CORTE DEI CONTI – Ordinanza 23 ottobre 2018
Previdenza e assistenza – Impiego pubblico – Previsione, per il periodo dal 1° luglio 2014 al 31 dicembre 2016, dell’applicazione ai trattamenti pensionistici, in tutto o in parte a carico dell’Amministrazione regionale e del Fondo pensioni Sicilia, di un limite massimo di 160.000 euro – Proroga della misura per il triennio 2017-2019 – Legge della Regione Siciliana 11 giugno 2014, n. 13 (Variazioni al bilancio di previsione della Regione per l’esercizio finanziario 2014 e modifiche alla legge regionale 28 gennaio 2014, n. 5 “Disposizioni programmatiche e correttive per l’anno 2014. Legge di stabilità regionale”. Disposizioni varie), art. 13, comma 2; legge della Regione Siciliana 29 dicembre 2016, n. 28 (Autorizzazione all’esercizio provvisorio del bilancio della Regione per l’anno 2017. Disposizioni finanziarie), art. 1, comma 3.
Fatto
Nel ricorso inoltrato alla Sezione di primo grado nell’ottobre 2014, Di M. P. (ex dirigente della Regione Siciliana, in quiescenza dal 26 maggio 2010, titolare di pensione d’ammontare superiore ad € 160.000,00 annui lordi) riferiva che, a partire dal mese di luglio 2014, la sua pensione era stata decurtata in applicazione dell’art. 13, comma 2, della legge regionale 11 giugno 2014, n. 13, secondo cui: «Al fine di conseguire risparmi di spesa attraverso la razionalizzazione della spesa pubblica regionale nonché al fine della salvaguardia degli equilibri di bilancio, per il periodo 1° luglio 2014 – 31 dicembre 2016 i trattamenti onnicomprensivi di pensione, compresi quelli in godimento, in tutto od in parte a carico dell’Amministrazione regionale e del Fondo Pensioni Sicilia, non possono superare il tetto di € 160.000,00 annui».
Considerato che, a suo avviso, tale norma presentava vari profili d’incostituzionalità, il Di M. chiedeva al Giudice di primo grado di deferire le relative questioni alla Corte costituzionale, al fine d’ottenere, previa declaratoria d’illegittimità costituzionale della disposizione contestata, la condanna del Fondo Pensioni Sicilia a ripristinare l’erogazione della sua pensione nell’originario ammontare ed a corrispondere le relative somme arretrate a lui spettanti, maggiorate degli accessori di legge.
Con la sentenza n. 829/2016 il Giudice di primo grado reputava manifestamente infondate tutte le questioni di legittimità costituzionale prospettate dal Di M. nei riguardi dell’art. 13, i comma 2, della legge regionale 11 giugno 2014, n. 13, e, conseguentemente, rigettava il ricorso giurisdizionale proposto dal medesimo.
Avverso tale sentenza ha proposto appello il Di M., affermando che il Giudice di primo grado avrebbe erroneamente ritenuto che fossero manifestamente infondate le questioni di legittimità costituzionale, che erano state da lui prospettate avverso la norma che aveva fissato, per il periodo 1° luglio 2014 – 31 dicembre 2016, ad € 160.000,00 annui il tetto delle pensioni dovute agli ex dipendenti della Regione Siciliana.
In particolare, la parte appellante ha, preliminarmente, riferito d’aver ricoperto il ruolo di dirigente di prima fascia della Regione Siciliana e d’essere stato assunto in servizio in epoca anteriore all’entrata in i vigore della legge regionale n. 21 del 9 maggio 1986, venendo così a far parte della schiera degli ex dipendenti regionali rientranti nell’ambito del cosiddetto «contratto 1», le cui pensioni vengono materialmente pagate dal Fondo Pensioni Sicilia, con l’utilizzo di fondi integralmente provenienti dal bilancio della Regione Siciliana.
Ciò in conformità all’art. 15 della legge regionale 14 maggio 2009, n. 6 (istitutiva del «Fondo Pensioni Sicilia»), che dispone espressamente, al comma 8, che: «L’onere del trattamento di quiescenza per personale di cui ai i commi 2 e 3 dell’art. 10 della legge regionale n. 21/1986 (ossia i soggetti rientranti nell’ambito del cosiddetto «contratto 1») è totalmente a carico del bilancio della Regione, che provvede ai relativi pagamenti tramite il Fondo Pensioni, attraverso appositi trasferimenti delle risorse finanziarie occorrenti».
Ciò premesso, la parte appellante ha sostenuto quanto segue.
Come si evince dal testo dell’art. 13, comma 2, della legge regionale n. 13/2014 e com’è stato, peraltro, confermato dal Fondo Pensioni Sicilia (v. la nota n. 7835 del 2 marzo 2016, in risposta a specifici quesiti formulati dalla locale Sezione Giurisdizionale della Corte dei conti con apposita ordinanza istruttoria), i risparmi di spesa, scaturenti dall’imposizione del tetto di € 160.000,00 annui alle pensioni degli ex dipendenti regionali rientranti nel cosiddetto «contratto 1», non restano affatto nell’ambito del circuito previdenziale per il perseguimento di finalità solidaristiche e/o perequative, ma vengono a configurarsi come mere «economie di bilancio» a vantaggio della Regione Siciliana, come tali finalizzate alla razionalizzazione della spesa pubblica regionale ed alla salvaguardia dei relativi equilibri di bilancio e rientranti, dunque, nel più ampio contesto della «fiscalità generale».
In pratica, l’art. 13, comma 2, della legge regionale n. 13/2014, determinando una decurtazione definitiva della pensione, con acquisizione al bilancio regionale del relativo ammontare, presenta tutti i requisiti individuati dalla giurisprudenza della Corte costituzionale (v., ex plurimis, le sentenze: n. 223/2012, n. 141/2009, nn. 64, 102, 335 del 2008, n. 334/2006, n. 73/2005) come denotanti la natura tributaria del prelievo, ossia: la doverosità della prestazione in mancanza di un rapporto sinallagmatico tra le parti; il collegamento della prestazione alla spesa pubblica, in relazione ad un presupposto economicamente rilevante.
D’altronde, tale prelievo viene a gravare, senz’alcuna ragione giuridicamente apprezzabile, esclusivamente su una ben determinata ed assai ristretta categoria di soggetti, quali i pensionati della Regione Siciliana titolari di trattamenti di quiescenza di elevato ammontare, restando, invece, esclusi tutti gli altri cittadini, ivi compresi gli ex dipendenti dell’Assemblea Regionale Siciliana.
Orbene, ad avviso della parte appellante, in tale peculiare contesto vanno tenute ben presenti le fondamentali argomentazioni contenute nelle sentenze della Corte costituzionale n. 116/2013 e n. 173/2016, secondo cui se il prelievo a carico delle pensioni viene acquisito «tout court» al bilancio di Stato (o, come avviene nel caso di specie, della Regione Siciliana) ed è, dunque destinato alla fiscalità generale esso si configura come un tributo di natura speciale e, quindi, va ritenuto costituzionalmente illegittimo per violazione degli articoli 3 e 53 della Costituzione.
In sostanza, secondo la Consulta (v. la sentenza n. 173/2016), «il prelievo sulle pensioni, per superare lo scrutinio stretto di costituzionalità e palesarsi, dunque, come misura improntata effettivamente alla solidarietà previdenziale (articoli 2 e 38 della Costituzione), deve operare all’interno del complessivo sistema della previdenza, come misura di solidarietà forte, mirata a puntellare il sistema pensionistico, e di sostegno previdenziale alle categorie più deboli, in un’ottica di mutualità intergenerazionale, siccome imposta da una grave crisi del sistema stesso, indotta da vari fattori, che debbono essere accuratamente ponderati dal legislatore, in modo da conferire all’intervento quella incontestabile ragionevolezza, a fronte della quale soltanto può consentirsi di derogare al principio dell’affidamento in ordine al mantenimento del trattamento pensionistico già maturato».
Ciò posto, la parte appellante ha affermato che la riduzione della pensione in godimento, per effetto dell’imposizione, da parte dell’art. 13, comma 2, della legge regionale n. 13/2014, del tetto di € 160.000,00 annui, appare in contrasto con gli articoli 3 e 53 della Costituzione, essendosi sostanzialmente in presenza dell’introduzione di «un’imposta speciale, sia pure transitoria, gravante soltanto su alcuni trattamenti pensionistici, con conseguente violazione del principio di parità di prelievo a parità di presupposto d’imposta economicamente rilevante».
Inoltre, la parte appellante ha rammentato che nella sentenza n. 173/2016 la Corte costituzionale ha chiaramente affermato anche che l’incidenza del prelievo, benché operato su pensioni elevate, ossia d’ammontare superiore al nucleo essenziale di protezione, rappresentato dalla pensione minima, non dev’essere eccessiva bensì sostenibile e rispettosa del principio di proporzionalità, che è esso stesso criterio, in sé e per sé, di ragionevolezza della misura adottata dal legislatore.
D’altro canto, come sottolineato dalla Consulta nella sentenza n. 116/2013, «i redditi derivanti da trattamenti pensionistici non hanno una natura diversa o «minoris generis» rispetto agli altri redditi presi a riferimento, ai fini dell’osservanza dei precetti contenuti nell’art. 53 della Cost., che non consente trattamenti deteriori di determinate categorie di redditi da lavoro».
Sotto diverso profilo, ad avviso della parte appellante, la riduzione disposta dell’art. 13, comma 2, della legge regionale n. 13/2014 si pone in contrasto con:
il principio di proporzionalità della pensione rispetto alla qualità ed alla quantità del lavoro prestato, livellando irragionevolmente allo stesso tetto di € 160.000,00 annui tutti i trattamenti ad esso superiori, a prescindere dal loro differente, talvolta in maniera notevole, ammontare originario, che era giustificato dalla diversità delle funzioni svolte dai singoli soggetti interessati e dall’ampiezza delle correlative responsabilità;
i principi della certezza del diritto e del legittimo affidamento sulla sicurezza giuridica.
Proseguendo nell’esposizione delle proprie doglianze, la parte appellante ha evidenziato che, rientrando, in base all’art. 17, lett. F, dello Statuto d’Autonomia Speciale, la disciplina del trattamento di quiescenza degli ex dipendenti regionali tra le materie di «competenza legislativa concorrente» tra lo Stato e la Regione Siciliana, il legislatore regionale non potrebbe travalicare i limiti imposti dall’osservanza dei «principi e degli interessi generali cui si informa la legislazione statale».
Orbene, considerato, da un lato, che il legislatore statale, con l’art. 13, del decreto-legge n. 66/2014, convertito in legge n. 89/2014, ha fissato ad € 240.000,00 annui lordi il limite massimo delle retribuzioni dei dipendenti Stato, prevedendo l’obbligo delle Regioni di adeguare i propri ordinamenti al nuovo limite retributivo e disponendo, altresì, che le riduzioni dei trattamenti retributivi, conseguenti all’applicazione del nuovo tetto, «operano ai fini dei trattamenti previdenziali con riferimento alle sole anzianità contributive maturate a decorrere dal 1° maggio 2014», mentre, da un altro lato, lo stesso legislatore statale non ha imposto alcun «tetto» alle pensioni già in godimento, la parte appellante ha affermato che il legislatore regionale avrebbe violato i principi generali fissati dalla legislazione statale, avendo, da un lato, ingiustificatamente abbassato il tetto retributivo dei dipendenti in servizio ad € 160.000,00 annui ed avendo, da un altro lato, esteso «tout court» lo stesso limite alle pensioni, ivi comprese quelle già in godimento.
D’altro canto, l’art. 14, lett. Q, dello Statuto siciliano dispone che lo status giuridico ed economico degli impiegati e dei funzionari della Regione non può essere, in ogni caso, inferiore a quello del corrispondente personale statale (come, peraltro, sottolineato anche dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 105/1981), circostanza che, invece, è venuta a verificarsi nel caso di specie per effetto di quanto stabilito dall’art. 13 della legge regionale n. 13/2014.
Sulla scorta di tali elementi, la parte appellante ha, conclusivamente, chiesto che:
la sua pensione venga ripristinata nell’originario ammontare e venga, altresì, riconosciuto il suo diritto ad ottenere la restituzione delle somme che sono state, nel frattempo, prelevate su di essa in applicazione dell’art. 13, comma 2, della legge regionale n. 13/2014;
come mezzo al fine, venga sollevata questione di legittimità costituzionale di tale normativa per violazione degli articoli 3, 53, 36 e 38 della Cost. nonché degli articoli 17, lett. F, e 14, lett. Q, dello Statuto d’Autonomia Speciale della Regione Siciliana.
Nel costituirsi in giudizio, il Fondo Pensioni Sicilia ha chiesto il rigetto dell’appello proposto dal Di M., apparendo, a suo avviso, condivisibili le argomentazioni che avevano indotto il Giudice di primo grado a reputare manifestamente infondate le questioni di costituzionalità prospettate dalla parte attrice, con particolare riferimento a quelle inerenti la presunta natura tributaria del prelievo disposto sulle pensioni d’ammontare superiore ad € 160.000,00 annui dall’art. 13, comma 2, della legge regionale n. 13/2014.
All’odierna udienza, la parte appellante ha insistito per l’accoglimento delle proprie istanze, sottolineando, altresì, che la vigenza dell’art. 13, comma 2, della legge regionale n. 13/2014 è stata, nel frattempo, prorogata sino al 31 dicembre 2019 dall’art. 1, comma 3, della legge regionale n. 28/2016, venendo, quindi, ad assumere un’efficacia temporale notevolmente estesa e, dunque, palesemente esorbitante rispetto al prospettato soddisfacimento di esigenze finanziarie straordinarie e contingenti dell’Amministrazione regionale.
Il legale del Fondo Pensioni Sicilia s’è, invece, limitato a confermare le conclusioni già formulate per iscritto.
Diritto
Come ampiamente riferito nella «parte in fatto», la controversia oggetto del presente giudizio concerne la legittimità o meno dell’applicazione sulla pensione della parte appellante di quanto disposto dall’art. 13, comma 2, della legge regionale n. 13/2014, secondo cui: «Al fine di conseguire risparmi di spesa attraverso la razionalizzazione della spesa pubblica regionale nonché al fine della salvaguardia degli equilibri di bilancio, per periodo 1° luglio 2014 – 31 dicembre 2016 i trattamenti onnicomprensivi di pensione, compresi quelli in godimento, in tutto od in parte a carico dell’Amministrazione regionale e del Fondo Pensioni Sicilia, non possono superare il tetto di € 160.000,00 annui».
A tal proposito deve rammentarsi che con l’art. 1, comma 3, della legge regionale n. 28/2016 la vigenza del «tetto di € 160.000,00 annui» per le pensioni degli ex dipendenti regionali è stata prorogata per un ulteriore triennio, ossia fino al 31 dicembre 2019. Orbene, secondo la parte appellante, tale normativa presenta vari profili d’incostituzionalità, che sono stati sopra sinteticamente illustrati.
Ad avviso del Collegio Giudicante, le questioni di costituzionalità prospettate risultano indubbiamente rilevanti ai fini della decisione del presente giudizio, ricorrendo così il primo dei requisiti previsti dall’art. 23, comma 2, della legge n. 87/1953, essendo evidente che non è possibile delibare sulla fondatezza della domanda della parte attrice (finalizzata ad ottenere il ripristino della propria pensione nel suo originario ammontare ed il riconoscimento del diritto alla restituzione delle somme che sono state e vengono tuttora prelevate su di essa, in applicazione dell’art. 13, comma 2, della legge regionale n. 13/2014, i cui effetti sono stati prorogati sino al 31 dicembre 2019 dall’art. 1, comma 3, della legge regionale n. 28/2016) a prescindere dalla risoluzione della problematica concernente la legittimità costituzionale della predetta normativa.
Ciò assodato, al fine di verificare se ricorra anche il requisito della «non manifesta infondatezza» delle questioni di legittimità costituzionale prospettate nei riguardi della normativa in esame, il Collegio Giudicante reputa necessario rammentare alcuni fondamentali principi enunziati dalla Corte costituzionale in recenti sentenze, che si sono occupate di problematiche aventi notevole attinenza con quella oggetto del presente giudizio.
Con la sentenza n. 116/2013 la Consulta ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 18, comma 22-bis, del decreto-legge n. 98/2011, convertito in legge n. 111/2011, come modificato dall’art. 24, comma 31-bis, del decreto-legge n. 201/2011, convertito in legge n. 214/2011, il quale aveva disposto che, per il periodo dal 1° agosto 2011 al 31 dicembre 2014, le pensioni erogate dagli Enti gestori di forme di previdenza obbligatoria, aventi ammontare superiore ai 90.000,00 € annui lordi, venissero assoggettate ad un «contributo di perequazione», pari:
al 5%, da applicarsi sullo scaglione da 90.000,00 a 150.000,00 €;
al 10%, da applicarsi sullo scaglione da 150.000,00 a 200.000,00 €;
al 15%, da applicarsi sullo scaglione oltre i 200.000,00 €.
A tal proposito, la Consulta (richiamando talune argomentazioni già esposte nelle proprie precedenti sentenze n. 223/2012 e n. 241/2012) ha riconosciuto la natura tributaria del predetto «contributo di perequazione», trattandosi di un prelievo sostanziamente analogo a quello, già dichiarato incostituzionale, che era stato disposto sul trattamento economico dei dipendenti pubblici; esso veniva ad integrare, infatti, una decurtazione patrimoniale definitiva della pensione, con acquisizione al bilancio statale del relativo ammontare, che presentava tutti i requisiti richiesti dalla giurisprudenza costituzionale per potersi qualificare il prelievo come tributario (v. le sentenze n. 223/2012, n. 141/2009, nn. 64, 102 e 335 del 2008, n. 334/2006, n. 73/2005).
In particolare, secondo la Corte costituzionale:
la norma di cui all’art. 18, comma 22-bis, violava gli articoli 3 e 53 della Cost., configurandosi come un intervento impositivo irragionevole e discriminatorio a danno di una sola categoria di cittadini, i pensionati, senza garantire l’osservanza del principio di eguaglianza a parità di reddito, e ciò attraverso un’irrazionale limitazione della platea dei soggetti passivi;
i redditi da pensione non hanno, infatti, una natura diversa o «minoris generis» rispetto agli altri redditi, ai fini dell’osservanza dell’art. 53 della Cost.;
l’applicazione di un tributo non può prescindere da un indefettibile raccordo con la capacità contributiva, in un quadro di sistema informato a criteri di progressività, come esplicazione del principio di eguaglianza;
appariva pertanto, irragionevole il diverso trattamento tra pensionati e contribuenti in generale;
d’altro canto, se l’eccezionalità della situazione economica dello Stato è suscettibile di consentire il ricorso a strumenti eccezionali, ciò non può determinare l’obliterazione dei fondamentali canoni di eguaglianza, su cui si fonda l’ordinamento costituzionale;
l’irragionevolezza dell’intervento settoriale in questione risultava, dunque, palese, considerato anche che la pensione ha natura di «retribuzione differita», di modo che il maggior prelievo tributario rispetto ad altre categorie appariva ancor più discriminatorio, in quanto gravante su redditi consolidati nel loro ammontare, di pertinenza di cittadini che avevano ormai terminato la loro vita lavorativa.
Con la sentenza n. 114/2017 la Consulta s’è pronunziata in ordine alla legittimità costituzionale:
della disciplina dettata in materia di «tetto retributivo» nel comparto pubblico (attualmente fissato in € 240.000,00 annui lordi, pari alla retribuzione spettante al Primo Presidente della Corte di Cassazione) dell’art. 23-ter del decreto-legge n. 201/2011, convertito, con modificazioni, nella legge n. 214/2011, e dall’art. 13, comma 1, del decreto-legge n. 66/2014, convertito, con modificazioni, nella legge n. n. 89/2014; dell’art. 1, comma 489, della legge n. 147/2013, che ha imposto il limite di € 240.000,00 annui anche al cumulo di pensioni e retribuzioni, fruite da un medesimo soggetto con oneri gravanti sulle finanze pubbliche.
a tal proposito, la Corte costituzionale ha evidenziato, tra l’altro, che: l’imposizione di un limite massimo, sia per le retribuzioni del settore pubblico sia per il cumulo di retribuzioni e pensioni, si inscrive in un contesto di risorse finanziarie limitate, che debbono essere ripartite in maniera congrua e trasparente;
il limite delle risorse disponibili, immanente al settore pubblico, vincola il legislatore a scelte coerenti, preordinate a bilanciare molteplici valori di rango costituzionale, quali la parità di trattamento (art. 3 Cost.), il diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità ed alla qualità del lavoro svolto e, comunque, idonea a garantire un’esistenza libera e dignitosa (art. 36, comma 1, Cost.), il diritto ad un’adeguata tutela previdenziale (art. 38, comma 2, Cost.);
in tale contesto, anche la disciplina del cumulo di pensioni e retribuzioni viene ad interferire con molteplici valori di rango costituzionale, tra cui il diritto ad una prestazione previdenziale proporzionata all’attività svolta.
Ciò posto, la Consulta ha affermato che nel settore pubblico non è precluso al legislatore fissare un limite massimo alle retribuzioni ed al cumulo di retribuzioni e pensioni, a condizione che la scelta, volta a bilanciare i diversi valori coinvolti, non sia manifestamente irragionevole.
In tale ottica, si richiede il rispetto di requisiti rigorosi, che salvaguardino l’idoneità del limite così fissato a garantire un adeguato e proporzionato contemperamento degli interessi contrapposti; infatti, il fine prioritario della razionalizzazione della spesa pubblica deve tener conto delle risorse finanziarie concretamente disponibili, senza, però, svilire il lavoro prestato da chi esprime professionalità elevate.
La Consulta ha, quindi, ritenuto che l’imposizione alle retribuzioni del settore pubblico del tetto massimo di € 240.000,00 annui non può considerarsi costituzionalmente illegittima, in quanto essa persegue finalità di contenimento e di complessiva razionalizzazione della spesa, in una prospettiva di garanzia degli altri interessi generali coinvolti.
D’altronde, la non irragionevolezza delle scelte del legislatore viene corroborata dalla valenza generalizzata del limite retributivo così fissato, in quanto previsto come misura di razionalizzazione suscettibile d’imporsi indistintamente a tutti gli apparati amministrativi.
Considerazioni sostanzialmente analoghe sono state espresse dalla Consulta con riferimento alla legittimità costituzionale del limite di cumulabilità, anch’esso fissato ad € 240.000,00 annui, di retribuzioni e pensioni.
Con la sentenza n. 173/2016 la Corte Costituzionale, nel dichiarare l’infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale sollevate relativamente all’art. 1, comma 486, della legge n. 147/2013 (legge di stabilità per il 2014), disciplinante l’applicazione del «contributo di solidarietà» sulle pensioni da 91.216,51 € in su, ha affermato che:
il contributo di solidarietà in questione non riveste natura d’imposta, in quanto non è acquisito direttamente dallo Stato per essere destinato alla fiscalità generale, venendo, invece, prelevato dall’I.N.P.S. e dagli altri Enti previdenziali interessati, che lo trattengono all’interno delle proprie gestioni per il perseguimento di finalità solidaristiche endo-previdenziali, anche per quanto concerne i trattamenti destinati ai lavoratori cosiddetti «esodati»;
trattasi, dunque, di un prelievo inquadrabile nel genus delle «prestazioni patrimoniali imposte per legge», di cui all’art. 23 della Cost., avente la finalità di contribuire al contenimento degli ingenti oneri finanziari del sistema previdenziale ed al suo riequilibrio;
d’altronde, in linea di principio, l’applicazione di un contributo di solidarietà sulle pensioni è misura consentita al legislatore, ove non travalichi i limiti della ragionevolezza, dell’affidamento e della tutela previdenziale, di cui agli articoli 3 e 38 della Cost.;
il contributo deve, dunque, operare all’interno dell’ordinamento previdenziale, come misura di solidarietà forte, mirata a puntellare il sistema pensionistico, e di sostegno previdenziale alle categorie più deboli, siccome imposta da una grave crisi del sistema stesso, indotta da vari fattori, che debbono essere accuratamente ponderati dal legislatore, in modo che l’intervento sia ragionevole e consenta di derogare al principio dell’affidamento in ordine alla conservazione della pensione conseguita;
in tale contesto, il contributi di solidarietà deve avere le caratteristiche dell’eccezionalità e della temporaneità;
il prelievo deve incidere sulle pensioni elevate, ossia quelle d’ammontare superiore al nucleo essenziale di protezione, rappresentato dalla pensione minima; in ogni caso, non dev’essere eccessivo ma sostenibile e rispettoso del principio di proporzionalità.
La Corte ha, conclusivamente, ribadito che il contributo di solidarietà, onde superare lo «scrutinio stretto di costituzionalità» e palesarsi come misura improntata effettivamente alla solidarietà previdenziale (in conformità agli articoli 2 e 38 della Cost.), deve:
operare all’interno del complessivo sistema della previdenza;
essere imposto dalla crisi contingente e grave di tale sistema;
incidere sulle pensioni più elevate;
presentarsi come prelievo sostenibile;
rispettare il principio di proporzionalità;
essere utilizzato come misura una tantum.
Secondo la Corte Costituzionale, tali condizioni appaiono, sia pur al limite, rispettate dal contributo di solidarietà introdotto dall’art. 1, comma 486, della legge n. 147/2013, dato che:
esso opera all’interno del sistema previdenziale, che concorre a finanziare in un momento di grave crisi del sistema stesso, in cui s’è manifestata anche l’esigenza di tutelare gli «esodati»;
riguarda le pensioni più elevate, incidendo su di esse in base ad aliquote crescenti, nel rispetto, dunque, del criterio di proporzionalità e, tenuto conto della temporaneità, anche di quello di sostenibilità del sacrificio economico imposto.
Ciò posto, vagliando le doglianze prospettate dalla parte appellante nei riguardi dell’art. 13, comma 2, della legge regionale n. 13/2014, il Collegio Giudicante reputa che il prelievo che è stato imposto sulle pensioni regionali d’importo superiore ad € 160.000,00 annui, al fine di ricondurne l’ammontare massimo a tale cifra, non appare conforme ai principi elaborati dalla giurisprudenza costituzionale sopra illustrata.
In primo luogo, si osserva che il prelievo in questione presenta indubbiamente le caratteristiche che la Corte costituzionale ha individuato come denotanti la tipica natura tributaria, consistenti: nella ricorrenza di una prestazione patrimoniale imposta in mancanza di un rapporto sinallagmatico intercorrente tra le parti, avente un palese collegamento alla spesa pubblica in relazione ad un presupposto economicamente rilevante (v., ex plurimis, le sentenze n. 223/2012, n. 141/2009, nn. 64, 102 e 335 del 2008, n. 334/2006, n. 73/2005).
Infatti, appare evidente che l’art. 13, comma 2, della legge regionale n. 13/2014, la cui vigenza è stata prorogata sino al 31 dicembre 2019 dall’art. 1, comma 3, della legge regionale n. 28/2016, ha disposto una sorta di «prelievo forzoso», comportante un rilevante sacrificio economico individuale, su determinate pensioni, da attuarsi mediante un atto autoritativo di carattere ablatorio, con dichiarata destinazione del relativo gettito al conseguimento di generici risparmi di spesa ed al soddisfacimento di, non meglio precisate, esigenze di riequilibrio del bilancio regionale.
In particolare, le sole pensioni su cui viene concretamente ad incidere il prelievo in questione sono quelle d’ammontare superiore ad € 160.000,00 annui, in godimento di una ristretta cerchia di ex dirigenti regionali, pensioni i cui oneri finanziari gravano direttamente ed esclusivamente sul bilancio della Regione Siciliana, come si evince dall’art. 15 della legge regionale 14 maggio 2009, n. 6, istitutiva del «Fondo Pensioni Sicilia», che dispone espressamente, al comma 8, che: «L’onere del trattamento di quiescenza per il personale di cui ai commi 2 e 3 dell’art. 10 della legge regionale n. 21/1986 (ossia i soggetti rientranti nell’ambito del cosiddetto “contratto 1”, in quanto assunti in servizio anteriormente al 9 maggio 1986) è totalmente a carico del bilancio della Regione, che provvede ai relativi pagamenti tramite il Fondo Pensioni Sicilia, attraverso appositi trasferimenti delle risorse inanziarie occorrenti».
Va, peraltro, rammentato che lo stesso Fondo Pensioni Sicilia, con la nota n. 7835 del 2 marzo 2016, ha riferito che:
i risparmi di spesa derivanti dall’applicazione dell’art. 13, comma 2, della legge regionale n 13/2014 hanno un’immediata ripercussione sulla spesa sostenuta dalla Regione in materia previdenziale, in quanto la medesima si trova ad effettuare minori trasferimenti al Fondo per materiale pagamento delle pensioni in favore degli ex dipendenti regionali rientranti nell’ambito del cosiddetto “Contratto 1”;
tale norma è, quindi, volta a contribuire alla razionalizzazione della complessiva spesa pubblica regionale ed alla salvaguardia dei relativi equilibri di bilancio.
Sulla scorta di tali elementi, appare, quindi, del tutto evidente che il gettito del prelievo imposto sulle pensioni d’ammontare superiore ad € 160.000,00 annui non resta affatto nell’ambito del circuito previdenziale, in vista del perseguimento di finalità solidaristiche e/o perequative interne a tale sistema, così come, invece, ritenuto necessario, onde evitare l’insorgenza di profili d’incostituzionalità, dalla Consulta nella sentenza n. 173/2016, che s’è occupata della tematica del «contributo di solidarietà», disposto sulle pensioni dall’art. 1, comma 486, della legge n. 147/2013.
Risulta, infatti, che il gettito derivante dall’applicazione dell’art. 13, comma 2, della legge regionale n. 13/2014 comporta meri risparmi in favore del bilancio regionale, in vista del perseguimento di generici obiettivi di riequilibrio finanziario, senza, peraltro, arrecare alcun concreto vantaggio al sistema previdenziale vigente per gli ex dipendenti regionali.
Ravvisata, dunque, la natura sostanzialmente tributaria della disposizione recata dall’art. 13, comma 2, della legge regionale n. 13/2014, deve ritenersi che, nel formulare tale norma, il legislatore regionale non avrebbe potuto prescindere dall’osservanza dei fondamentali principi di ragionevolezza e di eguaglianza, di cui all’art. 3 della Costituzione, nonché di quelli di universalità dell’imposizione, di correlazione del prelievo con la capacità contributiva e di progressività, sanciti dall’art. 53 della Costituzione, la cui inderogabilità è stata, come sopra rammentato, ribadita dalla Code Costituzionale nella sentenza n. 116/2013 (che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del prelievo disposto sulle pensioni d’ammontare superiore a 90.000,00 € annui dall’art. 18, comma 22-bis, del decreto-legge n. 98/2011, convertito in legge n. 111/2011, come modificato dall’art. 24, comma 31-bis, del decreto-legge n. 201/2011, convertito in legge n. 214/2011).
D’altronde, come affermato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 124/2017 (la quale s’è pronunziata sulle disposizioni riguardanti l’ammontare del tetto massimo, fissato in € 240.000,00 annui, sia per le retribuzioni del settore pubblico sia per il cumulo di retribuzioni e pensioni), il legislatore, nel perseguire gli obiettivi del contenimento e della razionalizzazione della spesa pubblica, imposti dalle limitate risorse finanziarie disponibili in un contesto di grave e persistente crisi economica, rimane, comunque, sempre obbligato ad effettuare scelte coerenti e preordinate a bilanciare, con l’osservanza dell’inderogabile principio di ragionevolezza, molteplici valori di rango costituzionale, tra cui la parità di trattamento (art. 3 Cost.), il diritto ad una retribuzione (nonché ad una pensione, intesa quale «retribuzione differita») proporzionata alla quantità ed alla qualità del lavoro prestato e, comunque, idonea a garantire un’esistenza libera e dignitosa (art. 36, comma 1, Cost.), il diritto ad un’adeguata tutela previdenziale (art. 38, comma 2, Cost.).
Orbene, nella fattispecie in esame risulta che, nell’imporre il tetto massimo di € 160.000,00 annui alle pensioni, il legislatore regionale non s’è curato d’effettuare alcun ponderato bilanciamento dei molteplici valori di rango costituzionale in gioco.
Tale «speciale intervento impositivo», di natura sostanzialmente tributaria, appare, dunque, irragionevole e discriminatorio, in quanto e venuto a gravare esclusivamente su una ristrettissima cerchia di pensionati regionali, senza garantire l’osservanza dei principi generali di eguaglianza a parità di reddito e di capacità contributiva, di cui agli articoli 3 e 53 della Costituzione.
D’altro canto, il prelievo operato in applicazione dell’art. 13, comma 2, della legge regionale n. 13/2014, pur incidendo su pensioni di elevato ammontare, non rispetta affatto i principi di proporzionalità e d’adeguatezza, di cui al combinato disposto degli articoli 36, comma 1, e 38, comma 2, della Cost., del trattamento di quiescenza (costituente, com’è noto, una forma di «retribuzione differita») alla qualità ed alla quantità del lavoro prestato (principi la cui osservanza dev’essere garantita anche dopo il collocamento a riposo del lavoratore interessato); infatti, tale prelievo ha l’effetto di livellare irragionevolmente allo stesso tetto di € 160.000,00 annui (peraltro, individuato dal legislatore regionale senza riferimento ad alcun congruo parametro oggettivo, come, invece, ritenuto necessario dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 124/2017) tutti indistintamente i trattamenti di quiescenza ad esso superiori, a prescindere dai loro differenti importi originari, che erano giustificati essenzialmente dalla diversità delle funzioni svolte dai singoli soggetti interessati e dall’ampiezza delle correlative peculiari responsabilità ricoperte in seno all’Amministrazione, nonché a prescindere dalle diversità in termini di anzianità vantate e di importi versati da ciascuno per contributi previdenziali.
In tal modo, il prelievo in esame è venuto indubbiamente a frustrare, in assenza di specifiche ed eccezionali esigenze, anche l’affidamento sulla sicurezza giuridica, che il pensionato interessato aveva legittimamente maturato in ordine alla stabilità del proprio trattamento di quiescenza, in quanto liquidato dall’Amministrazione in conformità alla normativa vigente all’epoca della sua cessazione dal servizio.
Il medesimo prelievo non presenta, peraltro, neppure il requisito della «agevole sostenibilità», che è stato ritenuto indispensabile dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 173/2016, in quanto esso comporta una rilevante e talvolta ingente decurtazione dell’ammontare dell’originario trattamento pensionistico in godimento.
D’altronde, essendo stato prorogato, mediante l’art. 1, comma 3, della legge regionale n. 28/2016, per un ulteriore triennio e, dunque, avendo assunto (salve eventuali ulteriori proroghe) un’estensione temporale di ben cinque anni e sei mesi (dal luglio 2014 al dicembre 2019), tale prelievo non risulta affatto configurabile, come, invece, reputato necessario dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 173/2016, come una misura eccezionale, adottata «una tantum» per sopperire a specifiche e comprovate esigenze straordinarie e contingenti, apparendo, invece, come uno strumento ormai ordinariamente utilizzato dalla Regione Siciliana per reperire risorse finanziarie, con oneri posti a carico esclusivamente di una ristretta cerchia di pensionati e senza, peraltro, produrre alcun concreto vantaggio per il complessivo sistema previdenziale regionale.
D’altro canto, considerato che una normativa analoga a quella introdotta dal legislatore regionale siciliano (ossia l’imposizione di un tetto massimo di € 160.000,00 sui trattamenti di quiescenza) non trova attualmente alcun riscontro nei confronti degli altri pensionati italiani, sia del settore pubblico che di quello privato, appare evidente l’irrazionale effetto discriminatorio che s’è venuto a produrre a carico dei pensionati della Regione Siciliana, con conseguente insorgenza di un ulteriore profilo di violazione del principio di eguaglianza, sancito dall’art. 3 della Costituzione.
Il Collegio Giudicante reputa, conclusivamente, che le predette questioni riguardanti la legittimità costituzionale dell’art. 13, comma 2, della legge Regionale Siciliana n. 13 dell’11 giugno 2014 e dell’art. 1, comma 3, della legge Regionale Siciliana n. 28 del 29 dicembre 2016 siano non soltanto rilevanti per la decisione della presente causa ma anche non manifestamente infondate, ragion per cui esse, previa sospensione del giudizio pendente dinanzi a questa Sezione d’Appello della Corte dei Conti per la Sicilia, vanno rimesse alla Corte Costituzionale ai sensi dell’art. 134 della Costituzione, dell’art. 1 della legge costituzionale n. 1 del 1948 e dell’art. 23 della legge n. 87 del 1953.
P.Q.M.
Non definitivamente pronunziando:
dichiara rilevanti a non manifestamente infondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 13, comma 2, della legge della Regione Siciliana n. 13 dell’11 giugno 2014 e dell’art. 1, comma 3, della legge della Regione Siciliana n. 28 del 29 dicembre 2016, per contrasto con gli articoli 3, 36, 38 e 53 della Costituzione, secondo quanto specificato in motivazione;
sospende il giudizio in corso, in attesa della pronunzia della Corte Costituzionale su tali questioni;
dispone che la Segreteria di questa Sezione notifichi la presente ordinanza alle parti in causa, al Presidente del Consiglio dei ministri ed al Presidente della Giunta Regionale Siciliana e ne dia, altresì, comunicazione al Presidente del Senato della Repubblica, al Presidente della Camera dei Deputati ed al Presidente del Consiglio Regionale della Sicilia;
ordina alla Segreteria di trasmettere gli atti, unitamente alle prove delle notificazioni e delle comunicazioni sopra indicate, alla Corte costituzionale.
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