CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 02 dicembre 2020, n. 27476
Tributi – Accertamento – Studi di settore – Adeguamento al ricavo puntuale anziché al minimo – Utilizzo di una mera metodologia statistica – Illegittimità
Premesso che
l’Agenzia delle entrate ha proposto ricorso avverso la sentenza n. 845/63/2012, depositata il 20.11.2012 dalla Commissione Tributaria Regionale della Lombardia, sez. stac. di Brescia, con la quale, in riforma della sentenza di primo grado, era accolto il ricorso di R.I. avverso l’avviso di accertamento relativo all’anno d’imposta 2004, notificato all’esito di una verifica che, rilevando lo scostamento dallo studio di settore applicato, aveva induttivamente rideterminato i ricavi del contribuente, accertando maggiori imposte a titolo di Irpef, Irap ed Iva.
Il ricorso era stato rigettato dalla Commissione Tributaria Provinciale di Mantova, con sentenza n. 81/02/2011. L’appello proposto dal contribuente era stato invece accolto con la decisione ora al vaglio della Corte. Il giudice regionale ha ritenuto insufficiente per l’accertamento del maggior reddito l’utilizzo di una mera metodologia statistica, così come ha qualificato come generici gli errori contabili rilevati dall’Amministrazione, e sfornito di motivazione l’adeguamento del reddito ai ricavi puntuali anzicché a quelli minimi.
L’Agenzia delle entrate ha censurato la decisione con cinque motivi: con il primo per violazione dell’art. 62 sexies del d.l. 30 agosto 1993, n. 331, conv. con modificazioni in I. 29 ottobre 1993, n. 427, in relazione all’art. 360, primo comma, nn. 3 e 5 cod. proc. civ., per non aver tenuto conto che in sede di contraddittorio il contribuente aveva l’onere di provare le ragioni dello scostamento dello studio di settore applicabile, non dimostrate neppure nel corso del giudizio;
con il secondo per violazione dell’art. 2727 cod. civ., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3 cod. proc. civ., per l’erronea applicazione dei principi sulla prova presuntiva;
con il terzo per violazione dell’art. 62 sexies, dl. n. 331 del 1993, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3 cod. proc. civ., per aver erroneamente sostenuto che l’Ufficio dovesse spiegare il procedimento di calcolo al contribuente, senza tener conto che lo studio di settore contiene già tutti gli elementi per determinare il reddito;
con il quarto per violazione dell’art. 57, d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4 cod. proc. civ., per aver accolto la denuncia di genericità della contestazione di molti errori di contabilità, che invece il contribuente non aveva mai sollevato;
con il quinto per omesso esame di un fatto decisivo, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 5 cod. proc. civ., per non aver esaminato se per la determinazione del reddito fosse stato applicato il valore puntuale o quello minimo, laddove l’atto impositivo faceva riferimento alla media dei minimi.
Ha chiesto dunque la cassazione della sentenza, con decisione nel merito.
Si è costituito il contribuente, che ha eccepito l’inammissibilità dei motivi di ricorso e nel merito la loro infondatezza, chiedendone dunque il rigetto.
La causa è stata trattata e decisa nell’adunanza camerale dell’8 settembre 2020.
Considerato che
I primi tre motivi, che possono essere trattati unitariamente perché tra loro connessi, criticando la decisione per malgoverno della disciplina sulle prove presuntive, sono infondati. L’Agenzia ha denunciato la violazione e falsa applicazione dell’art. 62 sexies del d.l. n. 331 del 1993 e dell’art. 2727 cod. civ., per non aver tenuto conto degli oneri probatori gravanti sul contribuente sin dalla fase del contraddittorio endoprocedimentale, nonché delle specificità degli studi di settore, già in sé contenenti gli elementi di determinazione del reddito.
Deve premettersi che, come afferma la giurisprudenza con orientamento ormai consolidato, la procedura di accertamento tributario standardizzato mediante l’applicazione dei parametri o degli studi di settore costituisce un sistema di presunzioni semplici, la cui gravità, precisione e concordanza non è ex lege determinata dallo scostamento del reddito dichiarato rispetto agli standard in sé considerati -meri strumenti di ricostruzione per elaborazione statistica della normale redditività- ma nasce solo in esito al contraddittorio da attivare obbligatoriamente con il contribuente, pena la nullità dell’accertamento. In tale sede quest’ultimo ha l’onere di provare, senza limitazione alcuna di mezzi e di contenuto, la sussistenza di condizioni che giustificano l’esclusione dell’impresa dall’area dei soggetti cui possono essere applicati gli standard o la specifica realtà dell’attività economica nel periodo di tempo in esame, mentre la motivazione dell’atto di accertamento non può esaurirsi nel rilievo dello scostamento, ma deve essere integrata con la dimostrazione dell’applicabilità in concreto dello standard prescelto e con le ragioni per le quali non sono state ritenute attendibili le allegazioni del contribuente. L’esito del contraddittorio tuttavia non condiziona l’impugnabilità dell’accertamento, potendo il giudice tributario liberamente valutare tanto l’applicabilità degli standard al caso concreto, il cui onere probatorio grava sull’ente impositore, quanto la controprova offerta dal contribuente (Cass., Sez. U., 18/12/2009, n. 26635; più di recente, 31/05/2018, n. 13908; 12/04/2017, n. 9484; 20/09/2017, n. 21754; 07/06/2017, n. 14091). Attese quindi le conseguenze derivanti dalla ripartizione dell’onere probatorio, si è anche affermato che ogni qual volta il contraddittorio sia stato regolarmente attivato e il contribuente abbia omesso di parteciparvi, oppure, anche partecipando, non abbia allegato alcunché per spiegare lo scostamento, l’Ufficio non è più tenuto ad offrire alcuna ulteriore dimostrazione della pretesa esercitata in ragione del semplice disallineamento del reddito dichiarato rispetto ai menzionati parametri (cfr. Cass., 20/09/2017, n. 21754 cit.; da ultimo anche 30/10/2018, n. 27617 e 20/06/2019, n. 16545). In questo caso infatti la rilevazione dello scostamento, a fronte dell’assenza di elementi con cui il contribuente ne spieghi la sussistenza, assume la dignità di indizio grave e preciso, idoneo, pur se unico, a supportare la dimostrazione del fatto ancora sconosciuto, ai sensi dell’art. 2729 cod. civ.
Così perimetrato l’alveo applicativo sulle regole di accertamento riconducibili agli studi di settore, l’Ufficio ha criticato le modalità di governo delle prove presuntive alla luce delle emergenze del giudizio. In particolare ha ritenuto che il contribuente non aveva fornito alcuna prova a sostegno del reddito dichiarato, che a sua volta invece si discostava dal cluster applicabile al suo settore.
A parte che il primo motivo sfiora l’inammissibilità perché tronco nella sua esposizione, anche a voler ammettere che quanto scritto sia sufficiente a comprenderne il senso, dalla lettura della sentenza impugnata, compresa la parte espositiva, emerge che il giudice regionale ha tenuto conto delle difese del contribuente, quali la sua specifica situazione (le difficoltà incontrate dall’esercizio commerciale per la vicinanza ad uno stabilimento chimico, che lo indusse di lì a breve a trasferire l’attività altrove) e la contestazione delle incongruenze contabili addebitate dall’Ufficio, che aveva considerato il valore dei beni strumentali al costo storico, anche se obsoleti.
Ebbene, è in ragione delle spiegazioni e delle contestazioni articolate dal contribuente nel corso del giudizio che la commissione regionale, sebbene con un ragionamento poco perspicuo, ha ritenuto inadeguato l’accertamento del reddito con il solo ausilio dei dati statistici relativi agli studi di settore, e ciò in conformità ai principi di diritto applicati in materia e sopra esposti.
Anche con il secondo motivo, quando non ne vada dichiarata l’inammissibilità per la genericità con cui è formulato, l’Agenzia mostra di non cogliere nel segno, perché, denunciando che il giudice d’appello non avrebbe riconosciuto tout court valore di prova presuntiva allo studio di settore, non tiene conto degli elementi complessivi considerati dal giudice d’appello per quanto già chiarito con l’esame di primo motivo.
Medesime conclusioni possono affermarsi con riguardo al terzo motivo.
Infondato è poi il quarto motivo, con il quale ci si duole della nullità della sentenza perché viziata da ultrapetizione. Il giudice, secondo la prospettazione dell’Agenzia delle entrate, laddove ha dichiarato che <<il riferimento ai molti errori nella compilazione è generico», avrebbe trattato di una questione mai sollevata nel ricorso. Sennonché, a parte lo scarso rilievo del passaggio motivazionale rispetto al ragionamento complessivo del giudice regionale, proprio dalla lettura del ricorso introduttivo del R. si evince che l’atto impositivo era stato contestato nella sua interezza, per cui non può condividersi la denuncia di ultrapetizione della decisione.
Inammissibile infine è il quinto motivo, con il quale si denuncia un vizio di motivazione per l’omesso esame di un fatto decisivo che è stato oggetto di discussione tra le parti. Il fatto su cui sarebbe stato omesso l’esame è la contestazione secondo cui l’Ufficio avrebbe determinato il reddito sulla base del ricavo puntuale e non di quello minimo.
Il motivo appare incomprensibile perché la decisone ha espressamente affermato che «l’adeguamento è stato effettuato senza particolari motivazioni al ricavo puntuale anzicché al minimo…». Ciò significa che sulla questione la Commissione regionale si è pronunciata.
Se invece con il motivo di censura l’Agenzia voleva dolersi della circostanza che nell’avviso di accertamento emergeva che il calcolo dei maggiori ricavi era stato eseguito «facendo la media dei minimi», e dunque travisando i dati, la difesa avrebbe dovuto agire in revocazione e non per vizio di motivazione.
Il ricorso va pertanto rigettato.
Alla soccombenza segue la condanna della ricorrente alle spese del giudizio di legittimità, che si liquidano nella misura specificata in dispositivo. Rilevato che risulta soccombente una parte ammessa alla prenotazione a debito del contributo unificato per essere amministrazione pubblica difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato non si applica l’art. 13 comma 1- quater, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso. Condanna l’Agenzia delle entrate alla rifusione in favore di R.I. delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in € 3.800,00 per competenze, oltre spese generali nella misura forfettaria del 15% e accessori di legge.
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