CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 02 luglio 2018, n. 17213
Tributi – IRPEF – Accertamento sintetico del reddito – Incrementi patrimoniali – Prova a carico del contribuente – Possesso di redditi esenti o redditi soggetti a ritenute alla fonte a titolo di imposta – Entità di tali redditi e durata del loro possesso – Idonea documentazione
Rilevato
che la Corte, costituito il contraddittorio camerale sulla relazione prevista dall’art. 380 bis c.p.c. delibera di procedere con motivazione semplificata;
che B.V. propone ricorso per cassazione nei confronti della sentenza della Commissione tributaria regionale della Campania che aveva respinto il suo appello contro la decisione della Commissione tributaria provinciale di Napoli.
Quest’ultima, a sua volta, aveva rigettato l’impugnazione del contribuente avverso un avviso di accertamento relativo ad IRPEF per l’anno 2006;
Considerato
che il ricorso è affidato a quattro motivi;
che, col primo, il V. invoca violazione e falsa applicazione degli artt. 32 comma 10 nn. 2 e 7, 36 e 61 D.Lgs. n. 546/1992, in relazione all’art. 360 nn. 3 e 5 c.p.c.: la motivazione della sentenza sarebbe stata apparente e parziale, non avendo tenuto conto delle prove documentali fornite in giudizio, attraverso le quali il ricorrente avrebbe dimostrato la provenienza delle somme utilizzate per il contestato incremento patrimoniale;
che, col secondo, il ricorrente assume la violazione del giudicato esterno, ai sensi dell’art. 2909 c.c., in relazione all’art. 360 n. 4 c.p.c.: la CTR non avrebbe dato alcun rilievo all’intervenuto giudicato di due sentenze della CTP napoletana (nn. 23470/37/14 e 7091/29/16) di accoglimento del ricorso rispettivamente per gli anni 2007 e 2008, nonostante l’identità degli elementi processuali dei giudizi;
che, col terzo, il contribuente denuncia ancora violazione e falsa applicazione dell’art. 38 comma 6° DPR n. 600/1973, giacché la decisione impugnata non avrebbe tenuto conto della dimostrazione del contribuente circa il possesso dei redditi esenti, commettendo una serie di errori nella determinazione della plusvalenza;
che, da ultimo, il ricorrente rileva la violazione e falsa applicazione dell’art. 92 comma 2° c.p.c., avendo i giudici di appello disposto la sua condanna alle spese, nonostante l’esistenza del pregresso giudicato su questione identica ed in considerazione della giurisprudenza altalenante della Suprema Corte;
che l’Agenzia si è costituita con controricorso;
che il primo motivo è infondato;
che infatti, in tema di processo tributario, è nulla, per violazione degli artt. 36 e 61 del d.lgs. n. 546 del 1992, nonché dell’art. 118 disp. att. c.p.c., la sentenza della commissione tributaria regionale solo allorquando sia completamente carente dell’illustrazione delle critiche mosse dall’appellante alla statuizione di primo grado e delle considerazioni che hanno indotto la commissione a disattenderle e che si sia limitata a motivare per relationem alla sentenza impugnata mediante la mera adesione ad essa, atteso che, in tal modo, resta impossibile l’individuazione del thema decidendum e delle ragioni poste a fondamento del dispositivo e non può ritenersi che la condivisione della motivazione impugnata sia stata raggiunta attraverso l’esame e la valutazione dell’infondatezza dei motivi di gravame (Sez. 6-5, n. 15884 del 26/06/2017; Sez. 5, n. 13148 del 11/06/2014);
che, nella specie, la decisione impugnata appare coerentemente motivata, mediante il richiamo alla normativa di riferimento ed attraverso la spiegazione dell’inidoneità della documentazione prodotta a suffragare l’assunto del contribuente;
che il secondo motivo è infondato, giacché il giudicato del 2014 non risulta dedotto in sede di merito, mentre quello del 2016 non è allegato ed è richiamato in modo generico e non documentato;
che il terzo motivo è infondato;
che questa Corte (Sez. 5, n. 8995 del 18/4/2014) ha chiarito i confini della prova contraria a carico del contribuente, specificando che “a norma del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 38, comma 6, l’accertamento del reddito con metodo sintetico non impedisce al contribuente di dimostrare, attraverso idonea documentazione, che il maggior reddito determinato o determinabile sinteticamente è costituito in tutto o in parte da redditi esenti o da redditi soggetti a ritenute alla fonte a titolo di imposta, tuttavia la citata disposizione prevede anche che “l’entità di tali redditi e la durata del loro possesso devono risultare da idonea documentazione”;
che, in sostanza, la norma chiede qualcosa di più della mera prova della disponibilità di ulteriori redditi (esenti ovvero soggetti a ritenute alla fonte), e, pur non prevedendo esplicitamente la prova che detti ulteriori redditi sono stati utilizzati per coprire le spese contestate, chiede tuttavia espressamente una prova documentale su circostanze sintomatiche del fatto che ciò sia accaduto (o sia potuto accadere): in tal senso va letto lo specifico riferimento alla prova (risultante da idonea documentazione) della entità di tali eventuali ulteriori redditi e della “durata” del relativo possesso, previsione che ha l’indubbia finalità di ancorare a fatti oggettivi (di tipo quantitativo e temporale) la disponibilità di detti redditi per consentire la riferibilità della maggiore capacità contributiva accertata con metodo sintetico in capo al contribuente proprio a tali ulteriori redditi, escludendo quindi che i suddetti siano stati utilizzati per finalità non considerate ai fini dell’accertamento sintetico;
che, nella specie tale prova, come emerge dalla sentenza della CTR, non è stata fornita dal contribuente sotto il profilo della continuità (“manca infatti qualsiasi elemento documentale da cui possa desumersi non solo l’effettivo incasso della somma di cui si discute, ma anche la permanenza della sua disponibilità all’epoca degli investimenti contestati”);
che l’ultimo motivo è infondato;
che, in tema di compensazione delle spese processuali ex art. 92 cod. proc. civ., (nel testo applicabile “ratione temporis), poiché il sindacato della Suprema Corte è limitato ad accertare che non risulti violato il principio secondo il quale le spese non possono essere poste a carico della parte vittoriosa, esula da tale sindacato e rientra nel potere discrezionale del giudice di merito la valutazione dell’opportunità di compensare, in tutto o in parte, le spese di lite (Sez. 5, n. 20457 del 06/10/2011);
che il ricorso va dunque respinto;
che al rigetto del ricorso segue la condanna del ricorrente alla rifusione delle spese processuali in favore della controricorrente, nella misura indicata in dispositivo;
che, ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17 della I. n. 228 del 2012, va dato atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso articolo 13.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso.
Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che liquida, a favore dell’Agenzia delle Entrate, in euro 2.500, oltre spese prenotate a debito.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17 della I. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso articolo 13.