Corte di Appello di Bari sentenza n. 76 depositata il 23 febbraio 2018
LAVORO – RAPPORTO DI LAVORO – SICUREZZA SUL LAVORO – MALATTIA PROFESSIONALE – L’ESISTENZA DI UN NESSO CAUSALE TRA “IL LAVORO SVOLTO” E “LA PATOLOGIA CONTRATTA” – ONERE DELLA PROVA – DANNI CORRELATI ALL’EPATITE CRONICA – NON SUSSISTE
RAGIONI IN FATTO E IN DIRITTO DELLA DECISIONE
I. Con sentenza del 13.4.12 il Giudice del Tribunale di Trani rigettava la domanda, proposta da Ba. Pa. e Vi. Ad., in proprio e in qualità di eredi del defunto dante causa Vi. Fr., nei confronti di Comune di Ruvo di Puglia, (che aveva chiamato in causa la UNIPOL) con ricorso del 10.10.12 per il risarcimento del danni correlati all’epatite cronica subiti a causa dell’attività lavorativa svolta dal Vi., già dipendente del Comune convenuto dal 1.5.82 al 28.6.06 con mansioni infermieristiche, deceduto il 13.8.06 a causa di epatocarcinoma.
Avverso detta sentenza l’appellante interponeva gravame, con ricorso del 25.5.15 e chiedeva, in riforma della decisione impugnata, l’accoglimento della domanda attorea.
Gli appellati si costituivano per invocare il rigetto del gravame.
Veniva disposta ed espletata una CTU medico-legale.
All’odierna udienza la causa era decisa come da dispositivo.
L’appellante censura l’impugnata sentenza per i motivi di seguito esaminati.
II. In primo luogo censura la decisione del Tribunale di separare la causa relativa alla richiesta di risarcimento del danno proposta jure proprio da quella proposta jure hereditatis dalle odierne appellanti, deducendo che la questione era stata sollevata d’ufficio.
Conseguentemente deduce che sussisteva una nesso di accessorietà tra i danni richiesti jure proprio e quelli chiesti jure hereditatis per cui entrambe le domande andavano trattate con il rito del lavoro.
Con il secondo motivo di gravame censura la sentenza per avere escluso l’esistenza di un nesso causale tra “il lavoro svolto” e “la patologia contratta” ricorrendo al principio della “necessaria certezza”, mentre avrebbe dovuto far riferimento al più tenue “principio della preponderanza dell’evidenza o del più probabile che non”.
In particolare, censurava la sentenza perchè il Tribunale avere ritenuto che i testi non avevano riferito un episodio in particolare in cui il Vi. si sarebbe infortunato, mentre invero i testi P. e L. avevano riferito che tra il 1999 e il 2000 il lavoratore si era punto con siringhe usate per i pazienti; nonchè gli esami del sangue del 30.8.2001, successivi quindi agli infortuni riferiti dai testi, avevano confermato la positività all’HBV.
Inoltre, l’attività infermieristica di terapie endovenose a pazienti anziani e psicologicamente labili costituisce un “rischio generico aggravato” di cui il primo Giudice non aveva tenuto conto.
Ancora, erroneamente il Tribunale avrebbe rilevato che nessuno dei testi aveva indicato quanti fossero i pazienti affetti da HVB e in che periodo fossero stati ricoverati, in quanto nel caso di specie, trattandosi di una responsabilità contrattuale ex art. 2087 c.c., il Comune era onerato della prova di avere apprestato tutte le misure per evitare il danno.
Inoltre, una volta accertato in base alle testimonianze che il Vi. si era punto con aghi usati nel 1999/2000 e che nel 2001 era risultato positivo all’HBV, la sussistenza del nesso causale tra prestazione lavorativa e patologia epatica era da accertare in base al principio del “più probabile che non”.
Ancora, l’appellante censurava la sentenza perchè il Tribunale aveva rilevato la mancanza di denuncia amministrativa all’INAIL.
Tanto era accaduto perchè il Tribunale avendo omesso i controlli di legge prima del 2001, non aveva conosciuto la positività del dipendente all’HBV. Peraltro, nel controllo del 2001 la positività venne considerata come fonte di infezione non più attiva.
Inoltre, la mancata denuncia all’INAIL non impedisce la richiesta del risarcimento del danno al datore di lavoro, sempre con la detrazione del potenziale differenziale.
Infine, l’appellante lamenta che il Tribunale avrebbe errato nel ritenere che “neppure la risposta del CTU nel fare risalire l’epoca del contagio al periodo 1982 anzichè a quello antecedente appare convincente in quanto priva di elementi probatori certi da cui poter attingere”.
Deduceva a tal proposito che il Vi. aveva lavorato dal 1.5.82 al 28.6.06 presso la Casa di Riposo “M. Spada” appartenente al Comune di Ruvo; che inizialmente aveva lavorato alle dipendenze dell’IPAB che gestiva la casa di riposo e che poi il Comune era succeduto a titolo universale all’IPAB in questione e quindi era subentrato in tutti i rapporti giuridici della estinta IPAB Casa di Cura.
Il Tribunale aveva ipotizzato che non potesse escludersi che la patologia fosse anteriore al 1982 sulla base di un ricordo vago della moglie dell’istante che aveva riferito al CTU che il marito aveva lavorato presso vari nosocomi della zona di residenza “dal 1979” senza altre precisazioni.
Al contrario la responsabilità del Comune emergeva da un dato specifico e cioè dalla circostanza segnalata dallo stesso CTU che nella casa di riposo il defunto aveva avuto contatti con soggetti anziani, all’epoca non vaccinati.
Sicchè, anche alla luce delle precedenti considerazioni sulle punture riferite dai testi e il rilevamento della positività all’HBV, il Tribunale non aveva certo argomentato adeguatamente il motivo per cui si era discostato dalle conclusioni del CTU nominato.
III. Con il secondo motivo di gravame, l’appellante lamenta l’erroneità della sentenza con riferimento alla mancata adozione delle speciali misure antiinfortunistiche.
Infatti, sostiene che le istanti avevano adempiuto all’onere di allegare il mancato adempimento delle misure di protezione dei lavoratori (uso di guanti antitaglio, di mascherine, aghi monouso retrattili, idonei contenitori dei rifiuti etc).
Mentre il datore di lavoro non aveva provato l’uso di tutte le misure di sicurezza a tutela dei lavoratori.
In particolare, la documentazione allegata dal resistente aveva ad oggetto la fornitura di materiali sanitari diversi da quelli di cui si lamenta la carenza.
Inoltre, il Comune non aveva fornito i presidi antinfortunistici, limitandosi, per esempio, a fornire aghi comuni anzichè quelli retrattili o guanti di lattice anzichè quelli antitaglio pur conoscendo bene la rischiosità delle mansioni degli infermieri (v. certificazione 10.5.07).
Le appellanti deducono anche il mancato controllo della carenza di uso dei DPI da parte dei preposti del Comune.
Infine, il Comune fino al 2001 aveva omesso le visite di controllo. Inoltre, il Comune, sebbene il dipendente, in base agli esami eseguiti in occasione della visita del 2001, risultasse affetto da una “epatite cronica HBV positiva” tale patologia era stata diagnosticata come “una pregressa infezione” così lasciando il dipendente senza cure mentre la malattia degenerava in cirrosi epatica e poi in epatocarcinoma.
IV. Con il terzo motivo di gravame, l’appellante deduce, in via subordinata, l’esistenza della responsabilità del comune ai sensi dell’art. 2050 c.c., sussistendo la sua attività omissiva, l’evento dannoso, il nesso causale e l’elemento di colpevolezza.
V. Infine, le appellanti quantificavano i danni subiti, per complessivi Euro 1.917.784,34 oltre accessori.
VI. L’appello è infondato, alla luce della approfondita disamina espletata dal CTU nominato dalla Corte, dott.ssa Ca., sanitario specialista in Medicina del Lavoro, di grande competenza clinica e di sicura formazione scientifica.
VII. Preliminarmente, va chiarito con riferimento alla tesi difensiva di parte appellante sui criteri di determinazione della sussistenza del nesso causale tra l’attività lavorativa e la contrazione della patologia, che, nella recentissima sentenza n.29115/17 la Cassazione ha chiarito che in materia di responsabilità datoriale per i danni conseguiti ad infortunio sul lavoro: ” rilevano i seguenti principi, costantemente enunciati dalla giurisprudenza di legittimità:
a) incombe sul lavoratore l’onere di provare di aver subito un danno e il nesso causale con lo svolgimento della prestazione; quando siano state provate tali circostanze, grava sul datore di lavoro l’onere di provare di a vere adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno (per tutte Cass. n. 3650 del 2006);…”.
Sulla scorta di tale indicazione del Giudice di legittimità, questa Corte ha chiesto al CTU di accertare l’esistenza del nesso di causalità con eventuali eventi specifici di contatto con fonte di infezione, sulla base della rappresentazione dell’attività lavorativa e delle mansioni espletate dal sig. Vi. “così come rappresentate dai testi escussi nel corso del primo grado del giudizio” (v. ord. 14.2.17).
Nella valutazione della responsabilità datoriale non può prescindersi dall’accertamento del fatto-evento e del nesso eziologico, che sono oggetto di contestazione sia con riferimento alla fonte della patologia, poichè trattasi di malattia con contagio facilmente extra-lavorativo, (specie in individui meno giovani), sia con riferimento alla sua collocazione spazio-temporale, essendo necessario collocare l’evento in modo certo non oltre l’inizio dell’attività lavorativa alle dipendenze dapprima dell’IPAB e poi del comune, che è successore nelle posizioni attive e passive dell’IPAB.
Infatti, per un verso va valutata la possibilità di origine extra-lavorativa del contagio (come più diffusamente argomenta il CTU), anche in relazione alla notoria diffusione dell’infezione da HVB nelle pregresse generazioni.
Per altro verso, anche la doglianza di parte attrice secondo cui del tutto irrilevante sarebbero le dichiarazioni della sig.ra Ba. circa l’espletamento di attività di infermiere del marito sin dal 1979, appare del tutto fuorviante, atteso che non può escludersi – ove non vi sia certezza che il contagio sia avvenuto dal 1.5.1982 in poi – che esso si possa essere verificato negli anni dal 1979 al 1982, quando già il lavoratore eseguiva certamente iniezioni ed era, quindi, già esposto al rischio di punture.
La Corte ha anche demandato al consulente in ricorso a “presunzioni semplici”: esse posso sopperire nell’individuare con un grado di probabilità che da un fatto-evento accertato possa essere derivata la patologia da cui era afflitto il sig. Vi. ma non possono sostituirsi alla prova che incombe sul lavoratore o – nel caso in esame – sui suoi aventi causa – “di aver subito un danno e il nesso causale con lo svolgimento della prestazione”.
VIII. La dott.ssa Ca. nella sua relazione ha presentato le seguenti valutazioni sul punto:
“Sulla base della documentazione agli atti e dei rilievi anamnestici si pone la seguente diagnosi:
“Epatocarcinoma in paziente portatore di epatite cronica HBV correlata”.
L’HBV può essere trasmesso per via parenterale cioè attraverso il sangue e i suoi derivati oppure per trasmissione sessuale o perinatale ed ha quindi le stesse vie di trasmissione dell’HIV.
Trasmissione parenterale: inoculazione di sangue e derivati del sangue infetto, uso di aghi, siringhe, strumenti chirurgici contaminati, trapianto di organi infetti.
Trasmissione parenterale inapparente: penetrazione del virus proveniente da materiali biologici infetti attraverso lesioni della cute o delle mucose. Si realizza attraverso lesioni della mucosa oro-faringea, l’uso di articoli da toilette come i rasoi, gli spazzolini da denti, le forbici per unghie di persone con l’infezione.
Trasmissione sessuale: nelle aree del mondo industrializzate, dove la diffusione del virus è bassa, la trasmissione sessuale probabilmente rappresenta la maggior via di trasmissione. Dal 1980 al 1985 gli omosessuali avevano un rischio particolarmente alto e rappresentavano il 20% dei casi. I fattori associati al rischio elevato erano i partner multipli e i rapporti anali. Il rischio è calato notevolmente probabilmente in concomitanza con il modificarsi dei rapporti sessuali in risposta all’epidemia di AIDS e al maggior uso del preservativo dovuto alla campagna di sensibilizzazione. Adesso la maggior parte dei casi di infezione sono soprattutto i rapporti eterosessuali, nei quali i fattori associati all’aumento del rischio di infezione sono la durata dell’attività sessuale, il numero di partner, una storia di malattie sessualmente trasmesse e l’eventuale presenza di sifilide. L’uso del preservativo chiaramente, anche in questo caso, come per l’HIV impedisce il trasmettersi dell’infezione.
Trasmissione verticale: i figli di madri infette con elevati livelli di replicazione virale (caratterizzati da elevati livelli di HBV-DNA e da HbeAg positività), hanno un rischio del 70- 90% di infezione perinatale (alla nascita) in assenza di prevenzione. Al contrario il rischio di trasmissione madre-figlio da madri HbeAg negative è inferiore (10-40%) I neonati che non si infettano alla nascita hanno comunque un rischio di infettarsi entro i primi 5 anni del 60%. Il meccanismo di questa infezione non è ancora del tutto chiaro.
Altre vie di trasmissione: il lavoro in strutture sanitarie, le trasfusioni, la dialisi, l’agopuntura, i tatuaggi, i viaggi all’estero con comportamenti a rischio, pratiche odontostomatologiche in condizioni di scarso controllo e igiene sono tutti fattori di rischio.
E’ quindi evidente che l’individuazione del momento in cui si è realizzato effettivamente il rischio di infezione è fondamentale per districarsi in questa giungla di possibilità.
Nel caso in oggetto il contatto professionale con il virus B dell’epatite potrebbe aver avuto luogo, inavvertitamente, sin dal 1972, e non sono evidenziabili precise denunce di episodi di carattere infortunistico. E’ rilevante che questi episodi, anche pregressi, non siano mai stati evidenziati nemmeno al medico competente che effettuò nel 2001 la prima visita medica periodica al sig. Vi..
L’infezione da HBV è diagnosticata attraverso la presenza di HBsAg nel siero del paziente, questa nell’85-90% dei casi si risolve con l’eliminazione del virus da parte dell’ospite e con la persistenza di anticorpi anti HBs.
Nel 10-15% dei casi invece, si manifesta la cronicizzazione della malattia con la positività dell’HBsAg.
Nel 30-35 % le forme croniche sono attive e nel 10% di casi/anno evolvono in cirrosi epatiche e da qui in un 3% di casi/anno in epatocarcinoma (HCC).
Nel 55-60% dei casi l’epatite cronica da virus B evolve in infezione inattiva (paziente asintomatico) e solo in uno 0,002-0,2% di casi/anno in HCC.
Nel 10-15% di casi/anno le forme croniche inattive possono riattivarsi.
Il periodo di incubazione della malattia e cioè quello che corre dall’esposizione al virus alla comparsa dei sintomi, varia tra i 60 e i 180 giorni, ma il quadro può presentarsi del tutto asintomatico.
A questo proposito si ricordi che i neonati sono asintomatici nel 90% dei casi, i bambini nel 90- 95% dei casi, mentre negli adulti e tra gli adolescenti nel 45-67% dei casi.
Le IgM anti HBc si positivizzano, persistendo per alcuni mesi e sono indizio di infezione recente, mentre le IgG possono persistere per anni e anche per tutta la vita.
L’anti Hbs è l’ultimo test a positivizzarsi ed è indicatore di risoluzione quando il titolo anti HBsAg diventa negativo.
L’infezione cronica è definita dalla presenza dell’HBsAg per un periodo di oltre sei mesi.
Il rischio di cronicizzazione è legato a due fattori: l’età di acquisizione dell’infezione e le condizioni immunitarie del soggetto.
Il rischio di cronicizzazione è basso negli adulti immunocompetenti. I pazienti che effettuano CHT o immunodepressi hanno elevata probabilità di cronicizzazione della patologia.
Lo sviluppo dell’HCC è un processo multi-step, a lenta evoluzione. La neoplasia compare dopo un periodo non inferiore a 15-30 anni di infezione cronica da HBV, generalmente ma non obbligatoriamente in fegati cirrotici.
Alla luce di quanto agli atti e di quella che è la storia naturale e la naturale evolutività di queste malattie si possono fare le seguenti considerazioni:
– Il sig. Vi. è stato dipendente del Comune di Ruvo dal gennaio 1997 al giugno 2008, con la mansione di infermiere generico e collaboratore, lavoro che ha svolto nella casa di riposo di Ruvo.
– Precedentemente il lavoratore, dal 1972 al 31 dicembre del 1996 aveva svolto la stessa mansione, dapprima presso altre strutture e poi anche nella stessa casa di riposo, prima che diventasse appartenenza del Comune.
– Non sono individuabili episodi, formalmente denunciati o almeno riferiti al medico competente in occasione della raccolta dei dati anamnestici, che possano essere considerati causa efficiente a determinare un contatto rischioso con liquidi biologici provenienti da pazienti infetti.
– Le indagini sierologiche condotte nel 2001, per la prima volta, evidenziano che il lavoratore era già cronicamente portatore della malattia. Il paziente era del tutto asintomatico ed anche gli indici di funzionalità ematica non erano mossi in maniera significativa.
– L’HCC si manifesta dopo almeno 15-30 anni di infezione cronica da HBV pertanto bisogna far risalire la cronicizzazione della patologia almeno al 1992 e il primo contatto con il virus ad almeno sei mesi prima.
– Non sono disponibili dati sierologici che propendano per una più recente infezione.”
Quindi, il CTU ha risposto negativamente ai dubbi sollevati da parte appellante sulla correttezza della sentenza gravata sull’accertamento del fatto-evento e del nesso causale, concludendo che
“1- Dalla documentazione agli atti emerge che non vi sia nesso causale tra il lavoro svolto dal Vi. presso il Comune di Ruvo e l’infezione da HBV che causò l’epatocarcinoma che ne ha verosimilmente determinato l’exitus.
2- La storia clinica del lavoratore riconduce ad un’infezione contratta in epoca precedente l’assunzione del Vi. presso il Comune di Ruvo, di cui però non appare chiara la modalità di contagio visto che questo necessita che il contatto con il materiale biologico infetto sia abbastanza “profondo”, con le mucose o con una lesione tissutale che “scopra” il torrente circolatorio, pertanto, sino a prova contraria, è da considerarsi malattia comune.”.
IX. Il CTU dott.ssa Ca. ha ancora meglio puntualizzato le proprie valutazioni con riferimento alle osservazioni del CTP appellante, dott. Marco Massari, e alle note della difesa di parte istante, con particolare riferimento:
– al rilievo degli episodi di accidentale puntura con aghi usati riferiti dai testi;
– all’utilizzo di presunzioni semplici richiesto nel quesito dalla corte;
– alla responsabilità del Comune per i fatti avvenuti alle dipendenze dell’IPAB.
“Nel caso in studio non è stato mai denunciato un contatto accidentale con materiale infetto, ma è verosimile, stando anche alle testimonianze, che vi possono essere state occasioni di possibile contagio di carattere professionale, proprio a causa del tipo di lavoro svolto dal sig. Vi. e dalle modalità con cui esso era svolto. Questo è certamente accaduto soprattutto all’inizio della carriera lavorativa del Vi.. E’ verosimile che il lavoratore abbia sottostimato tali occasioni (persino quelle riportate dai testi) e quindi non le abbia mai denunciate formalmente.
A maggior ragione ciò può essere accaduto agli esordi della propria professione, a causa della scarsa consapevolezza del rischio ma anche per inesperienza e minor manualità.
Aggiungerei che per la stessa inconsapevolezza, durante tutta la sua vita, il sig. Vi. può essere incorso in molteplici occasioni di rischio senza che ne abbia avvertito il reale pericolo. Per quanto concerne poi le deposizioni dei testi, è doveroso evidenziare che queste non consentono di individuare l’efficacia lesiva del contatto stesso. In queste deposizioni si parla infatti di soggetti affetti da epatite, in generale, e di epatite HCV correlata, in particolare, quando la malattia da cui era affetto il sig. Vi. è stata un’epatopatia HBVcorrelata. Le testimonianze sostanzialmente rendono ragione del fatto che nella professione di infermiere ci sono occasioni di contatto con aghi sporchi e potenzialmente infetti ma nessuna di queste deposizioni è a mio parere significativa di un; effettivo contatto con HBV.
La mancanza di una data certa a cui fare riferimento imporrebbe quindi una scelta del tutto arbitraria del periodo o dell’occasione a cui attribuire le responsabilità del contagio, anche al di fuori della vita lavorativa.
A questo si aggiunga che manca qualunque altro elemento clinico/sierologico di confronto che ci fornisca informazioni sullo stato anteriore del defunto sig. Vi..
Sempre in relazione alle testimonianze depositate nel primo grado di giudizio, resta singolare che il sig. Vi. non fece mai menzione di questi eventi a rischio, nemmeno dopo che il Medico Competente che lo sottopose nel 2001 a primo visita periodica quale dipendente dell’Ospedale di Ruvo, evidenziò la positività ai markers dell’epatite A e B.
E’ evidente che il lavoratore provenisse da una formazione umana e professionale ancora molto lontana dalla cultura della prevenzione in generale e più strettamente della tutela della salute e della sicurezza sui luoghi di lavoro.
Ricordiamo che negli anni ’70 e’80 era ancora scarsa, in generale, la cultura della prevenzione così come poche e confuse erano le conoscenze e le informazioni in merito alla contagiosità e pericolosità di alcune patologie infettive trasmesse con il sangue e altri materiali biologici, ed anche in merito ai comportamenti da adottare nella vita quotidiana.
Per queste ragioni io credo che applicare un criterio di presunzione semplice a questo caso specifico non sia corretto poichè si priverebbe, aprioristicamente, di ogni significato qualsiasi altro genere di contatto potenzialmente a rischio che si possa essere realizzato nella vita quotidiana c/o professionale e di cui, per le ragioni di cui sopra, non siamo a conoscenza.
Nel 2001 il lavoratore fu sottoposto a prima visita periodica dal Medico Competente dell’Ospedale di Ruvo. Il Collega che visitò il Sig. Vi. lo sottopose ad accertamenti che evidenziarono pregressa epatite A ed epatopatia conica da virus B. Quest’ultimo, così come suo dovere, avviò il lavoratore, in accordo con il medico curante, ad un approfondimento diagnostico ed eventuale idonea terapia.
E’ proprio dalle visite periodiche che emerge che il paziente fosse già affetto da artrite psoriasica (che gli causò anche una necrosi asettica dello scafoide tarsale a ds) e che effettuava trattamento con cortisonici.
Per quanto attiene all’evoluzione dell’epatopatia HBV correlata, potrebbe avere avuto un ruolo significativo la terapia cortisonica effettuata a causa dell’artrite psoriasica.
Questo aspetto può avere una enorme importanza ai fini della riattivazione dell’HBV e della sua possibile evoluzione in HCC, infatti la riattivazione dell’epatite B nei pazienti sottoposti a terapia immunosoppressiva (corticosteridi etc) o a chemioterapia è associata ad una significativa morbosità e mortalità. Tra questi pazienti i medici dovrebbero sempre individuare i soggetti HBV sottoposti terapia immunodepressiva per sottoporli a profilassi (per es. con lamivudina) e ridurre la frequenza di riattivazione dell’epatite B e la mortalità ad essa correlata.
Non risulta che il lavoratore abbia mai effettuato alcun tipo di profilassi per inibire la riattivazione della HBV.
Gli studi epidemiologici pii rilevanti, di cui si allega una sintesi significativa pubblicata dall’Associazione Italiana per lo studio del Fegato, Epidemiologia delle Epatopatie Acute e Croniche in Italia, evidenziano (studio multicentrico con arruolamento dei casi negli anni 1996-1997) che solo l’11.5% dei casi di HCC sono attribuibili ad infezione da HBV con netta riduzione rispetto a quanto osservato in studi epidemiologici precedenti (30.3% in uno studio multicentrico effettuato negli anni 1979-1980). Studi Europei di provenienza quasi sempre italiana hanno documentato che il rischio di sviluppare HCC è 107 volte maggiore nei cirrotici che nei soggetti con epatite cronica e ancor meno negli HBV carrier. Nello studio EUROHEP su una coorte di 161 pazienti cirrotici da HBV il rischio cumulativo di sviluppare HCC a 5 anni è dei 9%, con un livello medio tra diagnosi di cirrosi ed evidenza di HCC di 3,7 anni (range 05-15 anni ed età media alla diagnosi di 63 anni (range 40-78 anni).
La mancanza di documentazione che ci permetta di individuare con certezza la prima diagnosi di cirrosi epatica ci impedisce di comprendere temporalmente la evolutività dell’epatopatia, fino al manifestarsi di HCC.
In effetti l’unica documentazione disponibile è quella datata 2005 e riassunta nell’ambito della visita medica del CMO, in cui però è già diagnosticata una neoplasia metastatizzata.
Non disponiamo inoltre di documentazione medica relativa al decesso che escluda con certezza altre cause anche in considerazione delle patologie preesistenti. E’ comunque molto probabile che il sig. Vi. la deceduto per una grave insufficienza epatica dovuta all’evoluzione della patologia tumorale ed alla totale sostituzione neoplastica del parenchima epatico a discapito della funzione di questo organo unico e vitale. E’ altrettanto verosimile che sia stata proprio la terapia a segnare il destino del paziente.
Per quanto concerne infine le sentenze della Cassazione Civile, citate in occasione di osservazioni, sottolineo che si tratta per lo più di lavoratori sanitari operanti all’interno di strutture psichiatriche.
A causa delle mansioni svolte e della particolarità dei soggetti ospitati, molti dei quali affetti da HCV e HBV, e dei loro comportamenti violenti e molto spesso autolesionistici, i rispettivi lavoratori erano stati esposti a rischio biologico di contagio e avevano inoltrato denuncia all’INAIL. I lavoratori in questione risultavano però affetti da HVC.
Per tutte queste ragioni ritengo che nel caso in studio non possiamo attribuire nemmeno con un criterio di presunzione semplice la responsabilità della patologia di cui il sig. Vi. era affetto ad un evento occorso in occasione di lavoro.”
X. In conclusione, il CTU ha operato correttamente, esaminando la storia clinica del sig. Vi., la documentazione medica allegata, le risultanze istruttorie raccolte, la letteratura scientifica in materia (indicata in bibliografia pag. 4), ed utilizzando il criterio investigativo dettato dalla corte (presunzioni semplici).
Le valutazioni e conclusioni del CTU sono quindi fatte proprie dalla Corte nella decisione della controversia in esame.
La mancanza di elementi probatori sull’occasione di lavoro alle dipendenze dell’IPAB e poi del Comune, rende superflua la disamina di ogni ulteriore questione posta in gravame.
XI. L’appello è dunque infondato e va rigettato, con conferma della sentenza gravata.
Attesa l’oggettiva difficoltà degli accertamenti modico-legali posti a base della decisione, le spese di gravame possono essere integralmente compensate tra tutte le parti.
P.Q.M.
La Corte di Appello di Bari – Sezione lavoro rigetta l’appello proposto, con ricorso del 25.5.2015 da Ba. Pa. e Vi. Ad., avverso la sentenza resa in data 13.4.2015 dal giudice del lavoro del Tribunale di Trani nei confronti del Comune di Ruvo di Puglia e della UNIPOL Assicurazioni SPA; conferma l’impugnata sentenza; compensa integralmente tra le parti le spese di gravame.
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