CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 02 agosto 2022, n. 23917
Licenziamento – Operatore socio sanitario – Conciliazione – Rinuncia all’impugnativa – Diritto di prelazione per assunzione a tempo determinato – Esecuzione dell’accordo
Rilevato che
1. Con sentenza n. 459 depositata l’1.12.2020 la Corte di appello di Bologna, confermando la pronuncia del giudice di primo grado e respingendo l’appello di M.D., ha rigettato la domanda proposta nei confronti della C.i.L. a r.l. di declaratoria della nullità e/o illegittimità del licenziamento intimato il 5.2.2015 e di conseguente condanna alla reintegrazione nel posto di lavoro (o, in alternativa, al pagamento di un risarcimento del danno pari a 24 mensilità della retribuzione);
2. la Corte territoriale, per quel che interessa, ha preliminarmente dichiarato inammissibile la domanda di accertamento della illegittimità del licenziamento per violazione dell’art. 24 della legge n. 223 del 1991, essendo stata proposta per la prima volta in sede di note finali prima della rimessione in decisione in primo grado; rilevava che: la D. era stata assunta, con contratto a tempo indeterminato, nel 2002 per svolgere l’attività di Assistente di base e poi Operatore socio sanitario presso la C.R.A.N.R., dalla cui gestione la Cooperativa era stata peraltro privata a seguito di disdetta (del contratto di appalto da parte dell’ASP) nel settembre 2013; a seguito di trattative intercorse con le organizzazioni sindacali, la lavoratrice controfirmava per ratifica il verbale di accordo intervenuto tra organizzazioni sindacali e Cooperativa il 7.11.2013 (verbale che non era stato impugnato, nemmeno nel termine di cui all’art. 2113 cod.civ.), riceveva comunicazione di licenziamento per giustificato motivo oggettivo il 13.11.2013 (con decorrenza da settembre 2014, essendo lavoratrice madre) e confermava presso la Commissione di conciliazione della D.T.L., assistita da un rappresentante sindacale, il suddetto verbale sottoscrivendo un verbale di conciliazione il 8.11.2013 (con il quale, inoltre, rinunciava espressamente all’impugnativa del licenziamento a fronte dell’inserimento in una graduatoria dei lavoratori licenziati per la prelazione in caso di assunzioni, a tempo determinato o indeterminato, presso strutture del territorio cesenate o forlivese; il 16.1.2014 la Cooperativa, in adempimento dell’accordo stipulato il 11.2013, stipulava con la D. un contratto a tempo determinato (in sostituzione di lavoratrice assente), con scadenza il 31.1.2015; la Corte territoriale (rilevato che la lavoratrice aveva adito il Tribunale con ricorso ordinario, ex art. 414 c.p.c., pur se il giudice aveva emesso un decreto di fissazione di udienza ex art. 1, comma 48 della legge n. 92 del 2012, rito c.d. Fornero) riteneva corretta la statuizione del giudice di primo grado che aveva disposto la conversione dal rito c.d. Fornero al rito ordinario ex art. 414 e ss. cod.proc.civ., posto che la lavoratrice non aveva impugnato la delibera di esclusione, quale socia, dalla Cooperativa (delibera adottata in occasione del provvedimento di licenziamento), e, pertanto, ai sensi dell’art. 2 della legge n. 142 del 2001, non poteva chiedere l’applicazione dell’art. 18 della legge n. 300 del 1970 vista la definitività dello scioglimento del rapporto associativo (né era stata avanzata domanda di risarcimento del danno ex art. 8 della legge n. 604 del 1966); la Corte aggiungeva che, in ogni caso, nessuna impugnazione era mai stata avanzata nei confronti del licenziamento intimato il 13.11.2013 (licenziamento che, comunque, si appalesava legittimo) in quanto l’unica impugnazione prodotta dalla D. era stata quella del 9.2.2015 (in ogni caso tardiva) con la quale la lavoratrice aveva impugnato il contratto a termine sottoscritto a seguito dell’accettazione della proposta del 16.1.2014 di avvalersi del diritto di prelazione previsto dall’accordo del 7.11.2013, accordo che (insieme a quello stipulato il 28.11.2013) non presentava alcun profilo di invalidità, né era stato impugnato, ex art. 2113 cod.civ., dalla lavoratrice; infine, la Corte territoriale ha respinto un profilo di inadempimento della Cooperativa riguardo agli accordi stipulati nel novembre 2013 (e, in particolare, alla graduatoria dei lavoratori utile per l’assegnazione a nuovi incarichi temporanei), rilevando che la doglianza era sfornita di prova nell’an e nel quantum, che, nei fatti, la Cooperativa aveva offerto alla lavoratrice un nuovo contratto di lavoro a tempo determinato proprio in esecuzione dell’impegno assunto con i verbali di conciliazione, e che non erano state accertate assunzioni in violazione del diritto di prelazione garantito ai lavoratori;
3. per la cassazione della sentenza propone ricorso la lavoratrice con due motivi; la Cooperativa resiste con controricorso; entrambe le parti hanno depositato memoria;
4. veniva depositata proposta ai sensi dell’art. 380-bis cod.proc.civ., ritualmente comunicata alle parti unitamente al decreto di fissazione dell’adunanza in camera di consiglio;
Considerato che
1. con il primo motivo si denunzia violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2, della legge n. 142 del 3 aprile 2001, secondo cui ai soci di cooperativa con rapporto di lavoro subordinato si applica la legge 20 maggio 1970, n. 300, con esclusione dell’art. 18 ogni volta che venga a cessare, con il rapporto di lavoro, anche quello associativo, comunque per motivi attinenti al medesimo rapporto sociale; la Corte territoriale ha erroneamente escluso l’applicazione dell’art. 18 citato pur se, nel caso di specie, la delibera di esclusione del socio era fondata esclusivamente sul licenziamento (infatti, l’esclusione da socio della D. M., successiva al licenziamento, non è stata in alcun modo motivata da parte della Cooperativa); insomma, il licenziamento del socio lavoratore non rientra fra i casi in cui l’art. 2 della L. n. 142 del 2001 esclude l’applicabilità dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, dovendo tale esclusione essere limitata alle ipotesi di cessazione del rapporto di lavoro derivante dalle cause di estromissione dalla società previste dallo Statuto per ragioni attinenti al rapporto societario (diverse da quelle che possono determinare il licenziamento per giustificato motivo oggettivo), come, ad esempio, la mancata partecipazione ad un certo numero di assemblee o l’omesso versamento della quota sociale; conseguentemente, la lavoratrice poteva invocare l’applicazione dell’art. 18 citato e, dunque, lo svolgimento della causa secondo il rito c.d. Fornero, nell’ambito del quale — nel giudizio di opposizione — è sempre possibile avanzare domande nuove (quale quella dedotta nelle note finali prima della rimessione in decisione in primo grado);
2. con il secondo motivo si denunzia violazione e/o falsa applicazione dell’art. 1976 cod. civ., in relazione agli artt. 1453 e 1455 cod. civ., sussistendo l’inadempimento della cooperativa alla transazione siglata nel novembre 2013, e dunque i presupposti della conseguente domanda di risoluzione per grave inadempimento sia del verbale d’accordo datato 7.11.2013 e sia del processo verbale di conciliazione davanti alla Commissione di Conciliazione di Cesena datato 28.11.2013, con contestuale richiesta di risarcimento danni, ex artt. 1453 e 1455 cod. civ., per avere la Cooperativa proposto alla D.M. il rapporto a tempo determinato (per sostituzione della assenza di una socia lavoratrice dal 01.02.2014 al 31.10.2015) prima della data convenuta per l’efficacia del licenziamento (3.9.2014); si appalesa, pertanto, la nullità del contratto a tempo determinato in denegata ipotesi succedutosi tra le parti, sia a fronte della sua mancanza di causa (il precedente rapporto a tempo indeterminato era ancora in essere tra le parti), sia perché in contrasto con gli “accordi” presi — in denegata quanto non creduta ipotesi — in precedenza;
3. il primo motivo di ricorso è inammissibile;
3.1. le censure non colgono la ratio decidendi perché la ricorrente insiste sulla mancata considerazione della domanda di accertamento della illegittimità del licenziamento per violazione della legge n. 223 del 1991 (mancata adozione del procedimento amministrativo previsto in caso di licenziamento collettivo) ma nulla deduce sulle modalità di proposizione della suddetta domanda che è stata avanzata “nelle note finali prima della rimessione in decisione in primo grado” e dichiarata inammissibile dal giudice di primo grado in quanto “fondata su presupposti totalmente diversi da quelli prospettati nell’atto introduttivo e tale da disorientare la difesa della controparte e da alterare il regolare svolgimento del contraddittorio”;
3.2. questa Corte ha più volte ribadito che le modificazioni della domanda consentite nel processo del lavoro dal primo comma dell’art. 420 cod. proc. civ., previa autorizzazione del giudice e giustificate da gravi motivi, sono quelle che integrano non una ” mutatio” ma soltanto una mera ” emendatio libelli ” , né il rapporto di lavoro può giustificare di per sé la proposizione di ulteriori domande rispetto a quelle già contenute nel ricorso originario, quando la nuova pretesa implichi nuovi presupposti e nuovi accertamenti di fatto, i quali alterano l’oggetto sostanziale dell’azione e i termini della controversia introducendo un diverso tema di indagine, dovendo nel contempo ritenersi ricorrente una consentita “emendatio” allorché cambi solo la qualificazione giuridica della pretesa, rimanendo inalterato il ” thema decidendurn” (Cass. n. 9247 del 2006);
3.3 questa Corte ha, inoltre, affermato che la violazione della disciplina relativa all’introduzione della causa mediante il rito c.d. Fornero può essere dedotta come motivo di impugnazione solo se la parte indichi il concreto pregiudizio alle prerogative processuali derivatole dalla mancata adozione del predetto rito, con conseguente interesse alla relativa rimozione, non potendo ravvisarsi tale pregiudizio nella privazione di “una fase processuale”, considerato che il rito ordinario (nella specie seguito) rappresenta la massima espansione della cognizione integrale, idonea a consentire il migliore esercizio del diritto di difesa (Cass. n. 6754 del 2020);
3.4. ebbene, sia il ricorso ordinario (che, nel caso di specie, è stato promosso, ex art. 414 c.p.c., dalla stessa lavoratrice) sia il giudizio di opposizione quale seconda fase (a cognizione piena) della precedente fase sommaria di un rito c.d. Fornero, sono entrambi disciplinati dagli artt. 414 e ss. c.p.c., e, in particolare, dall’art. 420, primo comma, c.p.c., e il ricorrente non ha, pertanto, dedotto la diversa considerazione che la proposizione di una domanda nuova — effettuata solamente con le note conclusive, prima dell’udienza finale di discussione — avrebbe avuto nell’uno piuttosto che nell’altro rito, non emergendo, a parità di disciplina processuale, alcun pregiudizio a suo carico;
3.5. infine, come anche ribadito dalla sentenza di questa Corte richiamata dal ricorrente (Cass. n. 8386 del 2019, che deduce espressamente di dare continuità all’orientamento statuito dalle Sezioni Unite n. 27436 del 2017), pur in difetto di opposizione alla delibera di esclusione del socio ai sensi dell’art. 2533, comma 2, cod. civ., non è impedita l’azione di impugnativa del recesso, essendo preclusa unicamente la tutela reintegratoria, in considerazione della definitiva cessazione del rapporto associativo, in ragione della previsione di cui all’art. 2, comma 1, della legge n. 142 del 2001, con conseguente inapplicabilità — nel caso di specie, ove nessuna opposizione è stata svolta nei confronti della delibera di esclusione — dell’art. 18 della legge n. 300 del 1970 e, conseguentemente, del c.d. rito Fornero, che tale disciplina presuppone (art. 1, comma 47, legge n. 92 del 2012);
4. il secondo motivo di ricorso è inammissibile;
4.1. deve, in primo luogo, rimarcarsi che in tema di ricorso per cessazione, il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e quindi implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; viceversa, l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma di legge e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di motivazione. Il discrimine tra l’una e l’altra ipotesi – violazione di legge in senso proprio a causa dell’erronea ricognizione dell’astratta fattispecie normativa, ovvero erronea applicazione della legge in ragione della carente o contraddittoria ricostruzione della fattispecie concreta – è segnato dal fatto che solo quest’ultima censura, e non anche la prima, è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa (ex aliis: Cass. 16 luglio 2010 n. 16698; Cass. 26 marzo 2010 n. 7394).
4.2. nella specie è evidente che la ricorrente lamenta la erronea applicazione della legge in ragione della carente o contraddittoria ricostruzione della fattispecie concreta, e dunque, in realtà, non denuncia un’erronea ricognizione della fattispecie astratta recata dalla norma di legge (ossia un problema interpretativo, vizio riconducibile all’art. 360, primo comma, n. 3, cod.proc.civ.) bensì un vizio-motivo, da valutare alla stregua del novellato art. 360, primo comma n. 5 cod.proc.civ., che – nella versione ratione temporis applicabile – lo circoscrive all’omesso esame di un fatto storico decisivo (cfr. sul punto Cass. Sez. U. n. 19881 del 2014), riducendo al “minimo costituzionale” il sindacato di legittimità sulla motivazione (Cass. Sez. U. n. 8053 del 2014);
4.3. nessuno di tali vizi ricorre nel caso in esame e la motivazione non è assente o meramente apparente, né gli argomenti addotti a giustificazione dell’apprezzamento fattuale risultano manifestamente illogici o contraddittori: la sentenza impugnata ha ampiamente esaminato i fatti controversi ed accertato che la doglianza di inadempimento della Cooperativa agli accordi assunti nel novembre 2013 era sfornita di prova nell’an e nel quantum, poiché, nei fatti, il datore di lavoro aveva offerto alla lavoratrice un nuovo contratto di lavoro a tempo determinato proprio in esecuzione dell’impegno assunto e che non erano state accertate assunzioni in violazione del diritto di prelazione garantito ai lavoratori;
5. da ultimo, considerato il contenuto della memoria depositata ex art. 380 bis cod.proc.civ. dal ricorrente, va rammentato che dette memorie non possono integrare o ampliare il contenuto dei motivi di ricorso e non possono introdurre nuove censure o sollevare questioni nuove (Cass. SS.UU: n. 11097/2006; Cass. n. 28855/2005; Cass. n. 14570/2004);
6. l’inammissibilità del ricorso supera ogni profilo di improcedibilità ricollegabile alla mancata ricezione, da parte del sistema informatico, del ricorso trasmesso su file con estensione “.enc”;
7. in conclusione, il ricorso va dichiarato inammissibile, con condanna del ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo;
8. sussistono le condizioni di cui all’art. 13, comma 1 quater, d.P.R.115 del 2002;
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità, liquidandole in euro 200,00 per esborsi e in euro 4.000,00 per compensi professionali, oltre spese generali pari al 15 % e accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 20012, n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.
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