del blocco delle progressioni di carriera a decorrere dal 1° gennaio 2011 (blocco prorogato sino al 31 dicembre 2014)»;
si chiede quindi il rigetto del ricorso con vittoria delle spese di lite, da liquidarsi in euro 1.000,00 (mille/00);
Premesso inoltre che:
si è costituito l’INPS, eccependo il proprio difetto di legittimazione passiva per le posizioni dei ricorrenti B.,
M. e R., i quali non sono amministrati dall’Istituto in quanto in posizione di ausiliaria alla data di proposizione del ricorso; anche per i ricorrenti C. e F. l’INPS non sarebbe legittimato passivamente, siccome mero ordinatore secondario di spesa;
ciò posto, si eccepisce anche il difetto di giurisdizione, vertendosi di questione pregiudizialmente riguardante la rideterminazione del trattamento stipendiale;
nel merito, si eccepisce il chiaro ed insormontabile tenore della disposizione censurata e l’infondatezza della sollevata questione di costituzionalità;
si conclude, quindi, gradatamente per la declaratoria di difetto di giurisdizionale della Corte dei conti in favore del giudice del rapporto di lavoro, per il difetto di legittimazione passiva, per la manifesta infondatezza della questione di costituzionalità e per il rigetto nel merito del ricorso, con vittoria delle spese;
Considerato che
nelle more del giudizio, la Corte costituzionale ha pronunciato la sentenza n. 200/2018 (udienza pubblica del 20 giugno 2018; decisione dell’11 ottobre 2018; deposito del 15 novembre 2018; pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale 21 novembre 2018, n. 46), sulla questione di legittimità costituzionale dell’art. 9, comma 21, terzo periodo, del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78 (Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica), convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n. 122; dell’art. 16, comma 1, lettera b), del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98 (Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria), convertito, con modificazioni, dalla legge 15 luglio 2011, n. 111, come specificato dall’art. 1, comma 1, lettera a), primo periodo, del decreto del Presidente della Repubblica 4 settembre 2013, n. 122 (Regolamento in materia di proroga del blocco della contrattazione e degli automatismi stipendiali per i pubblici dipendenti, a norma dell’art. 16, commi 1, 2, e 3, del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98, convertito, con modificazioni, dalla legge 15 luglio 2011, n. 111), promosso dalla Corte dei conti, sezione giurisdizionale per la Liguria;
con la citata pronuncia, in particolare, la Corte costituzionale ha dichiarato infondata la questione di costituzionalità in parola, relativamente al terzo periodo del citato art. 9, comma 21;
la Corte costituzionale, nel ricostruire il quadro normativa, la ratio e la natura del «blocco» recato dalla disposizione in discussione, ha sostanzialmente avallato la lettura data dall’amministrazione, ritenendo detta interpretazione conforme agli invocati parametri costituzionali;
in particolare, si è osservato che: la disciplina del «blocco» è stata posta «dichiaratamente al fine di contenere le spese in materia di impiego pubblico, come risulta dalla stessa rubrica della disposizione»; «tutto il pubblico impiego è stato coinvolto da questa articolata regola di conformazione della retribuzione»; «a ciò si sono aggiunte altre misure di contenimento delle spese per il pubblico impiego, quale il blocco della contrattazione collettiva con conseguente congelamento dei livelli retributivi»; «l’ampia e complessiva manovra diretta al contenimento delle spese per il pubblico impiego ha quindi superato il vaglio di costituzionalità, quanto al congelamento delle retribuzioni (…) e soltanto il regime di sospensione della contrattazione collettiva (…) è poi stato dichiarato costituzionalmente illegittimo, ma unicamente a partire dal giorno successivo alla pubblicazione della sentenza (n. 178 del 2015)»; «si è confermato così indirettamente il blocco per il periodo precedente (…)»;
si è chiarito che il «blocco» costituisce «una regola legale conformativa della retribuzione dei pubblici dipendenti nel quadriennio in questione, che integra, temporaneamente e in via eccezionale, la disciplina, legale o contrattuale, del trattamento retributivo, per perseguire la finalità di contenerne il costo complessivo»;
«il contenimento della retribuzione nel quadriennio suddetto ha comportato, come conseguenza, che la retribuzione calcolata con il criterio limitativo in questione è stata anche la base di calcolo della contribuzione previdenziale ed è quella rilevante al fine della quantificazione del trattamento pensionistico, sia nel generalizzato sistema contributivo, sia in quello residuale ancora retributivo»;
«è determinante considerare che il “fluire del tempo” differenzia il regime pensionistico prima e dopo la scadenza del quadriennio e giustifica il fatto che per i dipendenti collocati in quiescenza nel quadriennio la retribuzione pensionabile – calcolata vuoi con il sistema contributivo, vuoi ancora residualmente con il sistema retributivo – debba tener conto della retribuzione “spettante” secondo la disciplina applicabile ratione temporis, mentre per i dipendenti collocati dopo la scadenza del quadriennio il parametro di riferimento è la retribuzione spettante fino alla data del loro pensionamento»;
«una volta sterilizzati ex lege, per effetto della disposizione censurata, gli automatismi retributivi nel quadriennio in questione, la retribuzione utile ai fini previdenziali è quella risultante dall’applicazione di tale regola limitativa, senza che a tal fine rilevi il momento del collocamento in quiescenza, se nel corso del quadriennio o successivamente alla sua scadenza»;
«parimenti, una volta posta la regola dell’invarianza della retribuzione dei pubblici dipendenti in caso di progressione di carriera – senza che si dubiti della legittimità costituzionale di tale regola di iniziale immodificabilità in melius della retribuzione, vuoi perché non ne dubita la Corte dei conti rimettente, vuoi perché questa Corte ha già ritenuto non fondate questioni di costituzionalità riguardanti la retribuzione e non già la pensione (per tutte, sentenza n. 310 del 2013) – la ricaduta sul piano del rapporto previdenziale è generalizzata e non consente di porre utilmente a raffronto il trattamento pensionistico, spettante ai dipendenti collocati in quiescenza nel corso del quadriennio in questione, con quello riconosciuto ai dipendenti collocati in quiescenza dopo la scadenza di tale periodo. Così come, con riferimento al blocco della contrattazione collettiva, non potrebbero esser posti in comparazione i trattamenti pensionistici liquidati prima e dopo un incremento retributivo previsto dalla contrattazione collettiva, una volta cessato il periodo di sospensione»;
«la circostanza che, superato il quadriennio, al dipendente “promosso” sia attribuita una retribuzione superiore, rilevante anche sul piano (contributivo e) previdenziale e del trattamento pensionistico, si giustifica – senza che perciò sia leso il principio di eguaglianza – per l’incidenza del “fluire del tempo” che costituisce sufficiente elemento idoneo a differenziare situazioni non comparabili e a rendere applicabile alle stesse una disciplina diversa (ex plurimis, sentenze n. 104 del 2018, n. 53 del 2017, n. 254 del 2014)»;
Considerato che:
con successiva memoria difensiva i ricorrenti hanno insistito nelle proprie domande;
si è posto in risalto, «innanzitutto, che la disposizione oggetto della menzionata pronuncia della Corte costituzionale è quella di cui al terzo periodo del comma 21 dell’art. 9 del decreto-legge n. 78/2010 (blocco delle “progressioni di carriera comunque denominate”), mentre il presente giudizio ha per oggetto la distinta disposizione di cui al secondo periodo del medesimo comma 21 (blocco della “maturazione delle classi e degli scatti di stipendio”)»;
si evidenzia, poi, che in occasione della sentenza n. 200/2018 la Corte era stata investita della «questione di legittimità costituzionale del terzo periodo del comma 21 in relazione soltanto all’art. 3 della Costituzione, mentre nel presente giudizio si lamenta il contrasto del secondo periodo del comma 21, oltre che con l’art. 3, anche con gli articoli 2, 36, 38, 53 e 117 della Carta, con quest’ultimo per violazione del parametro interposto costituito dall’art. 1 del protocollo n. 1 e dell’art. 1 del protocollo n. 12 della Convenzione europea della salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali»;
a ciò si aggiunga, inoltre, che il contrasto del secondo periodo del comma 21 con l’art. 3, nonché con gli articoli 2, 36, 38, 117 della Costituzione, viene qui dedotto anche in relazione a quanto è stato in seguito disposto dall’art. 11, comma 7, del decreto legislativo 29 maggio 2017, n. 94 (recante «Disposizioni in materia di riordino dei ruoli e delle carriere del personale delle Forze armate, ai sensi dell’art. 1, comma 5, secondo periodo, della legge 31 dicembre 2012, n. 244»); la sopravvenienza del decreto di c.d. riordino, in particolare, fa venire in rilievo ulteriori profili d’illegittimità costituzionale del secondo periodo del comma 21, che non hanno ancora neppure mediatamente formato oggetto d’esame da parte del giudice delle leggi;
invero, la retribuzione del solo personale ancora in servizio dopo il termine del blocco è venuta a riespandersi al livello superiore ordinariamente previsto, come effetto non del «fluire del tempo», ma del reinquadramento retributivo connesso al «riordino» disposto per quel personale, ma per esso e solo per esso, rimuovendo interamente gli effetti del blocco e ad esso e solo ad esso restituendo, sia pure senza arretrati, gli incrementi spettanti, ma non percepiti, per ed in relazione al quinquennio 2011-2015;
a fronte degli effetti derivati dal decreto di c.d. riordino, non può dunque ulteriormente ritenersi che la diversità di trattamento riservata al personale dirigente ed equiparato delle FF.AA. trovi giustificazione nel «fluire del tempo»;
Dato atto che:
all’udienza pubblica del 29 gennaio 2019 sono comparsi l’avv. U.C. per i ricorrenti e l’avv. E.C. per l’INPS, come da verbale;
in esito all’udienza, il giudice si è riservato di provvedere con separata ordinanza a rimettere la sollevata questione di costituzionalità della normativa in applicazione;
Ritenuto che:
le eccezioni pregiudiziali e preliminari non meritano, prima facie, accoglimento, parendo evidente a questo giudice che il petitum del presente giudizio attiene alla riliquidazione della pensione e, come tale, appartiene alla giurisdizione contabile; inoltre, ancorché mero ordinatore secondario di spesa, l’INPS è comunque legittimato passivamente, non foss’altro che per la liquidazione e il pagamento degli arretrati e dei relativi accessori;
nel merito, questo giudice condivide e intende far propri i dubbi di legittimità costituzionale sollevati dai ricorrenti nel ricorso introduttivo e nella memoria d’udienza, come dinanzi succintamente compendiati;
le suddette questioni di legittimità costituzionale paiono, infatti, a questo giudice «non manifestamente infondate»;
ciò, a maggior ragione, ove si tenga a mente la considerazione conclusiva espressa in chiusura della citata sentenza n. 200/2018, secondo cui «spetterebbe comunque al legislatore, nell’esercizio discrezionale delle scelte di politica economica e di compatibilità con l’esigenza di equilibrio della finanza pubblica, prevedere eventualmente quanto richiede il giudice rimettente: la riliquidazione dei trattamenti pensionistici dei pubblici dipendenti, collocati in quiescenza nel quadriennio del blocco degli incrementi stipendiali, che nello stesso periodo abbiano conseguito una progressione di carriera o un passaggio a un’area superiore»;
non può ignorarsi, come efficacemente argomentato dai ricorrenti, che l’auspicato intervento perequativo è stato in effetti adottato dal legislatore per alcune categorie di militari in sede di «riordino» (di cui al decreto legislativo n. 94 del 2017), cancellando gli effetti del «blocco» in favore di coloro i quali fossero ancora in servizio nel 2018, con effetto sostanzialmente retroattivo (cioè consentendo non tanto la riattivazione della progressione, ma anche il recupero ex nunc di quanto perduto per effetto del blocco), senza però estendere il beneficio del recupero del pregresso in favore di quanti erano stati già collocati in ausiliaria o nella riserva, alla stessa data;
il blocco è così divenuto un mero differimento temporale della progressione economica, per alcuni, mentre si è sostanziato in una decurtazione definitiva, per altri, in ragione di una precisa scelta legislativa e non per effetto del mero fluire del tempo (fluire che, si ripete, è stato neutralizzato ex post solo per i militari attivi e non anche per quelli in quiescenza, a parità d’ogni altra condizione);
di qui l’acuirsi dei già rilevanti dubbi di legittimità costituzionale già affrontati con la citata sentenza n. 200/2018 in relazione a un diverso periodo della stessa disposizione di legge (art. 9, comma 21, terzo periodo, cit. anziché secondo periodo) e in riferimento a diversi parametri di costituzionalità;
è appena il caso di ricordare che la Corte dei conti, Sez. giur. Lombardia, ha già sollevato analoga questione di legittimità costituzionale con ordinanza n. 4/2019 del 18 gennaio 2019, con motivazioni alle quali questo giudice intende aderire, in quanto non manifestamente infondate;
si aggiunga che, nel sistema retributivo, non v’è nessun rapporto tra contribuzione versata e pensione liquidata; nel sistema contributivo, invece, detto rapporto sarebbe comunque preservato a prescindere dal recupero del periodo di «blocco», essendo liquidata la pensione solo in base ai contributi effettivamente accreditati;
per l’insieme delle ragioni fin qui esposte, ritiene questo giudice che siano rilevanti e non manifestamente infondate le sollevate questioni di legittimità costituzionale (per violazione degli articoli 2, 3, 36, 38, 53 e 117 della Costituzione), dell’art. 9, comma 21, secondo periodo, del decreto-legge n. 78/2010, nella parte in cui stabilisce che «Per le categorie di personale di cui all’art. 3 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 e successive modificazioni, che fruiscono di un meccanismo di progressione automatica degli stipendi, gli anni 2011, 2012 e 2013 non sono utili ai fini della maturazione delle classi e degli scatti di stipendio previsti dai rispettivi ordinamenti», nonché dell’art. 16, comma 1, lettera b), del decreto-legge n. 98/2011 e dell’art. 1, comma 1, lettera a), del decreto del Presidente della Repubblica 4 settembre 2013, n. 122 e dell’articolo unico, comma 256, della legge 23 dicembre 2014, n. 190, nella parte in cui hanno prorogato, rispettivamente, al 31 dicembre 2014 ed al 31 dicembre 2015 il termine finale del «blocco»; ciò anche in relazione all’art. 11, comma 7, del decreto legislativo n. 94/2017, recante il reinquadramento di una parte del personale militare in servizio, con sterilizzazione e recupero, soltanto nei loro confronti, del periodo di blocco;
il presente giudizio deve essere quindi doverosamente sospeso con trasmissione degli atti alla Corte costituzionale per le conseguenti valutazioni, ai sensi della legge 11 marzo 1953, n. 87;
la statuizione sulle spese, unitamente ad ogni altra questione di merito, va riservata alla sentenza definitiva.
P.Q.M.
con pronuncia non definitiva;
Ravvisata la non manifesta infondatezza, con riferimento agli articoli 2, 3, 36, 38, 53 e 117 della Costituzione, delle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 9, comma 21, secondo periodo, del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78 (Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica), convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n. 122,· dell’art. 16, comma 1, lettera b), del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98 (Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria), convertito, con modificazioni, dalla legge 15 luglio 2011, n. 111, come specificato dall’art. 1, comma 1, lettera a), primo periodo, del decreto del Presidente della Repubblica 4 settembre 2013, n. 122 (Regolamento in materia di proroga del blocco della contrattazione e degli automatismi stipendiali per i pubblici dipendenti, a norma dell’art. 16, commi 1, 2, e 3, del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98, convertito, con modificazioni, dalla legge 15 luglio 2011, n. 111); ciò anche in rapporto a quanto previsto dall’art. 11, comma 7, del decreto legislativo 29 maggio 2017, n. 94, recante «Disposizioni in materia di riordino dei ruoli e delle carriere del personale delle Forze armate, ai sensi dell’art. 1, comma 5, secondo periodo, della legge 31 dicembre 2012, n. 244»;
Ordina l’immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale;
Sospende il giudizio fino alle conseguenti decisioni della Corte costituzionale, con onere di riassunzione a carico delle parti nei termini di legge;
Dispone che, a cura della segreteria, la presente ordinanza sia notificata al Presidente del Consiglio dei ministri nonché alle parti in causa, e sia comunicata ai Presidenti della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica ai sensi dell’art. 23, ultimo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87.
Riserva all’esito del giudizio la statuizione sulle spese.
Manda alla segreteria per gli adempimenti di competenza.
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