CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 01 marzo 2019, n. 6148
Lavoro “nero” – Regolarizzazione – Rapporti di lavoro non qualificati dal vincolo della subordinazione – Illecito amministrativo
Rilevato che
La Corte d’Appello di Ancona, in riforma della pronuncia di primo grado, annullava l’ordinanza ingiunzione n.20306/2012 emessa dalla Direzione Territoriale di Pesaro ed Urbino nei confronti di U.P. avente ad oggetto il pagamento della somma di euro 48.241,00 irrogata in relazione a violazioni inerenti alla regolarizzazione del rapporto di lavoro con A.S.
A fondamento del decisum, ed in estrema sintesi, la Corte di merito argomentava che l’articolato quadro probatorio definito in prime cure – comprensivo delle dichiarazioni rilasciate dall’ingiunto alle quali parte appellata aveva erroneamente conferito valore confessorio – consentiva di escludere l’intercorrenza fra le parti di un rapporto di lavoro subordinato, integrante il presupposto stesso sul quale l’ordinanza ingiunzione, e la sottesa contestazione di illecito amministrativo, erano modulate.
Avverso tale decisione interpone ricorso per Cassazione l’Ispettorato Nazionale del Lavoro (già Direzione Territoriale di Pesaro ed Urbino), affidato ad unico motivo cui resiste con controricorso la parte intimata.
Considerato che
1. Con unico motivo si denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 36 bis d.l. n. 223 del 2006 conv. in legge n. 248/2006 in relazione all’art. 360 comma primo n. 3 c.p.c.
Ci si duole che il giudice del gravame abbia accolto le doglianze dell’ingiunto, tralasciando di considerare la norma invocata, applicabile ratione temporis, alla cui stregua “è punito l’impiego di lavoratori non risultanti dalle scritture contabili o da altra documentazione obbligatoria”, non limitando la sanzione ai soli lavoratori subordinati come previsto dall’art. 4 c. 1 l. 183/2010), ma estendendola anche ad altre categorie di rapporti di lavoro non qualificati dal vincolo della subordinazione.
2. Il motivo è inammissibile.
Ed invero, secondo il costante e condiviso insegnamento di questa Corte, cui va data continuità, qualora una determinata questione giuridica – che implichi un accertamento di fatto – non risulti trattata in alcun modo nella sentenza impugnata né indicata nelle conclusioni ivi epigrafate, il ricorrente che riproponga tale questione in sede di legittimità, al fine di evitare una statuizione di inammissibilità per novità della censura, ha l’onere non solo di allegare l’avvenuta deduzione della questione innanzi al giudice di merito, ma anche di indicare in quale scritto difensivo o atto del giudizio precedente lo abbia fatto, onde dar modo alla Corte di cassazione di controllare “ex actis” la veridicità di tale asserzione, prima di esaminare nel merito la questione stessa (vedi Cass. 22/4/2016 n. 8206, Cass. 18/10/2013 n. 23675).
Nello specifico, non può tralasciarsi di considerare come l’iter motivazionale che innerva l’impugnata sentenza, si dipani esclusivamente intorno ai profili della natura del rapporto di lavoro intercorso fra le parti, scrutinata alla stregua delle acquisizioni probatorie ed alla luce dei principi elaborati in sede dottrinaria e giurisprudenziale in ordine agli elementi qualificativi di tale rapporto. L’argomentato percorso seguito dai giudici del gravame sulla scorta degli elementi richiamati, è quindi sfociato nell’accertamento della insussistenza inter partes, di un rapporto di lavoro qualificato secondo i dettami di cui all’art. 2094 c.c. che escludeva “altresì, la sussistenza delle contestazioni di illecito amministrativo di cui all’impugnata ordinanza ingiunzione, presupponesti tale rapporto”.
Non è emerso, dunque, dal contesto della pronuncia impugnata, che il thema decidendum involgesse la prospettazione, da parte della D.T.L., della violazione di norme attinenti a rapporto di collaborazione coordinata e continuativa, essendo desumibile, per contro, che il provvedimento di ordinanza ingiunzione fosse modulato in relazione al diverso presupposto fattuale e giuridico, della intercorrenza fra le parti di un rapporto di lavoro subordinato.
3. Né il ricorrente, in conformità all’onere che su di lui gravava, ha specificamente allegato – secondo i richiamati dieta di questa Corte – l’avvenuta deduzione della questione innanzi al giudice di merito, corredandola con l’indicazione del tenore del provvedimento sanzionatorio (ordinanza ingiunzione) sul quale era modulato il diritto azionato, così non sottraendosi ad un giudizio di inammissibilità per la novità della questione trattata.
In tal senso deve darsi continuità a quanto affermato da questa Corte (vedi da ultimo, Cass. 12/12/2018 n. 32146) a mente della quale esorbita dai limiti di una consentita emendatio libelli il mutamento della causa petendi che consista in una vera e propria immutazione dei fatti costitutivi del diritto fatto valere in giudizio, in guisa tale da introdurre nel processo un tema di indagine e di decisione nuovo, perché fondato su presupposti diversi da quelli prospettati nell’atto introduttivo del giudizio, così da porre in essere una pretesa diversa da quella fatta valere in precedenza.
In definitiva, alla stregua di quanto esposto, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile.
Le spese del presente giudizio di legittimità seguono il regime della soccombenza, nella misura in dispositivo liquidata.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del DPR n. 115/02, nel testo risultante dalla legge 24.12.2012 n. 228, deve provvedersi.
Ricorrendone i presupposti, come da dispositivo.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che liquida in euro 200,00 per esborsi ed euro 4.000,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% ed accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del DPR n. 115/02, dà atto della non sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.