CORTE DI APPELLO MILANO – Ordinanza 31 maggio 2022
Straniero – Reddito di cittadinanza – Requisiti – Residenza nello stato italiano per almeno dieci anni
Rileva quanto segue
1) La vicenda processuale.
Con ricorso ex artt. 28, decreto legislativo n. 150/2011 e 44 TU immigrazione («Azione civile contro la discriminazione») e 702-bis c.p.c., depositato il 18 novembre 2020, M.I.M., S.G., T.S., S.F., C.A.D., D.C. e Manolea M. A., cittadini comunitari (romeni) e privi della residenza nello stato italiano per almeno dieci anni, hanno convenuto l’INPS avanti al Tribunale di Milano – Sezione lavoro, esponendo di appartenere a famiglie in grave condizione di fragilità, assistite da molti anni dalla Comunità di Sant’Egidio che le ha sostenute nella ricerca dell’alloggio e del lavoro e nell’accompagnamento scolastico dei minori e di aver avuto, sia nel 2019 che nel 2020, un indicatore ISEE inferiore a 9.360,00.
Ciò premesso, hanno chiesto:
preliminarmente:
il preventivo rinvio pregiudiziale ex art. 267 TFUE alla Corte di giustizia europea formulando il quesito riguardante la compatibilità con il diritto dell’Unione dell’art. 2, comma 1, lettera a) del decreto-legge n. 4/2019 in relazione al requisito dei dieci anni di residenza nello Stato italiano al fine di accedere alla prestazione di cui è causa (Reddito di cittadinanza – RDC): «Se l’art. 24, comma 1, direttiva 2004/38 deve essere interpretato nel senso che osta a una disposizione nazionale in base alla quale una prestazione di assistenza sociale finalizzata al contrasto alla povertà e all’inserimento sociale e lavorativo come quella di cui all’art. 2, comma 1, lettera a), decreto-legge n. 4/2019, sia riservata ai soggetti che possono far valere dieci anni di residenza in Italia, di cui gli ultimi due continuativi, con conseguente esclusione dei cittadini di altri Stati membri che, pur avendo esercitato legittimamente il diritto alla mobilità, avendo diritto al soggiorno legale in Italia, ed essendo legalmente soggiornanti da oltre tre mesi, non hanno maturato il predetto requisito» «Se, in caso di risposta negativa al primo quesito, gli artt. 7, par. 2, e 10 par. 1 del regolamento n. 492/2011 debbano essere interpretati nel senso che ostano a una disposizione nazionale in base alla quale una prestazione di assistenza sociale finalizzata al contrasto alla povertà e all’inserimento sociale e lavorativo come quella di cui all’art. 2, comma 1, lettera a), decreto-legge n. 4/2019, sia riservata ai soggetti che possono far valere dieci anni di residenza in Italia, di cui gli ultimi due continuativi, con conseguente esclusione dei cittadini di altri Stati membri che, pur avendo diritto al soggiorno in qualità di lavoratori e di genitori di figli minori che stanno completando un corso di studi, non hanno maturato il predetto requisito»;
l’accertamento della natura discriminatoria della condotta assunta dall’ente previdenziale con particolare riguardo, da un lato, al disposto della circolare n. 43/2019 che prevede il requisito della residenza decennale in Italia e, dall’altro, alla sospensione dell’erogazione del beneficio nei confronti di tutte le ricorrenti ad eccezione della sig.ra M. M. A. (che non ha mai presentato domanda);
in via principale:
la modifica della circolare sopra richiamata e la condanna dell’ente previdenziale al pagamento in favore di ciascuna ricorrente dell’importo spettante a titolo di RDC anche per la parte successiva alla sospensione e sino al completamento dei diciotto mesi previsti dalla legge ferma la verifica degli ulteriori requisiti ammettendo le ricorrenti alle rispettive domande anche per i periodi successivi;
in linea subordinata:
condannare l’ente previdenziale al risarcimento del supposto danno patito da ciascun ricorrente quale risarcimento per la subita discriminazione nella misura della prestazione non fruita ulteriormente ordinando all’INPS di ammettere i ricorrenti alla procedura per l’attribuzione del beneficio;
infine, con riferimento alla posizione della sig.ra M. M. A. condannare l’ente previdenziale al risarcimento del danno da discriminazione quantificato in euro 9.000,00 ulteriormente ordinando di ammettere la predetta alla domanda di RDC anche per i periodi successivi ferma la verifica degli ulteriori requisiti di legge.
I ricorrenti hanno sostenuto che il requisito della decennalità della residenza nello Stato italiano richiesto dalla norma per la fruizione del beneficio fosse contrastante con la normativa ed il diritto comunitario per violazione del diritto alla parità del trattamento ed al divieto di discriminazione in ragione della nazionalità.
I ricorrenti hanno evidenziato altresì l’ipotesi di un contrasto di tale requisito con la Carta costituzionale, in particolare, con riferimento agli artt. 3, 4, 35, 38 nonché 117 della Costituzione.
L’INPS si è costituita in giudizio, contestando gli assunti avversari e domandando il rigetto del ricorso, previa eccezione di inammissibilità di quest’ultimo.
Il primo giudice, con ordinanza riservata del 27 luglio 2021, ha respinto il ricorso, rilevando la legittimità della disposizione nazionale censurata e la conseguente assenza di discriminazione nei confronti delle ricorrenti, condannando queste ultime, in solido tra loro, al pagamento delle spese di lite in favore di INPS, determinate in complessivi euro 3.000,00, oltre spese generali 15% e accessori di legge.
In particolare, il tribunale ha rigettato, innanzitutto, la domanda di M. M. A. «a fronte della mancata presentazione della domanda, nemmeno in formato cartaceo, non [potendo], in concreto, ritenersi compiuta una qualsivoglia discriminazione in danno di tale ricorrente ed imputabile all’INPS».
Nel merito, il tribunale ha ritenuto che «Nel caso di specie, in primo luogo, è insussistente una discriminazione diretta tra i cittadini italiani e gli altri dell’UE, in ragione del tenore della previsione normativa contestata da parte ricorrente. Infatti, …, la norma parifica il requisito di residenza per entrambe le categorie di soggetti predetti, risultando così salva la parità di trattamento tra loro. … Deve essere altresì esclusa, nella fattispecie in esame, la sussistenza di una discriminazione indiretta fondata sulla nazionalità in danno dei cittadini comunitari, quali sono tutti i ricorrenti. Infatti, la concessione del reddito, non a caso denominato dal legislatore, “di cittadinanza”, presuppone la sussistenza di un concreto e duraturo requisito di stabile collegamento del richiedente, cittadino italiano, comunitario o extracomunitario che sia, con il territorio dello Stato italiano e con il suo mercato del lavoro. Il legislatore, nell’introdurre tale istituto, ha previsto, infatti, non solo requisititi di reddito e patrimoniali, ma anche di collegamento con il territorio del Paese che lo eroga.
La ragionevolezza di una analoga scelta legislativa, volta alla selezione della platea o dei destinatari di un beneficio, è già stata oggetto di vaglio da parte della Corte costituzionale, con la sentenza del 15 marzo 2019, n. 50. Tale decisione superava i dubbi di legittimità costituzionale riferiti all’assegno sociale, in quanto concesso solo agli aventi diritto che “abbiano soggiornato legalmente in via continuativa per almeno dieci anni nel territorio nazionale”, con riguardo ai cittadini extracomunitari (art. 20, comma 10, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112 (Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria) convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133). La Corte ha, quindi, ampiamente affrontato il tema del riconoscimento di tale beneficio, a condizione di un requisito di residenza prolungata.
Peraltro, pur intervenendo con riguardo alla condizione dei cittadini extracomunitari, la Corte costituzionale afferma principi che sono applicabili analogamente al caso di specie e alla condizione dei cittadini comunitari ricorrenti».
Avverso tale sentenza M.I.M., S.G., T.S., S.F., C.A.D., D.C. hanno proposto appello per i seguenti motivi:
1) il primo giudice ha confuso le norme e i principi giurisprudenziali che regolano l’accesso alle prestazioni di cittadini che non hanno diritto al soggiorno con le norme e i principi applicabili ai cittadini che hanno diritto al soggiorno, applicando alle ricorrenti i primi, senza chiedersi se esse rientrassero nel primo o nel secondo gruppo;
2) ha così ignorato che risulta incontestato che le ricorrenti hanno diritto al soggiorno (in quanto è stato ad esse riconosciuto con l’iscrizione anagrafica e, in particolare, le ricorrenti M., S. e S. hanno anche acquisito già alla data della domanda del RDC il diritto al soggiorno permanente essendo regolarmente soggiornanti da oltre cinque anni) e, comunque, in quanto lavoratrici ai sensi della direttiva 2004/38 (art. 7, par. 3), ai sensi della quale il cittadino che cessa di essere lavoratore subordinato o autonomo conserva tale qualità nei seguenti casi:
quando abbia lavorato per più di un anno e si sia poi registrato come disoccupato (S., M. e D.);
quando abbia lavorato per meno di un anno e si sia registrato come disoccupato (in tal caso la qualità di lavoratore permane ai sensi della direttiva per almeno sei mesi, periodo esteso ad un anno dal decreto legislativo di attuazione n. 30/2007, art. 7, comma 3): è la condizione della ricorrente C.;
quando l’interessato abbia lavorato e sia temporaneamente inabile al lavoro: è la condizione della ricorrente T., che è titolare di un attestato di invalidità comunque soggetto a revisione e dunque di per sé non in contrasto con il requisito di una «condizione temporanea di invalidità»;
quando l’interessato, indipendentemente dalla sua attività lavorativa più o meno lunga, è familiare di lavoratore o comunque di soggetto che abbia diritto al soggiorno: è la condizione prevista dal par. 1, lettera d), dell’art. 7 cit. della direttiva, in cui rientrano ancora il ricorrente D. e le ricorrenti M. e S.;
3) non ha quindi potuto esaminare (avendone negato «a monte» l’applicabilità) se un requisito così prolungato contrasti con il predetto principio ex art. 24, par. 1 della direttiva;
4) ha totalmente ignorato l’applicabilità o meno alla vicenda dell’art. 7, comma 2, regolamento n. 492/2011 «relativo alla libera circolazione dei lavoratori all’interno dell’Unione».
L’INPS si è regolarmente costituito per il gravame, chiedendo il rigetto dell’appello e l’integrale conferma dell’ordinanza impugnata.
Dopo il deposito di memorie scritte, questa Corte si è riservata di valutare le questioni di costituzionalità discusse tra le parti.
2) Questione di costituzionalità.
Ciò premesso, questa Corte ritiene di sollevare la questione di costituzionalità in ordine all’art. 2, comma 1, lettera a), n. 2) del decreto-legge n. 4/2019, convertito in legge n. 26/2019, sia rilevante e non manifestamente infondata in relazione agli artt. 3, 11 e 117, primo comma, della Costituzione (questi ultimi in relazione agli artt. 21 e 34 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, all’art. 24, comma 1, direttiva 2004/38/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 29 aprile 2004, relativa al diritto dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri, e all’art. 7, par. 2, del regolamento n. 492/2011 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 5 aprile 2011, relativo alla libera circolazione dei lavoratori all’interno dell’Unione), atteso che il requisito di lungo residenza appare irragionevole (per mancanza del requisito di ragionevole correlabilità) e discriminatorio nei confronti dei cittadini UE.
2.1 Rilevanza.
La questione di legittimità appare assolutamente rilevante per la decisione della presente causa in quanto l’accesso al RDC è subordinato al requisito della residenza in Italia per almeno dieci anni, di cui gli ultimi due continuativi.
Ne consegue, quindi, che, essendo le ricorrenti in possesso degli ulteriori presupposti richiesti dalla legge, l’accesso al beneficio dipende solamente dal possesso o meno del requisito della lunga residenza.
Non può neppure procedersi ad un’interpretazione costituzionalmente orientata della norma in questione, preclusa dal tenore letterale della disposizione che limita chiaramente il beneficio solamente a coloro che possano vantare tale requisito di lunga residenza.
Si può, dunque, richiamare il principio, ripetutamente affermato dalla Corte costituzionale (vedi sentenze n. 221/2019 e n. 102/2021, Corte costituzionale), secondo cui «l’onere di interpretazione conforme viene meno, lasciando il passo all’incidente di costituzionalità, allorché il tenore letterale della disposizione non consenta tale interpretazione».
2.2. Non manifesta infondatezza.
L’eccezione di incostituzionalità, inoltre, appare non manifestamente infondata in quanto, ad avviso di questo Collegio, la norma impugnata pare contrastare con l’art. 3 della Costituzione e con gli artt. 11 e 117, primo comma, della Costituzione, in relazione agli artt. 21 e 34 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (che stabiliscono il divieto di discriminazione e diritto di accesso alle prestazioni di sicurezza sociale), nonché all’art. 24, comma 1, direttiva 2004/38 (che sancisce la parità di trattamento dei cittadini dell’Unione in relazione al «diritto a prestazioni d’assistenza sociale» erogate dallo Stato ospitante) e art. 7, par. 2, del regolamento n. 492/2011 (secondo cui il lavoratore cittadino di uno Stato membro dell’UE «gode degli stessi vantaggi sociali e fiscali dei lavoratori nazionali»).
In particolare, nella specie, appaiono violati gli artt. 21 e 34 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, di cui gli artt. 24, comma 1, direttiva 2004/38 e 7, par. 2, del regolamento n. 492/2011 costituiscono concreta attuazione nel diritto derivato dell’Unione.
L’art. 21, rubricato «Non discriminazione», statuisce – al pari dell’art. 3 della Costituzione – «1. E’ vietata qualsiasi forma di discriminazione fondata, in particolare, sul sesso, la razza, il colore della pelle o l’origine etnica o sociale, le caratteristiche genetiche, la lingua, la religione o le convinzioni personali, le opinioni politiche o di qualsiasi altra natura, l’appartenenza ad una minoranza nazionale, il patrimonio, la nascita, gli handicap, l’età o le tendenze sessuali.
2. Nell’ambito d’applicazione del Trattato che istituisce la Comunità europea e del Trattato sull’Unione europea è vietata qualsiasi discriminazione fondata sulla cittadinanza, fatte salve le disposizioni particolari contenute nei trattati stessi».
L’art. 34 statuisce: «1. L’Unione riconosce e rispetta il diritto di accesso alle prestazioni di sicurezza sociale e ai servizi sociali che assicurano protezione in casi quali la maternità, la malattia, gli infortuni sul lavoro, la dipendenza o la vecchiaia, oltre che in caso di perdita del posto di lavoro, secondo le modalità stabilite dal diritto comunitario e le legislazioni e prassi nazionali.
2. Ogni individuo che risieda o si sposti legalmente all’interno dell’Unione ha diritto alle prestazioni di sicurezza sociale e ai benefici sociali conformemente al diritto comunitario e alle legislazioni e prassi nazionali.
3. Al fine di lottare contro l’esclusione sociale e la povertà, l’Unione riconosce e rispetta il diritto all’assistenza sociale e all’assistenza abitativa volte a garantire un’esistenza dignitosa a tutti coloro che non dispongano di risorse sufficienti, secondo le modalità stabilite dal diritto comunitario e le legislazioni e prassi nazionali».
Il principio di parità di trattamento nel settore della sicurezza sociale, nei termini delineati dalla CDFUE e dal diritto derivato e poi ribaditi dalla Corte di giustizia dell’Unione europea, «si raccorda ai principi consacrati dagli artt. 3 e 31 della Costituzione e ne avvalora e illumina il contenuto assiologico, allo scopo di promuovere una più ampia ed efficace integrazione dei cittadini dei Paesi terzi» (Corte costituzionale, sentenza n. 54/2022).
Questo Collegio ritiene di sottoporre alla Corte costituzionale i dubbi di legittimità costituzionale della norma in esame come di seguito riportati.
2.3 Doppia pregiudizialità.
La scelta di questo Collegio di sollevare questione di costituzionalità si giustifica in considerazione del fatto che la norma interna sopra citata viola non solo principi eurounitari, ma anche principi costituzionali (vedi sentenze n. 269/2017, n. 20/2019, n. 63/2019, n. 112/2019, n. 117/2019, n. 11/2020, n. 44/2020, n. 182/2021 Corte costituzionale).
In particolare, nella citata sentenza n. 269/2017, il giudice delle leggi ha affrontato la questione della «doppia pregiudizialità», fissando le seguenti regole: «Fermi restando i principi del primato e dell’effetto diretto del diritto dell’Unione europea come sin qui consolidatisi nella giurisprudenza europea e costituzionale, occorre prendere atto che la citata Carta dei diritti costituisce parte del diritto dell’Unione dotata di caratteri peculiari in ragione del suo contenuto di impronta tipicamente costituzionale. I principi e i diritti enunciati nella Carta intersecano in larga misura i principi e i diritti garantiti dalla Costituzione italiana (e dalle altre Costituzioni nazionali degli Stati membri). Sicché può darsi il caso che la violazione di un diritto della persona infranga, ad un tempo, sia le garanzie presidiate dalla Costituzione italiana, sia quelle codificate dalla Carta dei diritti dell’Unione, come è accaduto da ultimo in riferimento al principio di legalità dei reati e delle pene (Corte di giustizia dell’Unione europea, Sezione grande, sentenza 5 dicembre 2017, nella causa C-42/17, M.A.S., M.B.).
Pertanto, le violazioni dei diritti della persona postulano la necessità di un intervento erga omnes di questa Corte, anche in virtù del principio che situa il sindacato accentrato di costituzionalità delle leggi a fondamento dell’architettura costituzionale (art. 134 della Costituzione). La Corte giudicherà alla luce dei parametri interni ed eventualmente di quelli europei (ex artt. 11 e 117 della Costituzione), secondo l’ordine di volta in volta appropriato, anche al fine di assicurare che i diritti garantiti dalla citata Carta dei diritti siano interpretati in armonia con le tradizioni costituzionali, pure richiamate dall’art. 6 del Trattato sull’Unione europea e dall’art. 52, comma 4, della CDFUE come fonti rilevanti in tale ambito. In senso analogo, del resto, si sono orientate altre Corti costituzionali nazionali di antica tradizione (si veda ad esempio Corte costituzionale austriaca, sentenza 14 marzo 2012, U 466/11-18; U 1836/11-13).
Il tutto, peraltro, in un quadro di costruttiva e leale cooperazione fra i diversi sistemi di garanzia, nel quale le Corti costituzionali sono chiamate a valorizzare il dialogo con la Corte di giustizia (da ultimo, ordinanza n. 24 del 2017), affinché sia assicurata la massima salvaguardia dei diritti a livello sistemico (art. 53 della CDFUE).
D’altra parte, la sopravvenienza delle garanzie approntate dalla CDFUE a quelle previste dalla Costituzione italiana può generare un concorso di rimedi giurisdizionali. A tale proposito, di fronte a casi di “doppia pregiudizialità” – vale a dire di controversie che possono dare luogo a questioni di illegittimità costituzionale e, simultaneamente, a questioni di compatibilità con il diritto dell’Unione -, la stessa Corte di giustizia ha a sua volta affermato che il diritto dell’Unione “non osta” al carattere prioritario del giudizio di costituzionalità di competenza delle Corti costituzionali nazionali, purché i giudici ordinari restino liberi di sottoporre alla Corte di giustizia, “in qualunque fase del procedimento ritengano appropriata e finanche al termine del procedimento incidentale di controllo generale delle leggi, qualsiasi questione pregiudiziale a loro giudizio necessaria”; di “adottare qualsiasi misura necessaria per garantire la tutela giurisdizionale provvisoria dei diritti conferiti dall’ordinamento giuridico dell’Unione”; di disapplicare, al termine del giudizio incidentale di legittimità costituzionale, la disposizione legislativa nazionale in questione che abbia superato il vaglio di costituzionalità, ove, per altri profili, la ritengano contraria al diritto dell’Unione (tra le altre, Corte di giustizia dell’Unione europea, Sezione quinta, sentenza 11 settembre 2014, nella causa C-112/13 A contro B e altri; Corte di giustizia dell’Unione europea, Sezione grande, sentenza 22 giugno 2010, nelle cause C-188/10, Melki e C-189/10, Abdeli).
In linea con questi orientamenti, questa Corte ritiene che, laddove una legge sia oggetto di dubbi di illegittimità tanto in riferimento ai diritti protetti dalla Costituzione italiana, quanto in relazione a quelli garantiti dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea in ambito di rilevanza comunitaria, debba essere sollevata la questione di legittimità costituzionale, fatto salvo il ricorso, al rinvio pregiudiziale per le questioni di interpretazione o di invalidità del diritto dell’Unione, ai sensi dell’art. 267 del TFUE».
Anche successivamente, la Corte costituzionale si è attenuta a tale impostazione con le sentenze n. 20/2019, n. 112/2019, n. 117/2019, n. 11/2020, n. 44/2020 e n. 182/2021.
Non appare in contraddizione con l’ormai costante orientamento sulla doppia pregiudizialità la sentenza n. 67 del 2022, che ha ritenuto inammissibile per irrilevanza una questione sollevata dalla Corte di cassazione in materia di attribuzione dell’assegno per il nucleo familiare, osservando che il rimettente avrebbe potuto disapplicare il diritto interno contrastante con il diritto dell’Unione. In quel caso, infatti, non veniva evocato dal rimettente alcun diritto fondamentale garantito dalla Carta, ma si trattava piuttosto di dare applicazione a (sole) disposizioni del diritto derivato UE, nell’interpretazione già fornitane dalla Corte di giustizia proprio a seguito di un rinvio pregiudiziale effettuato dallo stesso giudice rimettente.
2.4 Quadro normativo e Corte costituzionale n. 19/2022.
Passando al merito della questione, è opportuno sintetizzare preliminarmente la disciplina del reddito di cittadinanza, richiamando, a tal proposito, quanto già rilevato dalla Corte costituzionale nella recente sentenza n. 19/2022: «Il decreto-legge n. 4 del 2019, come convertito, che lo istituisce, lo definisce “misura fondamentale di politica attiva del lavoro a garanzia del diritto al lavoro, di contrasto alla povertà, alla disuguaglianza e all’esclusione sociale […]”, e lo qualifica “livello essenziale delle prestazioni nei limiti delle risorse disponibili” (art. 1, comma 1). Il citato decreto-legge è stato oggetto di modifiche (non significative ai fini del presente giudizio) ad opera della legge 30 dicembre 2021, n. 234 (Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2022 e bilancio pluriennale per il triennio 2022-2024).
Il reddito di cittadinanza consiste in un beneficio economico che costituisce un'”integrazione del reddito familiare” fino alla soglia di 6.000,00 euro annui (incrementata a seconda dei componenti del nucleo familiare), alla quale si può aggiungere un’integrazione del reddito dei nuclei familiari locatari di un’abitazione, fino ad un massimo di 3.360,00 euro annui (art. 3, comma 1). Il beneficio è riconosciuto “per un periodo continuativo non superiore a diciotto mesi” e può essere rinnovato, previa sospensione di un mese prima di ciascun rinnovo (art. 3, comma 6).
La sua erogazione “è condizionata alla dichiarazione di immediata disponibilità al lavoro da parte dei componenti il nucleo familiare maggiorenni, […] nonché all’adesione ad un percorso personalizzato di accompagnamento all’inserimento lavorativo e all’inclusione sociale che prevede attività al servizio della comunità, di riqualificazione professionale, di completamento degli studi, nonché altri impegni individuati dai servizi competenti finalizzati all’inserimento nel mercato del lavoro e all’inclusione sociale”» (art. 4, comma 1). Questo percorso si realizza o con il Patto per il lavoro (stipulato presso un centro per l’impiego e che «deve contenere gli obblighi e gli impegni previsti dal comma 8, lettera b», che riguardano essenzialmente la ricerca attiva del lavoro e l’accettazione delle offerte congrue) o con il Patto per l’inclusione sociale, stipulato presso i servizi comunali competenti per il contrasto della povertà (art. 4, commi 7 e 12). Si tratta di due «canali» comunicanti, nel senso che il beneficiario convocato dal centro per l’impiego può essere inviato al servizio comunale e viceversa (art. 4, commi 5-quater e 12). Il Patto per l’inclusione sociale comprende anche gli «interventi per l’accompagnamento all’inserimento lavorativo» (art. 4, comma 13).
Nell’ambito di entrambi i patti, «il beneficiario è tenuto ad offrire […] la propria disponibilità per la partecipazione a progetti a titolarità dei comuni, utili alla collettività, in ambito culturale, sociale, artistico, ambientale, formativo e di tutela dei beni comuni, da svolgere presso il medesimo comune di residenza, mettendo a disposizione un numero di ore compatibile con le altre attività del beneficiario e comunque non inferiore al numero di otto ore settimanali […]» (art. 4, comma 15). Rispetto al precedente istituto del reddito di inclusione, dunque, il reddito di cittadinanza si caratterizza per una spiccata finalizzazione all’inserimento lavorativo e per un più stringente meccanismo della condizionalità, cioè per un’accentuazione degli impegni assunti dai beneficiari. Inoltre, rispetto al reddito di inclusione il reddito di cittadinanza è destinato a una platea più ampia di beneficiari, in quanto è prevista una soglia economica d’accesso più alta (art. 2, comma 1, lettera b).
Per altro verso, come visto, il decreto-legge n. 4 del 2019, come convertito, ha previsto un forte allungamento del periodo necessario di residenza in Italia (da due a dieci anni). L’art. 12 del citato decreto-legge detta le disposizioni finanziarie per l’attuazione del reddito di cittadinanza, fissando un limite legislativo di spesa. Il comma 1 determina la provvista finanziaria per l’erogazione del RDC, autorizzando la spesa di 5.907,00 milioni di euro per il 2019, di 7.167,00 milioni per il 2020, di 7.391,00 milioni per il 2021 e di 7.246,00 milioni annui a decorrere dal 2022, con imputazione ad apposito capitolo dello stato di previsione del Ministero del lavoro, denominato «Fondo per il reddito di cittadinanza». Tale autorizzazione di spesa è stata incrementata dapprima dall’art. 1, comma 371, della legge 30 dicembre 2020, n. 178 (Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2021 e bilancio pluriennale per il triennio 2021-2023), poi, per la somma di 1.000,00 milioni di euro limitatamente all’anno 2021, dall’art. 11, comma 1, del decreto-legge 22 marzo 2021, n. 41 (Misure urgenti in materia di sostegno alle imprese e agli operatori economici, di lavoro, salute e servizi territoriali, connesse all’emergenza da COVID-19), convertito, con modificazioni, dalla legge 21 maggio 2021, n. 69, e infine, sempre per il 2021 per la somma di 200,00 milioni di euro, dall’art. 11, comma 13, del decreto-legge 21 ottobre 2021, n. 146 (Misure urgenti in materia economica e fiscale, a tutela del lavoro e per esigenze indifferibili), convertito, con modificazioni, dalla legge 17 dicembre 2021, n. 215. Per gli anni 2022 e seguenti l’autorizzazione di spesa di cui all’art. 12, comma 1, del decreto-legge n. 4 del 2019, come convertito, è stata incrementata dall’art. 1, comma 73, della legge n. 234 del 2021, per una somma di poco superiore ai 1.000,00 milioni all’anno.
L’art. 12, comma 9, del decreto-legge n. 4 del 2019, come convertito, prevede che, «[i]n caso di esaurimento delle risorse disponibili per l’esercizio di riferimento ai sensi del comma 1, […] con decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, da adottarsi entro trenta giorni dall’esaurimento di dette risorse, è ristabilita la compatibilità finanziaria mediante rimodulazione dell’ammontare del beneficio».
2.5 La «natura» del RDC.
La Corte costituzionale, con tale sentenza, ha compiutamente tratteggiato la natura del RDC, evidenziandone i caratteri peculiari che lo differenziano dalle misure esclusivamente «assistenziali» (come l’assegno sociale), puntualizzando quanto segue: «il reddito di cittadinanza, pur presentando anche tratti propri di una misura di contrasto alla povertà, non si risolve in una provvidenza assistenziale diretta a soddisfare un bisogno primario dell’individuo, ma persegue diversi e più articolati obiettivi di politica attiva del lavoro e di integrazione sociale. A tale sua prevalente connotazione si collegano coerentemente la temporaneità della prestazione e il suo carattere condizionale, cioè la necessità che ad essa si accompagnino precisi impegni dei destinatari, definiti in patti sottoscritti da tutti i componenti maggiorenni del nucleo familiare (salve le esclusioni di cui all’art. 4, commi 2 e 3, del decreto-legge n. 4 del 2019). E’ inoltre prevista la decadenza dal beneficio nel caso in cui un solo componente non rispetti gli impegni (art. 7, comma 5, del decreto-legge n. 4 del 2019)».
2.6 Permesso di soggiorno per soggiornanti di lungo periodo.
Con la citata sentenza, la Corte costituzionale, chiamata a delibare il denunciato contrasto tra l’art. 3 della Costituzione e il requisito per gli stranieri di possedere il permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo, ha escluso l’incostituzionalità della norma sulla base della seguente argomentazione: «occorre verificare se esista una ragionevole correlazione tra il requisito fissato dalla norma censurata e la ratio del reddito di cittadinanza. Come già ampiamente sottolineato, tale provvidenza non si risolve in un mero sussidio economico, ma costituisce una misura più articolata, comportante anche l’assunzione di precisi impegni dei beneficiari, diretta ad immettere il nucleo familiare beneficiario in un “percorso personalizzato di accompagnamento all’inserimento lavorativo e all’inclusione sociale che prevede attività al servizio della comunità, di riqualificazione professionale, di completamento degli studi, nonché altri impegni individuati dai servizi competenti finalizzati all’inserimento nel mercato del lavoro e all’inclusione sociale” (art. 4, comma 1, del decreto-legge n. 4 del 2019, come convertito). Va considerato inoltre che la durata del beneficio economico è di diciotto mesi (permanendo i requisiti), con possibilità di rinnovo (art. 3, comma 6).
L’orizzonte temporale della misura non è dunque di breve periodo, considerando sia la durata del beneficio sia il risultato perseguito. Gli obiettivi dell’intervento implicano infatti una complessa operazione di inclusione sociale e lavorativa, che il legislatore, nell’esercizio della sua discrezionalità, non irragionevolmente ha destinato agli stranieri soggiornanti in Italia a tempo indeterminato. In questa prospettiva di lungo o medio termine del reddito di cittadinanza, la titolarità del diritto di soggiornare stabilmente in Italia non si presenta come un requisito privo di collegamento con la ratio della misura concessa, sicché la scelta di escludere gli stranieri regolarmente soggiornanti, ma pur sempre privi di un consolidato radicamento nel territorio, non può essere giudicata esorbitante rispetto ai confini della ragionevolezza».
Tali conclusioni sono assolutamente coerenti con la pregressa giurisprudenza della Corte costituzionale, secondo cui, in materia sociale, le prestazioni legate ai bisogni essenziali della persona debbono essere riconosciute a cittadini e stranieri regolarmente soggiornanti (vedi, ad es., sentenza n. 230/2015 con riferimento alla pensione di invalidità civile per sordi e indennità di comunicazione; sentenza n. 22/2015 relativa all’indennità di accompagnamento per cieco ventesimista; sentenza n. 40/2013 in tema di pensione di inabilità civile e indennità di accompagnamento; sentenza n. 329/2011 in relazione all’indennità di frequenza per minori invalidi; sentenza n. 187/2010 in materia di assegno mensile di invalidità, mentre per le prestazioni che vanno oltre il nucleo dei bisogni essenziali possono essere introdotti requisiti selettivi per i beneficiari, a condizione che rispettino il canone di ragionevole correlabilità.
2.7 Ragionevole correlabilità.
Al di fuori del «nucleo essenziale», quindi, il legislatore (sia nazionale che locale) non gode di una totale discrezionalità nello stabilire i criteri selettivi dei beneficiari, essendo necessario rispettare il principio di «ragionevole correlabilità». Tale principio, infatti, è stato ritenuto dalla Corte costituzionale come indispensabile filtro per verificare la ragionevolezza dei criteri selettivi posti dall’ordinamento per l’accesso alle prestazioni sociali.
Con sentenza n. 137/2021, la Corte costituzionale ha ribadito che «il legislatore può legittimamente circoscrivere la platea dei beneficiari delle stesse prestazioni sociali, purché le sue scelte rispettino rigorosamente il canone di ragionevolezza; trattandosi di provvidenze a tutela di soggetti fragili, infatti, le eventuali limitazioni all’accesso devono esprimere un’esigenza chiara e razionale, senza determinare discriminazioni (sentenze n. 50 del 2019, n. 166 del 2018, n. 133 del 2013 e n. 432 del 2005)». In particolare, la Corte, nella sentenza n. 432/2005, riguardante una legge della Regione Lombardia che riservava il trasporto gratuito per gli invalidi sulle linee regionali ai soli cittadini italiani, ha affermato: «distinguere, ai fini della applicabilità della misura in questione, cittadini italiani da cittadini di paesi stranieri … finisce dunque per introdurre nel tessuto normativo elementi di distinzione del tutto arbitrari, non essendovi alcuna ragionevole correlabilità tra quella condizione positiva di ammissibilità del beneficio (la cittadinanza italiana, appunto) e gli altri peculiari requisiti (invalidità al 100% e residenza) che ne condizionano il riconoscimento e ne definiscono la ratio e la funzione». Dev’essere, quindi, escluso che il principio della «ragionevole correlabilità» consenta di utilizzare esclusivamente il criterio della cittadinanza.
Una norma assistenziale, infatti, ha come sua ratio quella di accordare un beneficio di sostegno. L’esclusione di chi sia privo dello status civitatis si basa su una condizione personale di per sé irrilevante rispetto al bisogno e dunque completamente estranea alla ratio del sostegno. Conseguentemente, il criterio della cittadinanza non potrebbe mai essere introdotto, neppure per prestazioni del tutto esterne al nucleo essenziale.
2.8 Radicamento territoriale.
Anche il criterio selettivo costituito dal requisito del cosiddetto «radicamento territoriale», cioè della presenza per un periodo sufficientemente lungo sul territorio nazionale o regionale, è stato oggetto di vaglio da parte della Corte costituzionale e della CGUE.
E’ proprio tale requisito che assume rilevanza nella presente causa, avendo il legislatore condizionato l’accesso al beneficio del RDC al requisito della residenza di almeno dieci anni nel territorio nazionale.
In via generale, la Corte costituzionale (vedi sentenza 20 luglio 2018, n. 166) ha affermato che «ogni norma che imponga distinzioni fra varie categorie di persone in ragione della cittadinanza e della residenza per regolare l’accesso alle prestazioni sociali deve pur sempre rispondere al principio di ragionevolezza ex art. 3 della Costituzione (…) tale principio può ritenersi rispettato solo qualora esista una “causa normativa” della differenziazione, che sia “giustificata da una ragionevole correlazione tra la condizione cui è subordinata l’attribuzione del beneficio e gli altri peculiari requisiti che ne condizionano il riconoscimento e ne definiscono la ratio” (sentenza n. 107 del 2018). Una simile ragionevole causa normativa può in astratto consistere nella richiesta di un titolo che dimostri il carattere non episodico o di breve durata della permanenza sul territorio dello Stato: anche in questi casi, peraltro, occorre pur sempre che sussista una ragionevole correlazione tra la richiesta e le situazioni di bisogno o di disagio, in vista delle quali le singole prestazioni sono state previste (sentenza n. 133 del 2013).
Infine – continua la Corte costituzionale – “occorre che la distinzione non si traduca mai nell’esclusione del non cittadino dal godimento dei diritti fondamentali che attengono ai ‘bisogni primarì della persona, indifferenziabili e indilazionabili, riconosciuti invece ai cittadini (come precisato in progresso di tempo, ad esempio, dalle sentenze n. 306 del 2008, n. 187 del 2010, n. 2, n. 40 e n. 172 del 2013, n. 22 e n. 230 del 2015, n. 107 del 2018). Più specificamente, in relazione al requisito della residenza qualificata, [la] Corte con la sentenza n. 222 del 2013 ha ritenuto che le politiche sociali dirette al soddisfacimento dei bisogni abitativi possono prendere in considerazione un radicamento territoriale ulteriore rispetto alla semplice residenza, purché contenuto in limiti non palesemente arbitrari o irragionevoli”».
La Corte costituzionale, quindi, più volte chiamata a verificare la legittimità dei requisiti di lungo-residenza variamente introdotti dalle norme regionali, ha dichiarato incostituzionali tutte le disposizioni che prevedono requisiti di lungo-residenza per i soli cittadini stranieri, differenziando in modo illegittimo, sia pure mediante il riferimento alla residenza, la posizione dei cittadini italiani e quella degli stranieri. Proprio per questo la Corte ha dichiarato incostituzionali i seguenti requisiti di residenza nella regione (ove la provvidenza è stata istituita) previsti per i soli stranieri:
trentasei mesi per tutte le prestazioni sociali (Corte costituzionale n. 40/2011 – Regione Friuli: in questo caso, la legge regionale aveva previsto che il «diritto ad accedere agli interventi e ai servizi del sistema integrato» fosse riconosciuto soltanto a «tutti i cittadini comunitari residenti in regione da almeno trentasei mesi»);
cinque anni per un assegno familiare (Corte costituzionale n. 133/2013 – Regione Trentino-Alto Adige);
cinque anni sul territorio nazionale per tutte le prestazioni (Corte costituzionale n. 222/2013 – Regione Friuli);
cinque anni per le prestazioni sociali di natura economica (Corte costituzionale n. 2/2013 – Provincia Bolzano);
cinque anni per prestazioni per il diritto allo studio universitario (Corte costituzionale n. 2/2013 – Provincia Bolzano);
un anno per sovvenzioni all’apprendimento delle lingue straniere (Corte costituzionale n. 2/2013 – Provincia Bolzano);
cinque anni sul territorio nazionale (quale componente dell’accesso al permesso di lungo periodo) per l’assegno di cura (Corte costituzionale n. 172/2013).
Più complessa si pone la questione (che qui interessa) dei requisiti di residenza previsti indifferentemente per italiani e stranieri.
Sul punto, come detto, la Corte costituzionale è orientata nel senso che il criterio selettivo della residenza «non episodica» sul territorio risponda ai criteri di «ragionevole correlabilità» e che, per le prestazioni «non essenziali», sia anche ragionevole richiedere un certo «radicamento territoriale» purché senza distinzioni tra italiani e stranieri.
La Corte infatti (vedi, ad es., sentenze n. 40/2011 e n. 2/2013) ha affermato il principio secondo cui: «E’ possibile subordinare, non irragionevolmente, l’erogazione di determinate prestazioni sociali, non dirette a rimediare a gravi situazioni di urgenza, alla circostanza che il titolo di legittimazione dello straniero alla permanenza ne dimostri il carattere non episodico».
2.9 Il requisito della residenza protratta per un tempo sproporzionato.
Non risponde invece ai requisiti di ragionevole correlabilità il requisito della residenza protratta per un tempo sproporzionato.
La Corte, infatti, ha sempre affermato che, «mentre la residenza costituisce, rispetto a una provvidenza regionale, “un criterio non irragionevole per l’attuazione del beneficio”, non altrettanto può dirsi quanto alla residenza protratta per un predeterminato e significativo periodo di tempo (nella specie, quinquennale). La previsione di un simile requisito, infatti, ove di carattere generale e dirimente, non risulta rispettoso dei principi di ragionevolezza e di uguaglianza, in quanto introduce nel tessuto normativo elementi di distinzione arbitrari non essendovi alcuna ragionevole correlazione tra la durata della residenza e le situazioni di bisogno o di disagio, riferibili direttamente alla persona in quanto tale, che costituiscono il presupposto di fruibilità delle provvidenze in questione» (sentenza n. 222/2013), non essendo possibile «presumere, in termini assoluti, che lo stato di bisogno di chi risieda su un territorio da un periodo inferiore a quello richiesto, sia minore rispetto a quello di chi vi risiede da più tempo» (sentenza n. 40/2011).
Reiterando costantemente argomentazioni di questo tipo, la Corte ha dichiarato incostituzionali i seguenti requisiti previsti per la generalità dei richiedenti, italiani e stranieri:
tre anni di residenza ininterrotta nella Provincia di Trento per un «assegno di cura» (sentenza n. 172/2013);
ventiquattro mesi nella Regione Friuli per l’accesso al Fondo regionale per il contrasto ai fenomeni di povertà e disagio sociale e per il diritto a percepire assegni di studio (sentenza n. 222/2013);
otto anni nella Regione Valle d’Aosta per l’accesso agli alloggi ERP (sentenza n. 168/2014);
almeno cinque anni nel periodo immediatamente precedente la data di presentazione della domanda per beneficiare dei servizi abitativi pubblici nella Regione Lombardia (sentenza n. 44/2020).
In sostanza, tali sentenze non fanno altro che ribadire il principio fondamentale, sempre affermato dalla Corte costituzionale, secondo cui il requisito del radicamento territoriale può fungere da ragionevole criterio selettivo solamente in relazione alle provvidenze non correlate a situazioni di bisogno o di disagio e dirette, quindi, a soddisfare finalità eccedenti il nucleo intangibile dei diritti fondamentali della persona, solo se risponde ad un criterio di proporzionalità e ragionevolezza.
La CGUE, chiamata a vagliare la compatibilità con la normativa europea del requisito del soggiorno pregresso sul territorio dello Stato richiesto per beneficiare di una prestazione di inabilità, ha affermato che «se è pur vero che le modalità di applicazione di tale requisito non appaiono di per sé irragionevoli, occorre nondimeno rilevare che esso presenta un carattere troppo esclusivo.
Infatti, imponendo periodi specifici di soggiorno pregresso sul territorio dello Stato membro competente, il requisito di soggiorno pregresso privilegia indebitamente un elemento che non è necessariamente rappresentativo del grado reale ed effettivo di collegamento tra il richiedente una prestazione per inabilità temporanea per giovani disabili ed il detto Stato membro, con esclusione di ogni altro elemento rappresentativo. Esso eccede in tal modo quanto necessario per raggiungere l’obiettivo perseguito» (sentenza 1° luglio 2011, causa C-503/09, Stewart-Regno Unito, ripresa dalla successiva sentenza 4 ottobre 2013, causa C-220/12, Meneses-Region Hannover che, in tema di bonus studio, ha ribadito che «la prova richiesta da uno Stato membro per poter far valere l’esistenza di un grado reale di collegamento non deve avere carattere troppo esclusivo, privilegiando indebitamente un elemento non necessariamente rappresentativo del grado reale ed effettivo di collegamento tra il richiedente e lo Stato membro medesimo, restando escluso qualsiasi altro elemento rappresentativo»).
La sola residenza, quindi, non può integrare di per sé un criterio affidabile che possa attestare un effettivo collegamento con lo Stato che eroga la provvidenza.
2.10 Discriminazione indiretta.
Va altresì rilevato come la giurisprudenza della CGUE abbia sempre dato per scontato che un requisito di lungo-residenza possa costituire una discriminazione indiretta in ragione della cittadinanza, senza necessità di appoggiarsi a un particolare dato statistico.
In particolare, la CGUE, con sentenza 16 gennaio 2003, Commissione c. Repubblica italiana, causa C-388/01 (relativa alle agevolazioni tariffarie per l’accesso ai Musei comunali assicurate alle sole persone residenti), ha affermato: «13. Risulta del pari dalla giurisprudenza della Corte (v., in particolare, sentenza 5 dicembre 1989, causa C-3/88, Commissione/Italia, Race, pag. 4035, punto 8) che il principio di parità di trattamento, del quale l’art. 49 CE è specifica espressione, vieta non soltanto le discriminazioni palesi basate sulla cittadinanza; ma anche qualsiasi forma di discriminazione dissimulata che, mediante il ricorso ad altri criteri distintivi, produca, in pratica, lo stesso risultato. 14. Ciò avviene, in particolare, nel caso di una misura che preveda una distinzione basata sul criterio della residenza, in quanto quest’ultimo rischia di operare principalmente a danno dei cittadini di altri Stati membri, considerato che il più delle volte i non residenti sono cittadini di altri Stati membri (v., in particolare, sentenza 29 aprile 1999, causa C-224/97, Ciola, Race, punto 14). A tale riguardo è irrilevante che la misura controversa riguardi, eventualmente, tanto i cittadini italiani residenti nelle altre parti del territorio nazionale quanto i cittadini degli altri Stati membri. Perché una misura possa essere qualificata come discriminatoria non è necessario che abbia l’effetto di favorire tutti i cittadini nazionali o di discriminare soltanto i cittadini degli altri Stati membri esclusi i cittadini nazionali (v., in tal senso, in particolare sentenza 6 giugno 2000, causa C-281/98, Angonese, Race, pag. 1-4139, punto 41).»
Nello stesso senso, la CGUE, con sentenza 10 marzo 1993, Commissione c. Lussemburgo, causa C-111/91 (relativa ad una disposizione che prevedeva, ai fini dell’erogazione di un assegno di natalità una tantum, il requisito di anzianità di residenza nell’anno antecedente alla nascita) aveva già chiarito che «le norme del Trattato e dell’art. 7 del regolamento n. 1612/1968 in materia di parità di trattamento vietano non soltanto le discriminazioni palesi basate sulla cittadinanza, ma anche qualsiasi discriminazione dissimulata che, pur fondandosi su altri criteri di riferimento, pervenga al medesimo risultato (sentenza 12 febbraio 1974, causa 152/73, Sotgiu, Race, pag. 153, punto 11 della motivazione). 10. Tale è appunto il caso del requisito che la madre abbia risieduto nel territorio del Granducato durante l’intero anno precedente la nascita del bambino. Un requisito del genere, infatti, può essere più facilmente soddisfatto da una cittadina lussemburghese che da una cittadina di un altro Stato membro (v. sentenza 17 novembre 1992, causa C-279/89, Commissione/Regno Unito, Race, pag. 1-5785, punto 42 della motivazione».
Ciò che la Corte di giustizia vuole sottolineare, quindi, è che la percentuale di cittadini che risiedono da lungo tempo sul territorio nazionale (o regionale) è certamente superiore alla corrispondente percentuale di stranieri. Conseguentemente, un simile criterio, basato sulla lunga residenza, finisce per costituire – di norma – una discriminazione indiretta tra cittadini e stranieri.
2.11 Corte costituzionale n. 19/2022: Prospettiva di stabilità. In questo quadro giurisprudenziale (definito dalle citate sentenze della Corte costituzionale sul principio della ragionevole correlabilità e da quelle della CGUE sulla discriminatorietà indiretta) si colloca la citata decisione della Corte costituzionale n. 19/2022 il cui esito negativo non è dirimente per la questione odierna.
Dalle motivazioni di tale sentenza emerge, infatti, che ciò che sorregge la «ragionevole correlabilità» tra requisito del permesso di lungo periodo e ratio della prestazione non è tanto il pregresso inserimento sociale del richiedente (che sarebbe inesigibile da chi appunto accede a una prestazione volta all’inserimento sociale, non potendo essere l’inserimento sociale ad un tempo requisito e finalità della prestazione), né la pregressa residenza (che la Corte non considera affatto nel punto della motivazione dedicato alla «ragionevole correlabilità»), ma esclusivamente la natura a tempo indeterminato del permesso.
Dunque, il fondamento della ritenuta «ragionevolezza» è solo nella prospettiva di stabilità, attestata dal fatto che il beneficiario non deve sottoporsi ogni due anni alla verifica del titolo di soggiorno.
La Corte prescinde, quindi, totalmente dal fatto che il requisito del permesso di lungo periodo comporta anche una presenza pregressa di almeno cinque anni e non considera questo un elemento utile al fine della giustificazione del requisito.
Considera, invece, che il lungo-soggiornante ha un permesso a tempo indeterminato e perciò è ragionevole riservare a lui il percorso di inserimento sociale.
Così argomentando, la Corte conferma, dunque, il suo orientamento (espresso da ultimo nella sentenza n. 44/2020) secondo il quale la pregressa residenza in un determinato luogo, di per sé considerata, è priva di qualsiasi valore prognostico circa la futura stabilizzazione su un territorio (tanto più, può aggiungersi, quando l’ordinamento consideri anche la residenza discontinua), dovendosi invece avere riguardo a «indici di probabilità di permanenza per il futuro».
La Corte, infatti, nella citata sentenza, in relazione all’accesso all’edilizia residenziale pubblica, ha così chiaramente affermato: «La previa residenza ultraquinquennale non è di per sé indice di un’elevata probabilità di permanenza in un determinato ambito territoriale, mentre a tali fini risulterebbero ben più significativi altri elementi sui quali si possa ragionevolmente fondare una prognosi di stanzialità. In altri termini, la rilevanza conferita a una condizione del passato, quale è la residenza nei cinque anni precedenti, non sarebbe comunque oggettivamente idonea a evitare il “rischio di instabilità” del beneficiario dell’alloggio di edilizia residenziale pubblica, obiettivo che dovrebbe invece essere perseguito avendo riguardo agli indici di probabilità di permanenza per il futuro».
Anche in relazione ai beneficiari del RDC si ripropone la stessa valutazione prognostica e si deve concludere che la preventiva residenza non può ragionevolmente fondare una prognosi di stanzialità, essendovi altri elementi maggiormente sintomatici in grado di attestare tale situazione, come, ad es., essere iscritto all’anagrafe, essere titolare di un’abitazione, essere un “lavoratore” che, rimasto incolpevolmente privo di occupazione, è seriamente in cerca di un nuovo impiego, essere genitore di figli regolarmente iscritti al ciclo scolastico, etc.: tali condizioni costituiscono certamente la spia di una più che probabile permanenza nel territorio italiano per il futuro.
2.12 Posizione dei cittadini UE: parità di trattamento con i cittadini italiani nell’accesso alle prestazioni di assistenza sociale.
In questa sede, ciò che si deve esaminare è la posizione dei cittadini dell’UE nonché dei loro familiari, titolari del diritto di soggiorno temporaneo o permanente, presi in considerazione dall’art. 2 del citato decreto-legge n. 4/2019, convertito in legge n. 26/2019. Occorre premettere che la disciplina del soggiorno dei cittadini europei e dei loro familiari (di Paesi terzi) in Italia è contenuta nel decreto legislativo n. 30/2007 che ha dato attuazione alla direttiva 2004/38/CE.
Per il soggiorno non superiore a tre mesi (c.d. «di breve durata») non vi sono formalità particolari a carico di quei cittadini e familiari: in specie, essi godono della parità di trattamento rispetto ai cittadini italiani, ma non accedono alle prestazioni di assistenza sociale che non derivino dall’attività esercitata o da specifiche norme di legge.
Il soggiorno superiore a tre mesi (c.d. «di lunga durata»), invece, è possibile solo a determinate condizioni che implicano, in sostanza, la disponibilità di risorse sufficienti per non gravare sull’assistenza sociale dello Stato ospite e dà diritto, tra l’altro, a svolgere attività lavorative e alle prestazioni di assistenza sociale a parità di trattamento con i cittadini italiani (art. 7, decreto legislativo n. 30/2007).
Le modalità, infatti, con le quali l’ordinamento prevede la verifica delle condizioni che fondano il diritto al soggiorno dei cittadini dell’Unione sono previste dal citato art. 7, decreto legislativo n. 30/2007 e consistono nell’iscrizione anagrafica, prevista dall’art. 9 del decreto stesso.
In sede di iscrizione all’anagrafe il cittadino dell’Unione deve dimostrare di essere lavoratore dipendente o autonomo o di essere familiare di un lavoratore dipendente o autonomo o di avere «risorse economiche sufficienti per non diventare un onere a carico dell’assistenza sociale nel periodo di soggiorno»: una volta effettuate tali verifiche, che competono all’amministrazione comunale, il cittadino dell’Unione formalizza il suo diritto al soggiorno per un periodo superiore a tre mesi e, decorsi cinque anni, acquisisce il diritto al soggiorno permanente ai sensi dell’art. 14, decreto legislativo n. 30/2007 («Il cittadino dell’Unione che ha soggiornato legalmente ed in via continuativa per cinque anni nel territorio nazionale ha diritto al soggiorno permanente …»).
Tale ultimo diritto è irrevocabile, nel senso che prescinde dalle eventuali successive modifiche della sua situazione economica e personale.
Il punto è disciplinato dall’art. 16, par. 1 della direttiva, a norma del quale il diritto al soggiorno permanente «non è subordinato alle condizioni di cui al capo terzo» e, dunque, neppure alla condizione di «non diventare un onere eccessivo per il sistema sociale dello stato membro ospitante» (vedi anche art. 14, comma 1, decreto legislativo n. 30/2007). Per quel che interessa, i beneficiari del diritto di soggiorno e di soggiorno permanente in Italia godono della parità di trattamento con i cittadini italiani anche nell’accesso alle prestazioni di assistenza sociale (artt. 24, direttiva 2004/38 e 19, decreto legislativo n. 30/2007).
In particolare, l’art. 24 della direttiva precisa quanto segue: «1. Fatte salve le disposizioni specifiche espressamente previste dal Trattato e dal diritto derivato, ogni cittadino dell’Unione che risiede, in base alla presente direttiva, nel territorio dello Stato membro ospitante gode di pari trattamento rispetto ai cittadini di tale Stato nel campo di applicazione del Trattato. Il beneficio di tale diritto si estende ai familiari non aventi la cittadinanza di uno Stato membro che siano titolari del diritto di soggiorno o del diritto di soggiorno permanente.
2. In deroga al paragrafo 1, lo Stato membro ospitante non è tenuto ad attribuire il diritto a prestazioni d’assistenza sociale durante i primi tre mesi di soggiorno o, se del caso, durante il periodo più lungo previsto all’art. 14, paragrafo 4, lettera b), né è tenuto a concedere prima dell’acquisizione del diritto di soggiorno permanente aiuti di mantenimento agli studi, compresa la formazione professionale, consistenti in borse di studio o prestiti per studenti, a persone che non siano lavoratori subordinati o autonomi, che non mantengano tale status o loro familiari». Secondo la Corte di giustizia dell’Unione europea, le «prestazioni d’assistenza sociale» fanno riferimento «all’insieme dei regimi di assistenza istituiti da autorità pubbliche a livello nazionale, regionale o locale, a cui può ricorrere un soggetto che non disponga delle risorse economiche sufficienti a far fronte ai bisogni elementari propri e a quelli della sua famiglia». Tra queste prestazioni assistenziali possono essere annoverate quelle «prestazioni speciali in denaro di carattere non contributivo previste dalla legislazione la quale … ha caratteristiche tanto della legislazione in materia di sicurezza sociale di cui all’art. 3, paragrafo 1, quanto di quella relativa all’assistenza sociale» ed, in particolare, quelle intese «a garantire, alle persone interessate, un reddito minimo di sussistenza in relazione al contesto economico e sociale dello Stato membro interessato» (art. 70, par. 2, regolamento n. 883/2004).
Con la sentenza dell’11 novembre 2014 , causa C-333/13, Dano, punto 63, la Corte ha chiarito che «”le prestazioni speciali in denaro di carattere non contributivo” previste dall’art. 70, paragrafo 2, [del] regolamento [n. 883/2004] ben ricadono nella nozione di “prestazioni d’assistenza sociale” ai sensi dell’art. 24, paragrafo 2, della direttiva 2004/38. Tale nozione, infatti, fa riferimento all’insieme dei regimi di assistenza istituiti da autorità pubbliche a livello nazionale, regionale o locale, a cui può ricorrere un soggetto che non disponga delle risorse economiche sufficienti a far fronte ai bisogni elementari propri e a quelli della sua famiglia e che rischia, per questo, di diventare, durante il suo soggiorno, un onere per le finanze pubbliche dello Stato membro ospitante che potrebbe produrre conseguenze sul livello globale dell’aiuto che può essere concesso da tale Stato». Le «prestazioni di assistenza sociale» rientrano tra le prestazioni di «sicurezza sociale» di cui al regolamento n. 883/2004, alle quali il giudice sovranazionale riconduce tutte le prestazioni che vengono erogate dagli Stati membri in base a criteri oggettivi e predeterminati, indipendentemente dalla modalità di finanziamento e senza discrezionalità del soggetto erogatore (vedi, da ultimo, Corte di giustizia, 2 settembre 2021, causa C-350/20, O.D. e a.c. INPS, punti 53 e segg.).
Ne consegue che il RDC e la PDC – essendo misure rivolte al contrasto alla povertà assoluta che vengono corrisposte con le modalità sopra ricordate – possono rientrare in detta nozione (avendo appunto lo scopo ex art. 70, regolamento n. 883/2004 di «garantire, alle persone interessate, un reddito minimo di sussistenza in relazione al contesto economico e sociale dello Stato membro interessato») e, quindi, debbono essere concesse a tutti i cittadini UE in regime di parità di trattamento.
L’art. 24 della direttiva 2004/38 dispone – come abbiamo visto – che «ogni cittadino dell’Unione che risiede, in base alla presente direttiva, nel territorio dello Stato membro ospitante gode di pari trattamento rispetto ai cittadini di tale Stato nel campo di applicazione del Trattato. Il beneficio di tale diritto si estende ai familiari non aventi la cittadinanza di uno Stato membro che siano titolari del diritto di soggiorno o del diritto di soggiorno permanente».
Sulla base della direttiva, la parità di trattamento nell’accesso alle prestazioni di assistenza sociale riguarderebbe appieno, però, solo i soggiornanti permanenti, mentre per quelli di breve e di lungo periodo, se «inattivi», è solo discrezionale. Infatti, il par. 2 del citato art. 24, afferma che «lo Stato membro ospitante non è tenuto ad attribuire il diritto a prestazioni d’assistenza sociale durante i primi tre mesi di soggiorno o, se del caso, durante il periodo più lungo previsto all’art. 14, paragrafo 4, lettera b)», cioè qualora «siano entrati nel territorio dello Stato membro ospitante per cercare un posto di lavoro». «In tal caso i cittadini dell’Unione e i membri della loro famiglia non possono essere allontanati fino a quando i cittadini dell’Unione possono dimostrare di essere alla ricerca di un posto di lavoro e di avere buone possibilità di trovarlo» (art. 14, comma 4, lettera b).
Negli ultimi anni, la Corte ha precisato queste deroghe in modo da evitare che i cittadini europei inattivi divengano un onere eccessivo per gli Stati ospitanti.
Nel già citato caso Dano, il giudice sovranazionale ha ricordato che tali Stati non sono tenuti a corrispondere dette prestazioni ai cittadini di altri Stati membri non solo in caso di soggiorno di breve periodo (conforme la sentenza del 25 febbraio 2016, C-299/14, Garcia-Nieto e al.), ma anche qualora essi non rispettino le condizioni per il soggiorno di lungo periodo, ad es., se non lavorano, non dispongono di risorse proprie sufficienti e soggiornano con il solo fine di beneficiare di un aiuto sociale. Nella sentenza Alimanovic (15 settembre 2015, causa C-67/14), la Corte ha poi affermato la possibilità di escludere dalle prestazioni in parola anche quei cittadini di altri Stati membri il cui diritto di soggiorno di lungo periodo nello Stato ospitante è giustificato unicamente dalla ricerca di un lavoro dopo averlo perso da più di sei mesi, senza che rilevi la dimostrazione di essere alla ricerca di un nuovo lavoro e di avere buone possibilità di trovarlo. In sostanza, per la direttiva 2004/38, come interpretata dalla Corte di giustizia, solo i cittadini europei «economicamente attivi» hanno sempre diritto ad accedere a tali prestazioni in condizioni di parità di trattamento con i cittadini dello Stato ospite. Il legislatore italiano, però, nel disciplinare il RDC, non si è attenuto a tali principi restrittivi (non avvalendosi della deroga di cui al citato par. 2, dell’art. 24 della direttiva), dato che l’art. 2, decreto-legge n. 4/2019 richiede sotto il profilo soggettivo la mera titolarità della cittadinanza UE per la richiesta del RDC, ponendosi così come lex specialis e permettendo a tutti i cittadini europei soggiornanti legalmente in Italia di accedere al beneficio, senza limitarlo a quelli economicamente attivi. Il comma primo di tale norma, infatti, stabilisce che «Il RDC è riconosciuto ai nuclei familiari in possesso cumulativamente, al momento della presentazione della domanda e per tutta la durata dell’erogazione del beneficio, dei seguenti requisiti:
a) con riferimento ai requisiti di cittadinanza, residenza e soggiorno, il componente richiedente il beneficio deve essere (…):
1) in possesso della cittadinanza italiana o di Paesi facenti parte dell’Unione europea, ovvero suo familiare, come individuato dall’art. 2, comma 1, lettera b), del decreto legislativo 6 febbraio 2007, n. 30, che sia titolare del diritto di soggiorno o del diritto di soggiorno permanente, ovvero cittadino di Paesi terzi in possesso del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo …».
Gli stranieri, quindi, che hanno diritto, in presenza degli altri requisiti ed in particolare di quelli di tipo economico, di accedere all’erogazione del reddito di cittadinanza sono:
i soggetti aventi cittadinanza in uno dei Paesi dell’Unione europea;
i soggetti aventi cittadinanza in un Paese extra-UE che sia in possesso di un permesso di soggiorno per soggiornanti di lungo periodo;
i soggetti aventi cittadinanza di un Paese extra-UE se è familiare di un cittadino italiano o di un cittadino di un Paese dell’Unione europea ed è in possesso di titolo di soggiorno di lungo periodo o permanente.
2.13 Il requisito della residenza decennale.
Tuttavia, il legislatore, al comma 2 di detta norma, ha introdotto un altro requisito (cumulativo): il possesso in capo al richiedente della residenza in Italia «per almeno dieci anni, di cui gli ultimi due, considerati al momento della presentazione della domanda e per tutta la durata dell’erogazione del beneficio, in modo continuativo».
Tale requisito, avendo di fatto ristretto il novero dei richiedenti al di là delle deroghe ammesse dal decreto legislativo n. 30/2007 e dalla direttiva 2004/38, ha l’effetto di escludere non solo i titolari del soggiorno di breve durata ma anche quelli titolari del soggiorno di lunga durata, non importa se attivi o inattivi, nonché un buon numero di soggiornanti permanenti se residenti da meno di dieci anni.
2.13.1 Discriminazione indiretta.
Occorre, innanzitutto ammettere che il predetto requisito della residenza decennale non rappresenta una discriminazione direttamente basata sulla nazionalità – come tale vietata, ad es., in base agli artt. 18 TFUE e 24 direttiva 2004/38 (per i cittadini europei e loro familiari), agli artt. 45 TFUE e 7, par. 2, regolamento n. 492/2019 (per i lavoratori), e al citato art. 4, regolamento n. 883/2004 (relativo ai sistemi di sicurezza sociale) – perché la norma impugnata lo estende anche ai cittadini italiani.
Esso però, ad avviso del Collegio, opera una discriminazione «indiretta» dato che sfavorisce i cittadini di altri Stati membri in misura maggiore rispetto ai cittadini italiani: per i primi, in gran parte nati e cresciuti al di fuori del territorio italiano, è oggettivamente più arduo soddisfare una condizione di questo tipo rispetto a chi, come i secondi, può più facilmente maturare i periodi di residenza utili.
In altri termini, come affermato dalla Corte di giustizia, il requisito della residenza «rischia di operare principalmente a danno dei cittadini di altri Stati membri, considerato che il più delle volte i non residenti sono cittadini di altri Stati membri» (sentenza del 16 gennaio 2003, causa C-388/01, Commissione c. Italia, punto 14. V. anche la sentenza del 18 luglio 2007, causa C-212/05, Hartmann, punto 31).
Il carattere discriminatorio emerge anche dal fatto che solo gli ultimi due anni devono essere continuativi: anche in questo caso, per i cittadini italiani è molto più facile dimostrare di aver «accumulato» i primi otto anni di residenza nel territorio italiano, in periodi anche lontani tra loro e spesso sin dalla nascita, rispetto ai cittadini di altri Stati UE che in buona parte si trasferiscono in Italia dopo un certo numero di anni trascorsi altrove.
La Corte di giustizia – come sopra detto – ha più volte affermato che le restrizioni fondate sulla residenza – così come ogni restrizione delle libertà fondamentali dei Trattati – possono risolversi in discriminazioni non solo dirette (come nel caso della condizione della residenza imposta dal Belgio solo ai lavoratori di altri Stati membri per l’accesso al c.d. «minimex», una misura simile al RDC: sentenze del 27 marzo 1985, causa 249/83, Hoeckx, e causa 122/84, Scrivner), ma anche indirette, vietate al pari delle prime qualora non si basino su considerazioni oggettive indipendenti dalla cittadinanza dei soggetti interessati e non siano proporzionate rispetto all’obiettivo da raggiungere (vedi, ad es., le sentenze del 18 luglio 2006, causa C-406/04, De Cuyper, punto 40; del 26 ottobre 2006, causa C-192/05, Tas-Hagen e Tas, punto 33; del 23 ottobre 2007, cause riunite C-11 e 12/06, Morgan e Bucher, punto 33; e del 18 luglio 2013, cause riunite C-523 e 585/11, Prinz, punto 23).
Posto che una misura è proporzionata nel caso in cui sia idonea a realizzare l’obiettivo perseguito senza andare oltre quanto necessario per il suo raggiungimento (sentenze De Cuyper, punti 40 e 42; Morgan e Bucher, punto 33; Prinz, punto 33), il giudice sovranazionale ha talvolta valorizzato il requisito del grado reale di integrazione, sostenendo che una condizione unica di residenza rischia di escludere dal beneficio i cittadini europei che non soddisfino detta condizione ma abbiano, ciò nonostante, effettivi collegamenti sotto il profilo dell’integrazione in tale Stato (sentenza del 26 febbraio 2015, causa C-359/13, Martens, punto 39. V. anche la sentenza del 13 dicembre 2012, causa C-379/11, Caves Krier Freres, punto 53).
2.13.2 Sproporzionatezza.
Ad avviso del Collegio, il requisito della residenza decennale e biennale continuativa di cui all’art. 2, decreto-legge n. 4/2019 risulta sproporzionato perché privo di ragionevole correlabilità e, quindi, indirettamente discriminatorio – proprio in virtù del fatto che non prende in considerazione il grado effettivo di integrazione di quei cittadini europei e loro familiari che, pur risiedendo in Italia da meno tempo o in maniera non continuativa negli ultimi due anni, sono, sulla base di altri concordanti elementi, sufficientemente integrati nel nostro Paese.
In particolare, tale ulteriore requisito si pone in palese contrasto con l’art. 24 della direttiva 2004/38/CE, laddove afferma, in tema di prestazioni d’assistenza sociale, la parità di trattamento del cittadino europeo (vedi anche l’art. 19, decreto legislativo 6 febbraio 2007, n. 30 – Attuazione della direttiva 2004/38/CE).
Dal Report RDC Aprile 2022 redatto dall’INPS emerge, infatti, che nell’88% dei casi il richiedente la prestazione è cittadino italiano, nell’8% è un cittadino extracomunitario in possesso di un permesso di soggiorno, nel 4% è un cittadino europeo. E ciò, nonostante, dal Report ISTAT 2020 risulta che la quota di persone considerate a rischio povertà, che tra i cittadini italiani è pari al 18,9% del totale, sale al 24,2% per i cittadini comunitari e al 36% nel caso degli extra-comunitari.
Peraltro, la stessa relazione del Comitato scientifico per la valutazione del reddito di cittadinanza dell’ottobre 2021, ha segnalato, tra le maggiori criticità della misura, proprio il requisito della residenza decennale, responsabile dell’esclusione, di fatto, di un’ampia parte di stranieri. Al fine di superare tale problema, il Comitato ha proposto di applicare al RDC il requisito biennale previsto per il REM (reddito di emergenza), ovvero, in subordine, di abbassare il requisito a cinque anni. L’ampliamento della categoria dei cittadini europei e loro familiari si riverbererebbe in senso favorevole anche sui cittadini italiani che abbiano o non abbiano esercitato i diritti di circolazione dei Trattati UE. Quanto ai primi, da tempo la Corte di giustizia ha affermato che non si ricade in situazioni puramente interne – e che, quindi, le norme del diritto UE possono essere fatte valere nei confronti dello Stato membro di cittadinanza – nel caso in cui i cittadini nazionali beneficino o abbiano beneficiato della libertà di circolazione. Pertanto, i cittadini italiani che abbiano spostato la propria residenza in altri Stati membri e siano a un certo punto rientrati in Italia sarebbero trattati in maniera non meno favorevole dei cittadini europei e loro familiari, accedendo così al RDC e alla PDC alle stesse loro (più favorevoli) condizioni anche se non soddisfano il requisito della residenza indicato dalla normativa. Peraltro tali cittadini italiani, così come quelli che non hanno mai usufruito del diritto di circolazione e che così subirebbero una discriminazione c.d. «a rovescio», si vedrebbero garantire la parità di trattamento anche in base all’art. 53 della legge n. 234/2012, per il quale «nei confronti dei cittadini italiani non trovano applicazione norme dell’ordinamento giuridico italiano o prassi interne che producano effetti discriminatori rispetto alla condizione e al trattamento garantiti nell’ordinamento italiano ai cittadini dell’Unione europea».
Alla luce delle sopraesposte argomentazioni, i cittadini dell’Unione, aventi diritto di soggiorno, si trovano in posizione del tutto analoga a quella esaminata dalla Corte costituzionale del soggiornante extracomunitario di lungo periodo, potendo perdere il diritto al soggiorno solo in casi eccezionali, analogamente al titolare del permesso di lungo soggiornante (che ha ottenuto il titolo dopo cinque anni di residenza in Italia); e non essendo sottoposti alla procedura di rinnovo della autorizzazione al soggiorno.
Ne deriva, allora, che il cittadino dell’Unione avente diritto al soggiorno soddisfi quella condizione che, secondo la sentenza n. 19/2022, giustifica l’apposizione di requisiti restrittivi per l’accesso a una prestazione di «inserimento sociale» quale il RDC.
Sussistendo tale condizione, l’ulteriore requisito di aver soggiornato per un periodo più o meno lungo in Italia (in periodi eventualmente anche lontanissimi nel tempo), è – come detto – privo di qualsiasi rilevanza sotto il profilo delle prospettive di «stabilizzazione» e, dunque, è privo di “ragionevole correlazione” proprio secondo i parametri indicati dalla sentenza n. 19/2022. Tutte le predette considerazioni rilevano anche nell’ambito del giudizio di «giustificazione» della discriminazione indiretta e portano a concludere che il requisito di residenza decennale, da un lato, persegue uno scopo di dubbia legittimità (aiutare i bisognosi di un inserimento sociale solo in quanto «radicati» nel territorio e non in quanto bisognosi) e, dall’altro, persegue detta finalità con mezzi sicuramente non «proporzionati e necessari».
Il «particolare svantaggio» che grava sui cittadini UE a causa del predetto requisito non è, quindi, giustificato ed è perciò in contrasto con il divieto di discriminazione in ragione della nazionalità nell’accesso ai vantaggi sociali ex art. 7, par. 2 del regolamento e anche con il diritto alla parità di trattamento di cui all’art. 24, direttiva 2004/38.
Va inoltre osservato che la scelta di premiare il «bisognoso stanziale» rispetto al «bisognoso mobile» non è sostenuta da nessun argomento convincente: anzi, la persona bisognosa tende naturalmente a spostarsi al fine di ricercare nuove opportunità e poter così diventare, appunto, meno bisognosa; chi invece ha già un tenore di vita dignitoso – anche solo per il fatto di aver ottenuto un contratto di locazione decente o per essere riuscito ad acquistare una casa, anche se di qualità minimale – tenderà naturalmente a una minore mobilità: ma appunto se ha già raggiunto un decoroso livello di vita non dovrebbe essere collocato al primo posto tra i destinatari di interventi di sostegno.
D’altra parte, varie ricerche sociologiche (vedi ricerca Eupolis Lombardia del 2015) dimostrano che, in particolare nei contesti urbanizzati del Nord, i soggetti più bisognosi sono le famiglie giovani con elevata mobilità e quindi con una bassa anzianità di residenza nella medesima regione.
Infine, se proprio si volesse ritenere che il «radicamento territoriale» debba essere uno dei criteri di accesso al welfare, non è neppure detto che il riferimento alla pregressa residenza, sganciata da qualsiasi ulteriore elemento di «stabilità» (quale può essere appunto un lavoro o un alloggio) fornisca una prognosi significativa circa la stabilità futura del beneficiario; il quale ben potrebbe migrare – per un motivo qualsiasi – anche il giorno dopo aver avuto accesso a una determinata prestazione.
Nella specie, peraltro, il “radicamento” è garantito dal fatto che, per beneficiare del RDC e del progetto di inserimento sociale, il soggetto debba risiedere stabilmente nel territorio dello Stato italiano «per tutta la durata del beneficio» (art. 2, lettera a), n. 2, decreto-legge n. 19/2019).
L’erogazione del beneficio è, infatti, condizionata alla dichiarazione di immediata disponibilità al lavoro da parte dei componenti il nucleo familiare maggiorenni, nonché all’adesione ad un percorso personalizzato di accompagnamento all’inserimento lavorativo e all’inclusione sociale che prevede attività al servizio della comunità, di riqualificazione professionale, di completamento degli studi, nonché altri impegni individuati dai servizi competenti finalizzati all’inserimento nel mercato del lavoro e all’inclusione sociale.
Il soggetto beneficiario, quindi, si obbliga a rispettare il «Patto per il lavoro» (il cui contenuto è descritto nell’art. 4, comma 8, lettera b) e ad accettare la proposta di assunzione «congrua» (comma 9) e a sottoporsi al percorso personalizzato di inserimento sociale (comma 12 e segg.), pena la perdita del beneficio.
Nel caso in cui il bisogno sia complesso, i servizi dei comuni competenti per il contrasto alla povertà procedono ad una valutazione multidimensionale del nucleo familiare al fine di avviare il percorso di attivazione sociale e lavorativa coinvolgendo, oltre ai servizi per l’impiego, altri enti territoriali competenti. La valutazione multidimensionale è composta da un’analisi preliminare e da un quadro di analisi approfondito che mettono in luce bisogni e punti di forza della famiglia al fine di condividere con la famiglia gli interventi e gli impegni necessari a garantire il percorso di fuoriuscita dalla povertà che verranno sottoscritti con il «Patto per l’inclusione sociale».
L’adesione a tale progetto personalizzato fa sorgere già di per sé una «prospettiva di stabilità» in capo allo straniero, essendosi questi impegnato a rispettare, unitamente al proprio nucleo familiare, il contenuto degli obblighi indicati nel patto tra cui quello di seguire il percorso di avviamento al lavoro e di inclusione sociale.
2.13.3 Questione principale di incostituzionalità.
In via principale, quindi, questo Collegio ritiene rilevante e non manifestamente infondata in riferimento agli artt. 3, 11 e 117, primo comma, della Costituzione, questi ultimi in relazione agli artt. 21 e 34 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, all’art. 24, comma 1, direttiva 2004/38/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 29 aprile 2004, relativa al diritto dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri, e all’art. 7, par. 2, del regolamento n. 492/2011 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 5 aprile 2011, relativo alla libera circolazione dei lavoratori all’interno dell’Unione, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 1, lettera a), n. 2), del decreto-legge 28 gennaio 2019, n. 4, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 marzo 2019, n. 26 (recante «Disposizioni urgenti in materia di reddito di cittadinanza e di pensioni»), nella parte in cui prevede che il beneficiario del reddito di cittadinanza debba essere «residente in Italia per almeno dieci anni, di cui gli ultimi due, considerati al momento della presentazione della domanda e per tutta la durata dell’erogazione del beneficio, in modo continuativo».
2.13.4 In subordine, riduzione del requisito di residenza decennale: «punti di riferimento» ricavabili dal sistema che inducono a diminuire il requisito ad almeno cinque anni complessivi o agli ultimi due anni continuativi.
In subordine, se si dovesse comunque ritenere che, nella specie, attesa la natura «mista» del beneficio, possa dirsi legittima l’imposizione di un requisito di residenza pregressa, questo giudice non può fare a meno di osservare che il requisito della residenza decennale appaia in ogni caso sproporzionato e non ragionevole.
Facendo riferimento alla sopracitata sentenza n. 19/2022, il Collegio ritiene che l’imposizione di un gravoso requisito di pregressa residenza sia esorbitante rispetto ai confini della ragionevolezza e, quindi, non sia funzionale alla ratio del reddito di cittadinanza poiché, se è vero che «l’orizzonte temporale della misura non è di breve periodo» e che «il legislatore, nell’esercizio della sua discrezionalità, non irragionevolmente ha destinato agli stranieri soggiornanti in Italia a tempo indeterminato», deve ritenersi, in generale, che il possesso di un titolo di soggiorno (quantomeno) permanente sia sufficiente a concretizzare quel «consolidato radicamento nel territorio» che attesti la «stabilità della presenza sul territorio» e garantisca, quindi, «l’assunzione di precisi impegni dei beneficiari, diretta ad immettere il nucleo famili are beneficiario in un “percorso personalizzato di accompagnamento all’inserimento lavorativo e all’inclusione sociale che prevede attività al servizio della comunità, di riqualificazione professionale, di completamento degli studi, nonché altri impegni individuati dai servizi competenti finalizzati all’inserimento nel mercato del lavoro e all’inclusione sociale” (art. 4, comma 1, del decreto-legge n. 4 del 2019, come convertito)» (Corte costituzionale n. 19/2022).
A tal proposito, la Corte costituzionale (vedi, ad es., sentenza n. 157 del 2021 in tema di patrocinio a spese dello Stato) ha affermato che, anche nei casi in cui sia riconosciuto al legislatore la potestà di disciplinare la materia con «una rilevante discrezionalità», «tuttavia, questo non sottrae tale formazione al giudizio sulla legittimità costituzionale, in presenza di una «manifesta irragionevolezza o arbitrarietà delle scelte adottate (da ultimo, sentenze n. 97 del 2019 e n. 81 del 2017; ordinanza n. 3 del 2020)» (sentenza n. 47 del 2020), in quanto è necessario «evitare zone franche immuni dal sindacato di legittimità costituzionale, tanto più ove siano coinvolti i diritti fondamentali e il principio di eguaglianza, che incarna il modo di essere di tali diritti» (sentenza n. 63 del 2021).
A ciò deve aggiungersi che la «ammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale risulta […] condizionata non tanto dall’esistenza di un’unica soluzione costituzionalmente obbligata, quanto dalla presenza nell’ordinamento di una o più soluzioni costituzionalmente adeguate, che si inseriscano nel tessuto normativo coerentemente con la logica perseguita dal legislatore (si veda, da ultimo, la sentenza n. 252 del 2020 e in senso conforme le sentenze n. 224 del 2020; n. 99 del 2019; n. 233, n. 222 e n. 41 del 2018; n. 236 del 2016)» (sentenza n. 63 del 2021). In tale prospettiva, onde non sovrapporre la propria discrezionalità a quella del Parlamento, la valutazione della Corte deve essere condotta attraverso «”precisi punti di riferimento e soluzioni già esistenti” (ex multis, sentenze n. 224 del 2020 e n. 233 e n. 222 del 2018; n. 236 del 2016)». Alla luce di tale insegnamento, ad avviso di questo Collegio, dall’ordinamento emergono chiari «punti di riferimento» che inducono a ritenere che, in relazione ai cittadini UE, possa essere più che sufficiente (per garantire l’esigenza di una prospettiva di stabilità dello straniero) la pregressa residenza quinquennale che dà diritto al rilascio del permesso di soggiorno permanente.
Nello specifico contesto, questo giudice rimettente sollecita, in via subordinata rispetto all’accoglimento delle questioni secondo il petitum di cui al punto 2.13.3, un intervento sostitutivo della Corte, segnalando che nell’ordinamento sono rilevabili «precisi punti di riferimento» rappresentati dal citato decreto legislativo n. 30/2007 che ha dato attuazione alla direttiva 2004/38/CE, prevedendo, in particolare, che «Il cittadino dell’Unione che ha soggiornato legalmente ed in via continuativa per cinque anni nel territorio nazionale ha diritto al soggiorno permanente …».
Deve pertanto ritenersi che la residenza prolungata per un periodo che permetta allo straniero (cittadino UE) di acquisire un titolo di soggiorno a tempo indeterminato (ovvero non revocabile se non per ipotesi eccezionali) possa considerarsi requisito sufficiente a garantire il “radicamento territoriale” in quanto, per ottenere tale titolo, l’ordinamento ha già valutato il carattere stabile della residenza dello straniero.
Ne consegue, allora, che la pretesa – per accedere al RDC – di un ulteriore requisito di lunga residenza non appare giustificato né ragionevole, ma solamente finalizzato a ridurre la platea degli stranieri che possano beneficiare di tale sussidio. La questione appare rilevante in quanto – come sopra esposto – le ricorrenti D., C. e T., al momento della presentazione della domanda, risultavano residenti in Italia da meno di cinque anni (le prime due dal 2016, l’ultima dal 2019).
In via subordinata, questo giudice dichiara rilevante e non manifestamente infondata, in riferimento agli stessi parametri evocati al punto 1 del dispositivo, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 1, lettera a), n. 2) del decreto-legge 28 gennaio 2019, n. 4, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 marzo 2019, n. 26 (recante «Disposizioni urgenti in materia di reddito di cittadinanza e di pensioni»), nella parte in cui prevede che il beneficiario del reddito di cittadinanza debba essere «residente in Italia per almeno dieci anni, di cui gli ultimi due, considerati al momento della presentazione della domanda e per tutta la durata dell’erogazione del beneficio, in modo continuativo», anziché prevedere che il beneficiario del reddito di cittadinanza che sia cittadino di uno Stato membro dell’Unione europea debba essere «residente in Italia per almeno cinque anni, di cui gli ultimi due, considerati al momento della presentazione della domanda e per tutta la durata dell’erogazione del beneficio, in modo continuativo».
Ancora in subordine, appare più che sufficiente, per garantire la prospettiva della stabilità, che il beneficiario sia residente in modo continuativo negli ultimi due anni, come previsto dalla stessa norma impugnata (che pretende però che tale requisito si inserisca nell’ambito della complessiva residenza decennale). Il cittadino UE, infatti, dopo i primi tre mesi, se si trova in determinate condizioni, può chiedere l’iscrizione all’anagrafe, dimostrando, ad es., di essere un lavoratore subordinato o autonomo nello Stato; di disporre per sé stesso e per i propri familiari di risorse economiche sufficienti; di essere iscritto presso un istituto pubblico o privato riconosciuto per seguirvi come attività principale un corso di studi o di formazione professionale, etc. La residenza biennale continuativa rappresenta senz’altro un elemento sintomatico del radicamento territoriale dello straniero comunitario il quale, per tale carattere, risulta meritevole di essere assoggettato al percorso di integrazione sociale prevista dal RDC.
In via ulteriormente subordinata, questo Collegio dichiara, quindi, rilevante e non manifestamente infondata, in riferimento ai medesimi parametri evocati al punto 1 del dispositivo, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 1, lettera a), n. 2) del decreto-legge 28 gennaio 2019, n. 4, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 marzo 2019, n. 26 (recante «Disposizioni urgenti in materia di reddito di cittadinanza e di pensioni»), nella parte in cui prevede che il beneficiario del reddito di cittadinanza debba essere «residente in Italia per almeno dieci anni, di cui gli ultimi due, considerati al momento della presentazione della domanda e per tutta la durata dell’erogazione del beneficio, in modo continuativo», anziché prevedere che il beneficiario del reddito di cittadinanza che sia cittadino di uno Stato membro dell’Unione europea debba essere «residente in Italia negli ultimi due anni, considerati al momento della presentazione della domanda e per tutta la durata dell’erogazione del beneficio, in modo continuativo».
P.Q.M.
Visti gli artt. 137 della Costituzione e 23 della legge n. 87/1953:
1) dichiara rilevante e non manifestamente infondata in riferimento agli artt. 3, 11 e 117, primo comma, della Costituzione, questi ultimi in relazione agli artt. 21 e 34 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, all’art. 24, comma 1, direttiva 2004/38/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 29 aprile 2004, relativa al diritto dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri, e all’art. 7, par. 2, del regolamento n. 492/2011 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 5 aprile 2011, relativo alla libera circolazione dei lavoratori all’interno dell’Unione, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 1, lettera a), n. 2) del decreto-legge 28 gennaio 2019, n. 4, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 marzo 2019, n. 26 (recante «Disposizioni urgenti in materia di reddito di cittadinanza e di pensioni»), nella parte in cui prevede che il beneficiario del reddito di cittadinanza debba essere «residente in Italia per almeno dieci anni, di cui gli ultimi due, considerati al momento della presentazione della domanda e per tutta la durata dell’erogazione del beneficio, in modo continuativo»;
2) in via subordinata, dichiara rilevante e non manifestamente infondata, in riferimento agli stessi parametri evocati al punto 1 del dispositivo, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 1, lettera a), n. 2) del decreto-legge 28 gennaio 2019, n. 4, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 marzo 2019, n. 26 (recante «Disposizioni urgenti in materia di reddito di cittadinanza e di pensioni»), nella parte in cui prevede che il beneficiario del reddito di cittadinanza debba essere «residente in Italia per almeno dieci anni, di cui gli ultimi due, considerati al momento della presentazione della domanda e per tutta la durata dell’erogazione del beneficio, in modo continuativo», anziché prevedere che il beneficiario del reddito di cittadinanza che sia cittadino di uno Stato membro dell’Unione europea debba essere «residente in Italia per almeno cinque anni, di cui gli ultimi due, considerati al momento della presentazione della domanda e per tutta la durata dell’erogazione del beneficio, in modo continuativo»;
3) in via ulteriormente subordinata, dichiara rilevante e non manifestamente infondata, in riferimento ai medesimi parametri evocati al punto 1 del dispositivo, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 1, lettera a), n. 2) del decreto-legge 28 gennaio 2019, n. 4, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 marzo 2019, n. 26 (recante «Disposizioni urgenti in materia di reddito di cittadinanza e di pensioni»), nella parte in cui prevede che il beneficiario del reddito di cittadinanza debba essere «residente in Italia per almeno dieci anni, di cui gli ultimi due, considerati al momento della presentazione della domanda e per tutta la durata dell’erogazione del beneficio, in modo continuativo», anziché prevedere che il beneficiario del reddito di cittadinanza che sia cittadino di uno Stato membro dell’Unione europea debba essere «residente in Italia negli ultimi due anni, considerati al momento della presentazione della domanda e per tutta la durata dell’erogazione del beneficio, in modo continuativo»;
Sospende il presente giudizio;
Ordina alla cancelleria di trasmettere gli atti alla Corte costituzionale;
Possono essere interessanti anche le seguenti pubblicazioni:
- CORTE COSTITUZIONALE - Sentenza n. 149 depositata il 18 luglio 2023 - Illegittimità costituzionale dell’art. 103, comma 1, del decreto-legge 19 maggio 2020, n. 34 (Misure urgenti in materia di salute, sostegno al lavoro e all’economia, nonché di…
- CORTE DI CASSAZIONE, sezione penale, sentenza n. 15314 depositata il 23 aprile 2021 - In tema d'imposte sui redditi, il citato art. 2, comma 2, del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 richiede, per la configurabilità della residenza fiscale nello Stato,…
- CORTE DI APPELLO MILANO - Sentenza 15 giugno 2021, n. 633 - Diniego dell’agevolazione economica, cd. bonus asilo, ai soli stranieri titolari di permesso di soggiorno di lungo periodo - Carattere discriminatorio della condotta - Parità di trattamento…
- INPS - Messaggio 04 giugno 2020, n. 2327 - Presentazione dell’istanza ai sensi dell’articolo 103 del decreto-legge 19 maggio 2020, n. 34, da parte di datori di lavoro italiani o cittadini di uno Stato membro dell’Unione europea, ovvero cittadini…
- CORTE COSTITUZIONALE - Ordinanza n. 29 del 27 febbraio 2024 - Rinvio alla Corte di giustizia dell’Unione europea, ai sensi e per gli effetti dell’art. 267 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, la seguente questione pregiudiziale: se…
- CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 24 maggio 2019, n. 14261 - Ai fini del riconoscimento di prestazioni sociali volte a rispondere ai bisogni primari della persona, nel nostro ordinamento non è consentita, ex artt. 2 e 3 Cost., alcuna differenziazione tra…
RICERCA NEL SITO
NEWSLETTER
ARTICOLI RECENTI
- E’ escluso l’applicazione dell’a
La Corte di Cassazione, sezione tributaria, con l’ordinanza n. 9759 deposi…
- Alla parte autodifesasi in quanto avvocato vanno l
La Corte di Cassazione, sezione lavoro, con la sentenza n. 7356 depositata il 19…
- Processo Tributario: il principio di equità sostit
Il processo tributario, costantemente affermato dal Supremo consesso, non è anno…
- Processo Tributario: la prova testimoniale
L’art. 7 comma 4 del d.lgs. n. 546 del 1992 (codice di procedura tributar…
- L’inerenza dei costi va intesa in termini qu
L’inerenza dei costi va intesa in termini qualitativi e dunque di compatibilità,…