CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 01 settembre 2021, n. 23727

Licenziamento – Socio lavoratore di cooperativa sociale – Assenza dal lavoro, non dipendente da malattia bensì da detenzione – Esclusione dalla società

Rilevato che

con sentenza in data 21 febbraio 2018, la Corte di Appello di Napoli ha confermato la decisione del locale Tribunale che aveva respinto l’impugnativa della delibera di esclusione del socio S.S. e del licenziamento allo stesso intimato in data 29/10/2013;

in particolare, la Corte territoriale ha condiviso l’iter motivazionale del giudice di primo grado secondo cui, essendo il ricorrente socio lavoratore di cooperativa sociale assoggettata al regime di cui al D.L. n. 366 del 1987 (conv. in legge n. 452/1987) con la finalità di favorire l’inserimento nel mondo del lavoro di soggetti aventi determinati requisiti – adibendoli allo svolgimento di lavori socialmente utili – la sua incontestata assenza dal lavoro, non dipendente da malattia bensì da detenzione, legittimamente ne avesse comportato l’esclusione dalla società alla luce del chiaro disposto dell’art. 12 del DL in questione, nonché delle peculiari finalità della norma, speciale rispetto al regime codicistico previsto per le società cooperative; per la cassazione della sentenza propone ricorso S.S., affidandolo a due motivi;

Resiste, con controricorso, assistito da memorie, la Società Cooperativa “L.P.” a r.l.

Considerato che

con il primo motivo di ricorso si deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 12 DL 366/1987 in relazione agli artt. 4 e 35 Cost. nonché dell’art. 7 L. 300/70 deducendosi, in particolare, la disparità di trattamento derivante dall’interpretazione offerta della norma in esame rispetto ai soci lavoratori di altre cooperative;

con il secondo motivo si allega la violazione dell’art. 360 n. 3 e 5 cod. proc. civ. e la violazione dell’art. 7 L. n. 300/70 in relazione al fatto che l’assenza avrebbe dovuto essere contestata al lavoratore e che solo all’esito della procedura se ne sarebbe potuta disporre l’esclusione; il primo motivo è infondato e, pertanto, non può essere accolto; giova evidenziare, quanto alla dedotta violazione dell’art. 12 del DL n. 366 del 1987, come la Corte territoriale abbia correttamente interpretato e, conseguentemente applicato, il chiarissimo dato letterale della disposizione in esame, secondo cui i soci che risultino assenti dal lavoro senza giustificato motivo sono automaticamente espulsi dalla cooperativa di appartenenza con atto, dovuto, del commissario governativo;

l’assenza dal lavoro per un periodo superiore a quindici giorni, anche non consecutivi, implica, comunque, l’esclusione dalla società e tale disposizione non si applica, per espressa previsione legale, esclusivamente nel caso di assenza per motivi di salute comprovati da apposito certificato rilasciato da medico del Servizio sanitario nazionale e fatto pervenire entro tre giorni al Commissario governativo;

deve reputarsi incontestabile l’impossibilità di applicare la disposizione considerata al S., in assenza dei presupposti legali, atteso che l’impossibilità della prestazione era stata determinata non da malattia, bensì dalla sottoposizione a detenzione domiciliare in esecuzione di pena, in attuazione di decisione del Tribunale di Viterbo divenuta definitiva il 21/09/2006;

quanto alla richiesta di rimessine alla Corte costituzionale, ne ritiene questo Collegio l’assoluta e manifesta infondatezza;

va evidenziato, al riguardo, che il DL n. 366 del 1987 recante, tra l’altro, norme per il finanziamento di lavori socialmente utili nell’area napoletana, prevede, all’art. 10, che questi ultimi siano affidati a società cooperative sottoposte a gestione commissariale;

dalla lettura delle disposizioni in esame, alla luce dei lavori preparatori, si evince che le stesse mirano a garantire, da un lato l’utilizzazione, quali soci lavoratori, di soggetti svantaggiati dei quali lo Stato mira ad assicurare, per quanto possibile, il reinserimento sociale, dall’altro, favorire l’interesse della comunità mediante l’adempimento di lavori socialmente utili, sottoposti al controllo del commissario governativo;

nessun dubbio che le finalità della disposizione speciale soddisfino esigenze connesse alla tutela dei diritti fondamentali del singolo e della collettività, in ordine alle quali appare manifestamente inammissibile qualsivoglia questione di costituzionalità;

quanto al secondo motivo, va premesso come la censura, oltre ad essere inammissibilmente formulata in modo promiscuo, denunciando violazioni di legge o di contratto e vizi di motivazione senza che nell’ambito della parte argomentativa del mezzo di impugnazione risulti possibile scindere le ragioni poste a sostegno dell’uno o dell’altro vizio, determinando una situazione di inestricabile promiscuità, tale da rendere impossibile l’operazione di interpretazione e sussunzione delle censure (v., in particolare, sul punto, Cass. n. 18715 del 2016; Cass. n. 17931 del 2013; Cass. n. 7394 del 2010; Cass. n. 20355 del 2008; Cass. n. 9470 del 2008), nella sostanza contesta l’accertamento operato dalla Corte territoriale in ordine alla ritenuta legittimità della espulsione alla luce proprio della normativa speciale considerata; per quanto concerne, in particolare, la dedotta violazione dell’art. 360, comma 1, n. 5, va rilevato che, in seguito alla riformulazione dell’art. 360, comma 1, n. 5 del cod. proc. civ., disposto dall’art. 54 co. 1, lett. b), del DL 22 giugno 2012 n. 83, convertito con modificazioni nella legge 7 agosto 2012 n. 134 che ha limitato la impugnazione delle sentenze in grado di appello o in unico grado per vizio di motivazione alla sola ipotesi di “omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”, con la conseguenza che, al di fuori dell’indicata omissione, il controllo del vizio di legittimità rimane circoscritto alla sola verifica della esistenza del requisito motivazionale nel suo contenuto “minimo costituzionale” richiesto dall’art. 111, comma 6, Cost. ed individuato “in negativo” dalla consolidata giurisprudenza della Corte -formatasi in materia di ricorso straordinario- in relazione alle note ipotesi (mancanza della motivazione quale requisito essenziale del provvedimento giurisdizionale; motivazione apparente; manifesta ed irriducibile contraddittorietà; motivazione perplessa od incomprensibile) che si convertono nella violazione dell’art. 132, comma 2, n. 4), c.p.c. e che determinano la nullità della sentenza per carenza assoluta del prescritto requisito di validità (fra le tante, Cass. n. 23940 del 2017) e, come è evidente, nessuna di tali ipotesi ricorre nel caso di specie;

alla luce delle suesposte argomentazioni, il ricorso deve essere respinto; le spese seguono la soccombenza e vanno liquidate come in dispositivo;

sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma dell’art. 1 -bis dell’articolo 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, se dovuto.

P.Q.M.

Respinge il ricorso.

Condanna la parte ricorrente alla rifusione, in favore della parte controricorrente, delle spese di lite, che liquida in complessivi euro 4.500,00 per compensi e 200,00 per esborsi, oltre spese generali al 15% e accessori di legge.

Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, da atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma dell’art. 1 – bis dello stesso articolo 13, se dovuto.