CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 02 agosto 2022, n. 23952
Attività di consulenza fiscale – Accertamento fiscale nei confronti dei clienti – Imperita esecuzione della prestazione professionale – Risarcimento danni – Legittimità
Fatti di causa
1. La società commerciale “S.V.P. S.r.l.” (che in seguito muterà ragione sociale in M. s.r.l., e come tale sarà d’ora innanzi indicata) esercitava l’attività di consulenza fiscale, ed aveva tra i suoi clienti le società:
a) M.U. & C. s.n.c.;
b) “C.E.f.M.” s.d.f..
2. Nel 2010 l’amministrazione finanziaria, all’esito di attività ispettiva della Guardia di finanza, contestò varie irregolarità fiscali alle due società suddette. Ne scaturì l’emissione di sei avvisi di accertamento a carico della M.U. & C. s.n.c.; della “C.E.f.M.” s.d.f.; e dei rispettivi soci, ovvero M.D.M. e D.M..
3. Nel 2014 le due società suddette ed i rispettivi soci convennero dinanzi al Tribunale di Asti la M. s.r.l., assumendo che le contestazioni erariali erano scaturite dalle improvvide scelte operative e dalla carente assistenza e consulenza prestate dalla convenuta, e ne chiesero la condanna al risarcimento del danno, quantificato in circa 9.000 euro.
4. Il Tribunale di Asti declinò la propria competenza per valore; i quattro attori riassunsero allora separatamente le rispettive domande dinanzi al Giudice di pace di Asti. Per quanto in questa sede rileva, quel Giudice con sentenza 22.5.2017 n. 320 accolse la domanda della “C.E.f.M. s.d.f.” (d’ora innanzi, per brevità, “la CEFM”), condannando la M. al pagamento in suo favore di euro 1.971,41.
La sentenza fu appellata dalla soccombente.
5. Il Tribunale di Asti, con sentenza 25 novembre 2019 n. 990, accolse parzialmente il gravame; ridusse il quantum debeatur alla minor somma di euro 1.112,50; condannò la M. alla rifusione delle spese del primo grado e compensò quelle d’appello.
6. La sentenza d’appello è stata impugnata per cassazione dalla M. con ricorso fondato su cinque motivi ed illustrato da memoria.
La CEFM ha resistito con controricorso.
Ragioni della decisione
1. Va preliminarmente rilevato come il ricorso sia tempestivo, e non può dunque condividersi la proposta formulata dal consigliere relatore ai sensi dell’art. 380 bis c.p.c..
Il periodo di sospensione dei termini processuali disposto dall’art. 83 d.l. 18/20 è stato infatti di 64 giorni, e non di 63, come invece supposto dalla proposta suddetta.
2. Col primo motivo la società ricorrente prospetta, ai sensi dell’articolo 360, n. 4, c.p.c., la nullità della sentenza per violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato.
Nella illustrazione del motivo si sostiene una tesi così riassumibile:
-) il Tribunale ha accertato una imperita esecuzione della propria prestazione professionale da parte del dottore commercialista C.V.;
-) ha, per l’effetto, condannato la M. s.r.l. (già “S.V.P. s.r.l.”) al risarcimento del danno;
-) l’attore, tuttavia, non aveva mai invocato la responsabilità della M. per il fatto del dott. V., ai sensi dell’art. 1228 c.c..
1.1. Il motivo è infondato.
Nell’atto introduttivo del giudizio, per come trascritto a pagina 11 del ricorso, l’attore domandò la condanna della società convenuta per avere adempiuto in modo negligente le obbligazioni contrattualmente assunte di assistenza fiscale.
Ed il Tribunale, per l’appunto, ha condannato la società convenuta per avere adempiuto in modo negligente le proprie obbligazioni: dunque non vi fu nessuno iato fra domanda e condanna.
La circostanza, poi, che la società convenuta sia stata condannata per il fatto di un proprio collaboratore, piuttosto che per il fatto proprio, non costituisce violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato: sia perché la condanna è comunque avvenuta per le condotte descritte nell’atto di citazione introduttivo del giudizio (assistenza e consulenza deficitarie); sia perché una società commerciale ovviamente, se arreca un danno ai propri clienti, non può che farlo per il tramite delle persone fisiche della cui opera si avvale.
2. Col secondo motivo la società ricorrente prospetta, ai sensi dell’articolo 360, n. 3, c.p.c., la violazione degli articoli 1228 e 2232 c.c. Nella illustrazione del motivo si prospetta una tesi così riassumibile:
-) la società M. è stata condannata al risarcimento del danno per fatti commessi da C.V.;
-) C.V. tuttavia era soltanto socio ed amministratore della M.;
-) il Tribunale non aveva mai accertato in punto di fatto che la M. avesse conferito a C.V. l’incarico di eseguire le prestazioni professionali da cui derivò il danno lamentato dalla CEFM.
2.1. Il motivo è inammissibile.
Lo stabilire, infatti, se una determinata prestazione professionale sia resa dal professionista per conto proprio o su incarico di una società commerciale; così come lo stabilire se una società commerciale si avvalga o non si avvalga dell’opera di un determinato professionista sono altrettante questioni di fatto, riservate al giudice di merito ed insindacabile in sede di legittimità.
3. Col terzo motivo la ricorrente lamenta, ai sensi dell’articolo 360, n. 3, c.p.c., la violazione delle norme sulla causalità.
Questo motivo impugna la sentenza nella merito nella parte in cui ha ritenuto esistente un nesso di causa fra il danno lamentato dall’attrice, rappresentato dalle sanzioni irrogate dall’amministrazione finanziaria, e la condotta della M..
Il motivo, sebbene formalmente unitario, contiene in realtà due censure.
3.1. Con una prima censura la ricorrente sostiene che, contrariamente a quanto ritenuto dal giudice di merito, non vi era alcuna consequenzialità fra l’imperizia ascritta alla M. (erronea compilazione della dichiarazione dei redditi) e la sanzione irrogata alla CEFM dall’amministrazione finanziaria: quest’ultima, infatti, venne irrogata per mancata dichiarazione del maggior reddito d’impresa, per il mancato versamento delle addizionali regionali e comunali, nonché dei contributi previdenziali.
3.1.1. Questa prima censura è inammissibile.
Il Tribunale ha ritenuto che:
-) il danno patito dalla CEFM in conseguenza dell’inadempimento del commercialista fosse pari alle sanzioni ad essa irrogate dall’amministrazione finanziaria;
) “l’unico documento cui poter fare riferimento” per la determinazione del quantum debeatur era l’avviso di accertamento T7LCO1200292.
In contrasto con tale valutazione, la ricorrente sostiene tuttavia che quell’avviso di accertamento avrebbe irrogato sanzioni per infedeltà del contribuente diverse da quelle scaturenti dall’opera del consulente fiscale.
È dunque evidente che la società qui ricorrente, con il motivo in esame, sta chiedendo a questa Corte di sindacare la interpretazione di una prova documentale adottata dal Tribunale: dunque domanda una valutazione riservata al giudice di merito ed insindacabile in sede di legittimità.
3.2. Con una seconda censura la società ricorrente sostiene una tesi così riassumibile:
-) il Tribunale ha ascritto a responsabilità della M. l’irrogazione alla contribuente, da parte dell’amministrazione finanziaria, di una sanzione per la mancata emissione delle fatture inerenti le operazioni commerciali intercorse fra la M.U. & C. s.n.c. e la “C.E.f.M.” s.d.f.;
-) il consulente fiscale, tuttavia, non ha alcun obbligo di “verificare la mancata emissione delle fatture”, obbligo che compete agli organi di polizia tributaria.
3.2.1. Il motivo è manifestamente infondato.
Il giudice di merito, con accertamento di fatto non sindacabile in questa sede, ha accertato che:
-) le società M.U. & C. s.n.c. e “C.E.f.M.” s.d.f. avevano per soci le stesse persone;
-) la seconda di esse venne costituita, su consiglio della M., per gestire la transizione dell’impresa individuale esercitata dal defunto U.M. ai suoi due nipoti, i fratelli D. e M.D.M.;
-) per effetto del suddetto meccanismo, la società “C.E.” vendeva ai propri clienti merci prelevate dal magazzino della società M.U. & C. s.n.c., senza documentarne fiscalmente la provenienza: in sostanza, la società “C.E.” risultava avere venduto merci senza prima averle acquistate.
In presenza di tali circostanze di fatto, sulle quali si è formato il giudicato interno, correttamente il giudice di merito ha ritenuto che era onere del soggetto cui era stata affidata l’attività di consulenza e assistenza fiscale avvedersi della irregolarità del suddetto assetto.
Qui, infatti, non ci troviamo dinanzi al caso di una società commerciale che svolga operazioni commerciali senza emettere fattura, e delle quali il consulente fiscale sia incolpevolmente ignaro.
Qui ci troviamo dinanzi al caso di una società commerciale che ha svolto operazioni commerciali senza emettere fattura in virtù e in esecuzione di un assetto dato all’attività d’impresa proprio su indicazione e consiglio del consulente fiscale, secondo quanto accertato dal Giudice di pace e confermato dal Tribunale.
Erra, dunque, la società ricorrente là dove assume che “non è obbligo del commercialista” accertare se il cliente abbia assolto l’obbligo di fatturazione.
È certo che non è obbligo del commercialista accertare se il cliente abbia assolto l’obbligo di fatturazione, ma non è men certo che è obbligo del commercialista preoccuparsi delle ricadute fiscali dei consigli dati al cliente circa la veste formale dietro la quale svolgere l’attività d’impresa.
4. Col quarto motivo la società ricorrente prospetta il vizio di omesso esame d’un fatto decisivo.
Sostiene che il Tribunale avrebbe “omesso di esaminare l’eccezione formulata dalla M. in ordine all’insussistenza del nesso di causa fra il dedotto inadempimento e il danno”.
4.1. L’esame del vizio di omesso esame d’un fatto decisivo è precluso dalla pronuncia di una doppia decisione conforme nei gradi di merito (art. 348 ter, quinto comma, c.p.c.).
Il vizio di “omessa pronuncia”, che sembra adombrato dalla ricorrente al secondo capoverso di pagina 21, è anch’esso insussistente, dal momento che il Tribunale, accogliendo la domanda, ha per ciò solo dimostrato di ritenere esistente un valido nesso di causa fra la condotta della M. e il danno.
Infine, qualsiasi questione concernente l’esistenza o l’inesistenza del nesso di causa fra la condotta della M. e il danno è questione di puro fatto, riservata al giudice di merito ed insindacabile in sede di legittimità (ex plurimis, Sez. 3, Sentenza n. 4439 del 25/02/2014, Rv. 630127 – 01).
5. Col quinto motivo la ricorrente prospetta la violazione, ai sensi dell’articolo 360, n. 3, c.p.c., degli articoli 1223, 1227, 2697 c.c.; nonché degli articoli 115 e 116 c.p.c..
Il motivo, sebbene formalmente unitario, contiene due censure.
Con una prima censura la ricorrente sostiene che erroneamente il Tribunale ha ritenuto sussistente un danno a carico della CEFM, nonostante questa non avesse mai dimostrato di avere effettivamente versato all’erario le sanzioni irrogatele in conseguenza delle infedeltà fiscali derivate degli errori del proprio commercialista.
Con una seconda censura il ricorrente sostiene che il Tribunale ha “trascurato di valutare” l’eccezione di concorso colposo del danneggiato, sollevata dalla madre ma ai sensi dell’articolo 1226 c.c. a pagina 18 dell’atto di appello. Spiega la ricorrente, a tal riguardo, che la CEFM avrebbe potuto evitare il pagamento delle sanzioni degli interessi se si fosse avvalsa della “definizione agevolata” del contenzioso tributario prevista dall’articolo 6 del decreto-legge 22 ottobre 2016 n. 193.
5.1. La prima delle due censure contenute nel quinto motivo di ricorso è infondata.
Il “danno civile”, infatti, può essere rappresentato sia da una perdita pecuniaria, sia dall’insorgenza d’un debito nel patrimonio del danneggiato (così, da ultimo, Sez. 3, Sentenza n. 14982 del 11.5.2022, in motivazione), dal momento che è conforme ad una regola di normalità che i debiti siano pagati.
La tesi sostenuta dalla società ricorrente, invece, introdurrebbe in materia di responsabilità civile una sorta di (inesistente) principio del solve et repete, in virtù del quale il danneggiato nessun risarcimento potrebbe pretendere, se non dimostrasse che il debito sorto in conseguenza del fatto illecito sia stato onorato.
Ovviamente ben può accadere che il creditore del danneggiato possa perdere il proprio credito per prescrizione, rimessione, o qualsiasi altra causa estintiva: ma tale circostanza costituisce un fatto impeditivo della pretesa risarcitoria, che come tale va allegato e dimostrato da chi lo invoca.
5.2. La seconda delle suesposte censure è invece inammissibile.
L’eccezione del cui omesso esame la società ricorrente si duole rientra nella previsione di cui al secondo comma dell’art. 1227 c.c.: ed infatti il non avvalersi di un provvedimento normativo di condono è una condotta che non causa il danno, ma aggrava quello già prodotto dal fatto illecito o dall’inadempimento.
L’eccezione di aggravamento del danno di cui all’art. 1227, comma secondo, c.c., non è rilevabile d’ufficio, ma è riservata all’iniziativa di parte (ex multis, Sez. 3 – , Ordinanza n. 19218 del 19/07/2018, Rv. 649740 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 12714 del 25/05/2010, Rv. 613017 – 01).
5.2.1. Nel caso di specie, l’art. 6 d.l. 193/16, il quale introdusse la “definizione agevolata” dei crediti vantati dall’erario entrò in vigore il giorno stesso della sua pubblicazione in Gazzetta Ufficiale, ovvero il 24.10.2016.
La sentenza conclusiva del giudizio di primo grado è stata depositata il 22.5.2017.
La M., tuttavia, afferma nel ricorso che la suddetta eccezione di concorso di colpa del danneggiato, ex art. 1227, secondo comma, c.c., venne sollevata nell’atto d’appello.
Ma trattandosi di eccezione non rilevabile d’ufficio, essa non poteva essere proposta per la prima volta in grado di appello.
Può concedersi che la suddetta eccezione non era nemmeno concepibile al momento dell’introduzione del giudizio di primo grado (2015), giacché a quell’epoca il d.l. 193/16 era di là da venire.
Tuttavia il suddetto provvedimento di condono venne comunque promulgato in pendenza del giudizio di primo grado, sicché non era impossibile per la M. – previa, occorrendo, istanza di rimessione in termini, ex art. 153 c.p.c. – sollevare l’eccezione di cui si discorre dinanzi al Giudice di pace.
Sicché, in mancanza di qualsiasi indicazione al riguardo da parte della ricorrente, deve ritenersi che l’eccezione di cui si discorre sia stata sollevata per la prima volta in appello, e dunque tardivamente.
6. Le spese del presente giudizio di legittimità seguono la soccombenza, ai sensi dell’art. 385, comma primo, c.p.c., e sono liquidate nel dispositivo.
P.Q.M.
(-) Rigetta il ricorso;
(-) Condanna M. s.r.l. alla rifusione in favore della CEFM delle spese del presente giudizio di legittimità, che si liquidano nella somma di euro 1.400, di cui 200 per spese vive, oltre I.V.A., cassa forense e spese forfettarie ex art. 2, comma 2, d.m. 10.3.2014 n. 55;
(-) Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.
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