Corte di Appello di Bari sentenza n. 614 depositata il 13 marzo 2018
LAVORO – RAPPORTO DI LAVORO – IMPIEGATI COMUNALI, PROVINCIALI E REGIONALI – PUBBLICO IMPIEGO PRIVATIZZATO – RECESSO DURANTE IL PERIODO DI PROVA – GIUSTIFICAZIONE DEL MOTIVO – NECESSITA’ – ESCLUSIONE – LIMITI
RAGIONI IN FATTO E IN DIRITTO DELLA DECISIONE
Con reclamo depositato in data 22.5.2015, S.N., premesso di essere stato assunto in data 30.12.2009 come operatore di Polizia Municipale del Comune di San Severo, impugnava il licenziamento intimatogli il 24.6.2010 per mancato superamento del periodo di prova.
A sostegno del ricorso, deduceva: la nullità del patto di prova; l’omessa comunicazione di avvio del procedimento di licenziamento; la natura persecutoria del recesso datoriale, poiché determinato da ragioni personali estranee al contesto lavorativo.
Tanto premesso chiedeva la reintegra nel posto di lavoro, con condanna del Comune alla corresponsione di tutto quanto dovutogli a titolo di risarcimento e/o retribuzione dalla data del licenziamento sino a quella della reintegra.
Si costituiva il Comune di San Severo chiedendo il rigetto integrale delle avverse domande.
Il Tribunale di Bari, con ordinanza del 30.07.2015 rigettava il ricorso.
A seguito di opposizione proposta dallo S.N., la stessa veniva rigettata dal Tribunale, con la sentenza del 24.11.2017.
Avverso la stessa proponeva quindi reclamo S.N. con ricorso depositato il 19.12.2017.
Il reclamato si costituiva.
In via preliminare deve essere ricostruita la vicenda fattuale, quale emergente dalle rispettive prospettazioni difensive delle parti.
Con il ricorso proposto, l’odierno reclamante deduceva: l’inefficacia del licenziamento perché adottato da persona non abilitata, ovvero dal Dirigente; che a quest’ultimo spettavano solo compiti relativi agli atti di amministrazione e gestione del personale; che il licenziamento poteva essere irrogato dal datore di lavoro ovvero solo da un suo dirigente con specifiche deleghe; che si trattava di atti di organizzazione del personale incidenti sullo status del pubblico impiegato; l’incompetenza dell’organo che aveva disposto il licenziamento dell’appellante, ovvero il dirigente del Personale; che la competenza all’adozione di tale decisione era in capo alla Giunta Comunale; la natura discrezionale del recesso durante il periodo di prova, nonché la vaga motivazione dello stesso; che l’onere della prova in casi di illegittimo licenziamento gravava sul datore di lavoro e che i testi nulla avevano provato in tal senso; la disparità di trattamento rispetto a quanto accaduto in un caso analogo, con il vigile In..
Il nucleo fondante del decisum foggiano, sul quale si appuntano i motivi di censura del reclamante è la legittimità dell’atto di recesso dal contratto individuale di lavoro da parte del Comune, poiché sottoscritto dal dirigente competente e l’assenza di qualsivoglia prova in ordine all’asserita natura ritorsiva o illecita di detto recesso.
Questa Corte condivide con il primo giudice la delibazione in ordine alla natura giuridica del recesso, da parte del Comune, dal contratto individuale di lavoro subordinato a tempo indeterminato stipulato in data 30.12.2009 con il reclamante, per mancato superamento del periodo di prova.
E’ incontestabile che l’atto di recesso del Comune rientri tra gli atti di gestione del personale assunti dai dirigenti competenti, i quali possiedono “le capacità e i poteri del privato datore di lavoro”, ai sensi dell’art. 5, co. 2, D.Lgs. 165/2001.
Infatti la predetta norma stabilisce che “le determinazioni per l’organizzazione degli uffici e le misure inerenti alla gestione dei rapporti di lavoro sono assunte in via esclusiva dagli organi preposti alla gestione con la capacità e i poteri del privato datore di lavoro (…)”; dello stesso tenore è poi il co. 3 dell’art. 107 TUEL, applicabile al caso di specie, secondo cui “sono attribuiti ai Dirigenti tutti i compiti di attuazione degli obiettivi e dei programmi definiti con gli atti di indirizzo adottati dai medesimi organi, tra i quali in particolare, secondo le modalità stabilite dallo statuto o dai regolamenti dell’ente: (….) e) gli atti di amministrazione e gestione del personale”.
In un caso analogo, in cui il recesso veniva firmato, oltre che dal Dirigente competente, anche dal Sindaco, la Suprema Corte ha statuito che “Il D.Lgs. n. 29 del 1993, art. 3, come sostituito prima dal D.Lgs. n. 470 del 1993, art. 2, poi dal D.Lgs. n. 80 del 1998, art. 3 e successivamente modificato dal D.Lgs. 29 ottobre 1998, n. 387, art. 1, ed infine trasfuso nel D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, art. 4, attribuisce agli organi di governo le funzioni di indirizzo politico-amministrativo; a sua volta la L. 8 giugno 1990, n. 142, art. 51, ripreso dal D.Lgs. 18 agosto 2000, n. 267, art. 107, attribuisce ai dirigenti la direzione degli uffici e dei servizi secondo i criteri e le norme dettati dagli statuti e dai regolamenti che si uniformano al principio per cui i poteri di indirizzo e di controllo spettano agli organi elettivi mentre la gestione amministrativa è attribuita ai dirigenti; precisa la Suprema Corte, che nel caso di specie l’atto di recesso è sottoscritto dal dirigente competente, che con la propria firma si è assunto la responsabilità dell’atto, e risulta pertanto sotto tale profilo legittimo” (Cass., Sez. Lav., n. 13455/2006).
In ordine alla natura giuridica del recesso per mancato superamento del periodo di prova, questa Corte, preso atto della specialità della disciplina relativa al momento genetico del rapporto di lavoro alle dipendente delle pubbliche amministrazione, regolato dal principio fondamentale dell’accesso mediante pubblico concorso (art. 97 Cost.), nonché della peculiarità secondo cui tutte le assunzioni alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche sono assoggettate all’esito positivo di un periodo di prova ex lege (Cass. n. 21586/2008), rileva che in tali ultimi rapporti di lavoro “privatizzati”, il recesso del datore di lavoro nel corso del periodo di prova ha natura discrezionale e dispensa dall’onere di provarne la giustificazione (Cass. n. 16224/2013).
Questo Collegio, rileva, tuttavia, che anche nel lavoro pubblico, qual è il caso di specie, l’esercizio del potere di recesso deve essere coerente con la causa del patto di prova, consistente nel consentire alle parti del rapporto di lavoro di verificarne la reciproca convenienza, sicché non è configurabile un esito negativo della prova ed un valido recesso solo qualora le modalità dell’esperimento non risultino adeguate ad accertare la capacità lavorativa del prestatore in prova, ovvero risulti il perseguimento di finalità discriminatorie o altrimenti illeciti (Cass. n. 21586/2008).
L’odierno reclamante ha dedotto, nel caso di specie, un motivo illecito determinante alla base del recesso: contrariamente a quanto dallo stesso asserito, è sul lavoratore che incombe l’onere di dimostrare la contraddizione tra recesso e funzione dell’esperimento o anche la sussistenza del motivo illecito del licenziamento (Cass. 655/2015).
Nel caso di specie, lo S.N. non ha affatto provato l’imputabilità del recesso a ragioni estranee al mancato superamento della prova né la sussistenza del motivo illecito, nemmeno a mezzo di presunzioni gravi, precise e concordanti.
Questa Corte condivide quindi la valutazione delle risultanze istruttorie effettuata dal primo giudice: dalla documentazione agli atti nonché dalle dichiarazioni dei testi è infatti emersa la coerenza delle ragioni del recesso del Comune con la finalità della prova, stante la difficoltà di inserimento dello S.N. nell’ambiente lavorativo, nonché i reiterati episodi di contrasto con i superiori gerarchici.
In riferimento ai fatti posti a fondamento del recesso e riportati nella scheda di valutazione del 19.6.2010, occorre rilevare che del reiterato rifiuto di attenersi alle regole in materia di abbigliamento dell’agente di Polizia Municipale, ha riferito il teste Cu. (già funzionario P.M.): “In una circostanza vidi S.N. senza divisa ma solo con la pettorina; in riferì che aveva i pantaloni della divisa sporchi (…) Preciso che i pantaloni erano tre e tutti e tre erano sporchi. Portati in lavanderia non li ritirò; dopo qualche giorno la sig.ra della lavanderia mi telefonò riferendomi quello che S.N. aveva detto a lei – con calma tienili quanto vuoi -. Provai pertanto a ritirarli io (…). Preciso che S.N. non aveva buoni per il ritiro in lavanderia. Ho comunicato, via radio, appena ritirati da me i pantaloni in lavanderia, a S.N. che i pantaloni erano e potevano essere ritirati in caserma ma lui si rifiutò sostenendo che io non avrei dovuto ritirarli. Pertanto consegnai i pantaloni al Comandante”.
Dette affermazioni trovano riscontro nella deposizione del teste Sa., il quale ha riferito di “difficoltà di inserimento dello stesso” che circa 10 verbali su 100 furono annullati “per mancata indicazione degli articoli e degli orari”.
Orbene, dalle dichiarazioni del teste Sa. e del teste Cu. – ritenute attendibili alla stregua di elementi di natura oggettiva e soggettiva, stante la completezza e la precisione delle stesse nonché l’assenza di intrinseche contraddizioni – trovanti puntuale riscontro anche in quelle del C. in ordine al mancato utilizzo della divisa, congiuntamente alla produzione documentale in atti, traspare il comportamento conflittuale assunto dallo S.N. nei confronti dei colleghi nonché il profilo negativo dello stesso sul versante della professionalità.
Questa Corte ritiene pertanto del tutto insussistente l’asserita natura ritorsiva e illecita del recesso, peraltro meramente dedotta, e nient’affatto provata, dall’odierno reclamante.
Come noto infatti, l’onere di deduzione e prova circa la natura ritorsiva e discriminatoria del recesso, grava sulla parte che deduce tali profili di illiceità (cfr., ex multis, Cass. n. 17087 dell’8.8.2011 e Cass. n. 14816 del 14.7.2005; nonché Cass. n. 10047 del 25.5.2004).
Da ultimo, inconferenti sono le deduzioni dello S.N. in ordine al trattamento discriminatorio rispetto al vigile In., stante l’assenza di specifica prova in ordine ai fatti costitutivi della presunta disparità di trattamento, e rientrante comunque nel potere di valutazione discrezionale dell’amministrazione datrice di lavoro.
Per tutto quanto esposto, il reclamo deve essere quindi rigettato e la sentenza reclamata confermata.
Le spese seguono la soccombenza e si liquidano, come da dispositivo.
L’appellante va altresì condannata al pagamento, ai sensi del D.P.R. 115/2002, dell’ulteriore somma a titolo di contributo unificato pari a quella già versata per il ricorso.
P.Q.M.
La Corte d’ Appello Sezione Lavoro
rigetta il reclamo proposto da S.N. con ricorso depositato in data 19.12.2017, avverso la sentenza resa in data 24 novembre 2017 dal Tribunale di Foggia, giudice del lavoro, nei confronti del Comune di San Severo; per l’effetto conferma la impugnata sentenza; condanna S.N. al pagamento, in favore del reclamato, delle spese di gravame liquidate in Euro 3.400,00, oltre accessori di legge; dichiara altresì l’appellante tenuto al versamento dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello già versato per il ricorso in appello.